Classe dirigente a Bagnoli Irpino in tre momenti storici significativi: 1648-49, 1820-21, 1948.

Lezione tenuta nell’Aula consiliare di Bagnoli Irpino il 31 Otttobre e l’1 Novembre 2008

E’ esistita a Bagnoli una classe dirigente capace di traversare i secoli, dalla società di antico regime fino all’età delle rivoluzioni? Come ha esercitato egemonia e realizzato il suo comando sulla società locale?

Introduzione.

La classe dominante. Le classi dirigenti. Definizione.

Maggioranza caotica. Minoranze liquide. Minoranze organizzate. Gruppi dirigenti plurali.

Sviluppo del tema.

A- Uno spaccato sociologico della Bagnoli d’antico regime. Gente laboriosa, manufattrice e mercadante, che trae profitto da tutte le risorse locali. Il Catasto Onciario del 1754 rivela: 3358 abitanti; 24 preti; 7 dottori in legge; 3 medici e 3 farmacisti; 25 fra viventi nobilmente e civilmente; 479 braccianti; 118 addetti al legname dei boschi demaniali; 91 calzolai; 248 operai addetti a diversi altri mestieri; 2 commercianti di vettovaglie; 17 negozianti di miele; 2 commercianti di telerie; negozianti di panni e commercianti girovaghi (non precisati); 4 negozianti di legnami; numerosi vetturali; 3 fabbricanti di maccheroni; 4 speziali; 21 custodi di pecore; 3500 circa gli animali tra pecore, vacche, capre, buoi aratori e maiali. La società bagnolese ha una struttura gerarchica prevalentemente orizzontale.

B- Bagnoli nella storia. Tre esemplificazioni. Le ragioni della scelta stanno nei legami che in tutte e tre queste occasioni si sono registrati tra opzioni locali e grandi appuntamenti nazionali e internazionali. Dalle tre esperienze, a distanza di circa 150 anni l’una dall’altra, emergono luci e ombre dei ceti dirigenti bagnolesi ma anche, pur fra contraddizioni, la modernità e la serietà delle loro scelte. Non bisogna voler trovare nella “storia patria” solo i momenti di luce e di progresso ma saper scrutare anche le zone grigie e quelle oscure.

C- La guerra anti-feudale del 1647-’48 nel Sud Italia. A Bagnoli va sottolineato il ruolo di Leonardo di Capua, di Fabio Gargano e dei loro oppositori. Il 30 luglio 1647 nel Parlamento del Comune fu disdetta ogni autorità dei Feudatari e disconosciuto ogni loro dominio sulla terra. Il 18 novembre 1647 l’assemblea comunale proclama la Repubblica. Significato rivoluzionario ed europeo di queste decisioni così radicali. Macrostoria e microstoria. Il precedente anti-feudale del 1600. Il ruolo del convento di S. Domenico.

D- Dalla fallita rivoluzione giacobina del 1799 ai moti carbonari del 1820, anch’essi falliti e repressi. Si verifica una profonda metamorfosi dei ceti dirigenti bagnolesi, straordinaria in un periodo di tempo tanto breve: dalle aperte simpatie sanfediste e reazionarie all’adesione in massa agli orientamenti rivoluzionari liberali. Riflessione disincantata sugli interventi soprannaturali nelle vicende politiche ed umane.

E- 1946: Bagnoli vota per la Repubblica nel referendum istituzionale mentre la Campania e il Sud si schierano decisamente e massicciamente per la Monarchia. Nei trenta anni successivi le elezioni politiche segnalano nel paese un predominante fronte laico. Questo dato, ancora una volta originale nel contesto meridionale, significa qualcosa?

Conclusione.

Cosa significa essere classe dirigente oggi? Si può avere ancora fiducia nella democrazia delegata?

Doveri dei rappresentanti, Diritti dei rappresentati. Necessità di avere una rete intensa e vitale di organizzazione politica, sociale e culturale per sconfiggere l’arroganza delle caste di potere, per esercitare pratiche di democrazia reale, per poter affrontare i drammatici problemi dell’oggi.

 

 Gennaro Cucciniello

Bibliografia.

F. Braudel, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1974 ,vol. II, t. II, pp. 2224-2248

G. Cucciniello, Politica e cultura negli Illuministi meridionali, Milano, Principato, 1975, pp. 24-31 e 213-234

G. D’Agostino (a cura di), Società, elezioni e governo locale in Campania, Napoli, 1990

G. Galasso, Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), in Storia d’Italia, Torino UTET, vol. XV, t. III, pp. 247-552

A. Musi, La rivolta di Masaniello. Nella scena politica barocca, Napoli, Guida, 1989

A. Sanduzzi, Memorie storiche di Bagnoli Irpino, 1923; ristampato a cura del Comune di Bagnoli Irpino, Montella, Dragonetti, 1975

M. Stoppino, Potere ed élites politiche, in A. Panebianco (a cura di), L’analisi della politica, Bologna, il Mulino, 1989

P. Villani, L’età napoleonica, Napoli, Guida, 1979

R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Bari, Laterza, 1987

Premessa.

Sono obbligato a fare questa precisazione. Ho dovuto chiedere alla Presidenza del Circolo di organizzare la mia conversazione in due pomeriggi perché il materiale che via via venivo approfondendo per affrontare in modo esauriente il tema si rivelava sempre più ampio e complicato. Il restringere i tempi non mi permetteva di spiegare con chiarezza i termini della questione. Perciò mi scuso preventivamente se devo fare ricorso alla vostra pazienza; contemporaneamente spero di riuscire a stimolare la vostra curiosità e a far nascere dei dubbi e delle domande. Infine i due pomeriggi consentono di dare un giusto e adeguato spazio al dibattito: il metodo che ho seguito pretende che ci sia, dopo la mia esposizione, un contraddittorio –anche vivace- nel corso del quale si potranno ulteriormente approfondire alcune questioni che inevitabilmente saranno solo accennate nella mia relazione iniziale. Per questo ho fatto distribuire già da alcuni giorni un promemoria con lo schema della lezione e un’indispensabile nota bibliografica delle fonti e dei commenti.

 

Introduzione.

Per prima cosa debbo spiegare come mi è nata l’idea di proporre a noi bagnolesi questo tema di riflessione, che so essere complesso, difficile (perché si tratta di unificare in una sintesi ordinata avvenimenti di secoli diversi) ma che mi ha da subito interessato. Gli spunti sono stati tutti attuali, come sempre avviene in storia: si parte sempre dal contemporaneo per riconsiderare il passato e il passato ci serve per illuminare il mondo presente; si interrogano i morti per rispondere ai dubbi e alle domande dei vivi, anche se -come quasi tutti gli storici sanno- n. storia non c’è nemmeno un’ombra o un barlume di progresso ininterrotto. Ne enumero almeno tre, di questi spunti: 1) negli ultimi due, tre anni si è accentuato nei discorsi paesani il ritornello su una crisi –che si ritiene aggravarsi sempre più- della classe dirigente locale, rispetto a un modello più stimato e rispettato che era quello dei trenta anni dopo il 1946; 2) una crisi che si lega a uno scadimento più generale della classe politica e amministrativa regionale e nazionale, fino ad intrecciarsi con la polemica durissima di oggi, giornalistica e non, contro le cosiddette caste, schiere di privilegiati arroganti ignoranti inefficienti e senza merito; 3) la creazione del nostro Circolo culturale Palazzo Tenta 39 spinge ad approfondire nuclei di storia locale, uscendo però dal provincialismo gretto e dalle ingenuità patriottiche –diciamo così-, evidenziando invece i legami tra fatti locali, localissimi anche, e snodi nazionali e perfino europei, un nesso Bagnoli-Mondo che è da prendere in seria considerazione e che io credo possa servire da modello anche per più organiche ricerche future. Io non sono uno storico locale; non ne ho le attitudini né le competenze; come fonte ho privilegiato il libro del Sanduzzi, citato in bibliografia, che è ricco di notizie anche se non dotato di precise chiavi interpretative.

E voglio dire subito la tesi di fondo del mio ragionamento. Cercherò di spiegare, con tre esempi che sono avvenuti in secoli diversi, a circa 150 anni di distanza l’uno dall’altro, che a Bagnoli c’è stata una sottile linea rossa –per dirla con un titolo cinematografico- che è consistita in una classe dirigente che in momenti cruciali ha dimostrato di essere stata coerente seria moderna, che ha rischiato e pagato di persona per scelte coraggiose, riformatrici, rivoluzionarie talvolta, scelte che hanno legato il destino del nostro paese a quello di territori e gruppi sociali tra i più avanzati in Italia e in Europa. La mia riflessione -basata su una tendenza di lunga durata, di più secoli- sembra arrischiata ma penso di avere argomenti seri per difenderla e dimostrarla. Ho discusso tempo fa con Aniello Russo, trovandomi d’accordo con lui, d’una suggestione intellettuale, azzardata forse ma che vale la pena di riferire qui, se non altro come spunto per più approfonditi pensieri; mi sembra di avere ritrovato un’analoga interpretazione nelle prime pagine del saggio del prof. Gabriele Reppucci su Leonardo di Capua, pubblicato nel 1995 a cura dell’omonimo Circolo Sociale di Bagnoli. E’ da rintracciare nella memoria storica del nostro paese un filo di passione laica, che parte da lontano, dallo sperimentalismo razionalista e cartesiano di Leonardo Di Capua nel secondo Seicento (forse anche eredità della sfortunata esperienza rivoluzionaria fatta a Bagnoli quando aveva trenta anni, e di cui parleremo tra poco), riaffiora nel liberalismo militante dei carbonari prima e dei patrioti mazziniani e garibaldini poi della prima metà dell’Ottocento e si allarga infine nella pratica democratica del voto universale degli ultimi cinquanta anni del Novecento. Ripeto, è una suggestione, ma mi piacerebbe che possa essere ripensata più seriamente negli anni a venire.

E partiamo da lontano. Nel 1600, nella società d’antico regime del Sud Italia, le forze dominanti –sottoposte al dominio politico della monarchia spagnola- erano essenzialmente il baronaggio feudale, le alte gerarchie ecclesiastiche e piccoli strati di borghesia privilegiata concentrata nelle città, a Napoli soprattutto. La classe dirigente bagnolese doveva di necessità esercitare le sue capacità cercando di destreggiarsi tra questi grandi poteri, da una parte vigilando difendendo e rivendicando i diritti territoriali del Comune (i confini, gli usi civici sui boschi) con i paesi vicini, col feudatario, con gli Ordini religiosi, dall’altra lottando contro gli abusi feudali e le pretese sempre esose dei suoi Signori (che tra l’altro proteggevano anche il brigantaggio nelle montagne). E naturalmente ci si divideva tra opposte fazioni, con odi di parte, rivalità familiari, animi tesi, insidie e prepotenze, violenze ed eccessi, che talora arrivarono anche all’omicidio. Scrive il Sanduzzi (p. 235) che preti e frati, sotto lo schermo della religione, mossi da scambievoli gelosie per il predominio nel paese, tendevano a far prosperare i loro interessi materiali(…)E che mancavano in paese, dopo la morte di Ambrogio Salvio (siamo nel 1584), persone di autorità e prestigio che potessero pacificare gli animi. Al confronto, le competizioni e gli scontri di oggi sono piccola tenue cosa. Del resto sarebbe utile far notare che, come in ogni scontro, esistono persone degnissime da una parte e dall’altra e loschi figuri sull’una e sull’altra sponda. Ciò nonostante, possiamo e dobbiamo parlare di ceti dirigenti che in momenti cruciali seppero scegliere una strada coraggiosa e innovativa. E vedremo come.

 

Sviluppo del tema.

Quando parliamo di classe dirigente di solito vogliamo alludere a una élite, un piccolo gruppo, una minoranza che punta a incarnare i valori fondamentali della società e che, in virtù di questo, sottomette al suo controllo sociale –e quindi politico- il resto della popolazione. E’ un concetto questo che, nella letteratura sociologica, si oppone a quello di Masse. E’ interessante il termine élite. La parola viene dal francese élire, che a sua volta proviene dal latino eligere, Scegliere. Quindi il gruppo scelto eletto migliore; con capacità superiori ai più, alla massa. Per cultura intelligenza denaro prestigio competenze varie. Un gruppo ristretto che esercita il potere, che monopolizza il potere e i suoi vantaggi e privilegi.

 Ma a Bagnoli, ecco il punto, le differenze sociali non erano marcate. Per questo si deve guardare con estrema attenzione alla stratificazione sociale ed economica del paese. Ho riportato per esteso –nel mio estratto di sintesi a voi distribuito giorni addietro- i dati tratti dal Catasto Onciario borbonico del 1754 (Sanduzzi, pp. 510-5). Cosa era il Catasto? La parola deriva dal greco bizantino katàskiton (Registro). Era un inventario generale dei beni immobili, con l’indicazione del proprietario, la descrizione dei beni e la stima del loro valore, per applicare le tasse stabilite dalla legge. A introdurre questa misura di riorganizzazione finanziaria e di giustizia sociale era stato il nuovo re, Carlo III di Borbone, che fin dal 1742 aveva emanato le prime disposizioni, seguendo l’esempio delle più avanzate monarchie assolutiste d’Europa, in particolare di Maria Teresa d’Austria. Il Catasto veniva detto onciario, da oncia, nome della moneta in cui veniva fatta la stima dei beni; questa era anche una misura di peso, 1/12 della libbra, variabile intorno ai 30 grammi. I dati danno un’idea dettagliata e vivace dell’articolazione sociale del nostro paese in quell’epoca (ma 100 anni prima, a metà ‘600, non doveva essere molto diversa): le 25 famiglie molto abbienti; gli intellettuali (13 laici, 24 preti ma altrettanti e più monaci), con una netta predominanza quindi del clero, che controllava sicuramente i processi strategici di alfabetizzazione e di trasmissione delle conoscenze con le due scuole, dei domenicani e dei canonici del duomo, ma non col totale monopolio delle professioni liberali; la numerosissima schiera di contadini-braccianti artigiani e operai (quasi mille, 936 per l’esattezza), che fotografava una presenza compatta e interessante di lavoro manuale e di sapienza tecnica; tra 50 e 60 i commercianti gli ambulanti i padroni e custodi di greggi; quasi a offrire una quadro molto preciso di una realtà paesana stratificata e mediata. Non c’era una divisione netta tra pochi padroni latifondisti e lo sterminato esercito di contadini senza terra (che caratterizzava il meridione d’Italia e già lo separava dal centro-nord più sviluppato), ma un paese che presentava una stratificazione sociale molto gradualizzata, con interessi diversificati, probabili gerarchie interne consolidate, strutture definite, capi riconosciuti; la definirei una società a cerchi concentrici, strutturata per famiglie allargate, organizzata in corporazioni, aggregata dal punto di vista religioso in confraternite e congregazioni, una società, insomma, a forte reciproca e coesa disciplina sociale, in cui ogni gruppo aveva una sua élite dirigente. Per esempio, la mobilità stagionale degli allevatori di bestiame e soprattutto di alcune tipologie di commercio minuto (i camminanti, commercianti girovaghi di panni) significava reti addizionali di rapporti, flussi e riflussi di notizie e informazioni, e quindi di aggiornamento e di sprovincializzazione. Del resto anche i pastori transumanti sono stati una sorta di avanguardia culturale della ruralità: viaggiavano, vedevano altri orizzonti, conoscevano genti diverse, ne imparavano, un poco, gli idiomi, anche se la ferinità individualistica delle famiglie pastorali non favoriva certo lo sviluppo di una forte socialità. Nell’analisi di questa struttura sociale, pur in un quadro di omogeneizzazione relativa delle condizioni, si percepisce che persisteva una mancanza di reale egemonia sui contrastanti aspetti paesani da parte di un qualche elemento dominante. Ma proprio per questa ragione io parlo di una pluralità di gruppi dirigenti che per esprimere una leadership dovevano necessariamente parlarsi confrontarsi scontrarsi magari ma riconoscersi e mediare, alla ricerca di una sintesi unificatrice, quando possibile. Confronto e collaborazione continua, perciò, un’esperienza fondata insieme sul conflitto e la cooperazione, in dialettica anche aspra ma sempre riconoscibile, come vedremo poi nell’analisi dei fatti concreti, che deve tener conto di molte sfumature, spesso contraddittorie. Comunque non va mai dimenticato che la vita del nostro paese girava soprattutto intorno al castello e alla corte feudale, cui erano legati, per l’amministrazione e gli affitti, molti interessi, rafforzati ancora di più dai poteri giurisdizionali e fiscali del feudatario: c’erano, perciò, molte persone e famiglie che gli facevano corona, ne curavano i privilegi, ne esercitavano i poteri.

Per spiegare la mia tesi riporterò tre esemplificazioni. Le ragioni di qs scelta stanno nei legami interessantissimi che in tutte e tre queste occasioni si sono registrati tra le opzioni locali e grandi appuntamenti regionali nazionali ed europei. Da tutte e tre queste esperienze, che avvengono stranamente a distanza di circa 150 anni l’una dall’altra (e che ci dimostrano la persistenza secolare delle correnti di pensiero e dell’organizzazione degli interessi), emergono luci e ombre dei ceti dirigenti bagnolesi ma anche, pur fra contraddizioni inevitabili, la modernità e la serietà delle loro scelte, fino a pagare duramente di persona. Da una parte non bisogna voler trovare nella storia patria solo i momenti di luce e di progresso ma saper scrutare e riconoscere anche le zone grigie e quelle oscure. Dall’altra, capire, e questa è una scoperta davvero interessante, che i nostri protagonisti hanno saputo affrontare con grande coraggio e originalità la dialettica serrata tra tradizione e innovazione, scegliendo ogni volta la via della modernità. Anche quando qualcuno di loro, e penso in particolare a Leonardo di Capua, ai giacobini del 1799 e ai carbonari del 1820, percepiva e coglieva la drammatica sproporzione fra le loro personali visioni del mondo e l’abissale irrimediabile inadeguatezza e mediocrità dei tempi circostanti. Capitò a loro quel che capita anche oggi a molti di noi, in proporzioni diverse naturalmente: di scoprire che non c’è accordo possibile fra ciò che si desidera e ciò che invece accade, ma che è pur necessario in questi casi essere coerenti con le proprie convinzioni e non diventare opportunisti e voltagabbana.

 

La guerra antifeudale del 1647-48 nel Sud dell’Italia.

Arriviamo così ai fatti del 1647-48. Il Sanduzzi ne parla nelle pp. 343-7 del suo libro e sottolinea gli odi fra i due partiti, che dilaniavano il paese, le ire partigiane, le persecuzioni e vendette promosse dalla feudataria duchessa Mayorga e dai suoi satelliti, e dice ancora che i proseliti dei Domenicani, come i più evoluti, furono in maggioranza fautori della rivoluzione, mentre i seguaci del Capitolo si mostrarono piuttosto contrari e nella maggior parte neutrali, ma dopo il ristabilimento del governo di Spagna si unirono ai satelliti della Feudataria. Se stiamo a una superficiale interpretazione della nostra fonte sembrerebbe questo solo un ennesimo capitolo dello scontro tradizionale tra il convento di S. Domenico (coi suoi seguaci) e il Capitolo dei canonici della cattedrale (coi suoi fautori), tra Coppisi e Vascisi quindi, la classica divisione tra sopra e sotto, che non è solo spaziale-topografica ma anche ideologica e culturale, tanto più che nel marzo del 1648 si arrivò a un doppio omicidio della cui complicità fu accusato proprio Leonardo di Capua. Odi violenti e tradizionali perciò. Ma lo stesso Sanduzzi nel citare i fatti usa la parola rivoluzione. Bisogna quindi approfondire.

La prima domanda che ci si pone è: Ribellione o Rivoluzione? Uno dei primi a usare il termine rivoluzione per definire le “guerre civili di questi tempi in Inghilterra Catalogna Portogallo Sicilia Napoli Francia Polonia Turco”, moti insurrezionali in un quadro di profondo sincronico sommovimento europeo, fu un poligrafo ferrarese, Maiolino Bisaccioni, in una sua opera del 1653, appena cinque-sei anni dopo i fatti, Historia delle guerre civili di questi ultimi tempi, Venezia 1653: “io mi sono posto a scrivere delle rivoluzioni dei popoli accadute ai miei giorni, che a ragione si possono chiamare i terremoti di Stato”. Quella del Bisaccioni fu un’innovazione linguistica radicale e importantissima: per la prima volta fu usata nel mondo occidentale, per definire movimenti politici ed umani, il termine rivoluzione, fino ad allora riservato solo ai fenomeni astronomici. Ricordiamo tutti il De revolutionibus orbium coelestium di N. Copernico, edito nel 1543, che criticava il sistema tolemaico (la terra al centro e il sole e i pianeti a girarle intorno) e poneva le basi per quello copernicano-galileiano (il sole al centro del sistema e la terra e i pianeti a orbitare intorno). Non trascuriamo il fatto che questo avveniva quasi in contemporanea con la scoperta del nuovo mondo americano, sicché si accentuava la coscienza che i baricentri non erano più né la Terra nel sistema solare né l’Europa fra i continenti. C’è una frase bellissima di Giordano Bruno che spiega questa terribile novità: “Noi non siamo più centro di niente ma ogni cosa costituisce il principio di sé rompendo ogni visione centrata; siamo un mondo senza centro, dove tutta la vita infinita è insieme centro e periferia” (De l’infinito, universo e mondi, 1584). La parola rivoluzione, che prima definiva movimenti ciclici ripetitivi -eterni diremmo- veniva ora usata per spiegare movimenti terreni lineari progressivi, di cambiamento sociale e politico. Era chiaro che si intuiva che era avvenuto un mutamento profondissimo nelle cose e nella coscienza dei contemporanei. L’individuo usciva da uno stato di minorità, si affidava alla spirito critico e, cartesianamente, all’evidenza di ciò che scopriva, per giudicare da sé. E’ l’inizio di un processo gravido di conseguenze: lo sguardo che prima era teso verso l’alto, verso Dio, ora si rivolge in avanti, all’umano, alla storia, al futuro. Ne nascono grandi progetti di emancipazione umana, con le conseguenti rivoluzioni economico-sociali e politiche.

Cerchiamo di chiarire, allora, cosa stava avvenendo a Bagnoli, nel sud Italia, in Europa. E partiamo dall’Europa. Negli anni Quaranta del ‘600 scoppiano quasi simultaneamente rivolte e insurrezioni nell’Europa del nord (Inghilterra, Olanda), del centro (Francia, Germania, Polonia), del sud mediterraneo (Catalogna, Portogallo, Sicilia, Napoli). Le ragioni sono naturalmente diverse ma ce n’è una che unifica queste agitazioni. L’intero continente era entrato in una grave fase recessiva: era diminuito tantissimo l’arrivo di oro e argento dall’America, erano aumentate dappertutto le tasse dirette e indirette (imposte e gabelle). Si imponeva perciò una nuova sistemazione dei rapporti tra le monarchie e le forze sociali. La coincidenza sorprendente di tutte le insurrezioni europee, negli anni quaranta del secolo, dimostra che in tutto il continente si stava verificando una reazione al processo di accentramento assolutistico del potere. In termini marxiani potremmo dire che lo sviluppo delle forze produttive si scontrava con arretrati rapporti di produzione. In quali paesi si affermeranno le rivoluzioni? In Olanda e in Inghilterra, paesi fino ad allora non molto importanti –anche demograficamente, 2 milioni e 5 milioni di abitanti contro i 25 milioni della Francia, per es-, ma dove l’affermarsi di forze borghesi vivaci e intraprendenti, unite ai ceti popolari, non solo libereranno nuove energie ma toglieranno di mezzo i pesanti ostacoli feudali allo sviluppo economico e avvieranno queste nazioni al predominio mondiale e a porre le basi, nel ‘700, della rivoluzione industriale. Il nord-Europa era accentrato intorno a quel formidabile polmone di sviluppo che fu allora il triangolo Londra-Amsterdam-Parigi. Braudel scrive che la vittoria del nord Europa, proletario e borghese, economo parsimonioso rude, con una manodopera poco esigente e laboriosa, sul troppo ricco Mediterraneo fu simile a quella ottenuta, fra il ‘200 e il ‘300, da un’Italia attiva pugnace poco dedita al lusso contro l’Islam e Bisanzio (oggi ci richiama la competizione di Cina e India con l’Occidente industrializzato). Di più: in Inghilterra la vittoria del Parlamento nella guerra civile contro la monarchia assolutista (giunta fino all’episodio sensazionale del re processato e condannato a morte dai suoi sudditi e decapitato simbolicamente con la corona in testa) aprì conseguenze di lungo periodo: i diritti di proprietà e di libertà personale resi inalienabili, affermato il principio del governo delle leggi contro l’arbitrio del potere assoluto del re, praticata la partecipazione politica dei cittadini fino alle prime forme di democrazia consiliare nell’esercito puritano di Cromwell. Gli echi immediati si avranno nella monarchia costituzionale inglese della fine del ‘600, e poi nella Rivoluzione Americana nel ‘700. In Francia, con la guerra della Fronda, si pongono in movimento forze i cui effetti si vedranno 140 anni dopo, nel 1789. E’ chiara perciò la portata rivoluzionaria di questi fatti.

 Il quadro italiano. La Spagna, che dominava in Italia, era da tempo impegnata in una guerra estenuante nell’Europa centrale, la cosiddetta Guerra dei Trenta Anni, in particolare contro le Province Unite olandesi e nell’eterno conflitto con la Francia. Il Sud Italia fu chiamato in maniera più massiccia, che gli altri domìni spagnoli in Italia (la Lombardia, per es), a contribuire allo sforzo finanziario di Madrid. Maggior numero possibile di soldati (gli storici parlano di almeno 20- 30mila uomini) e di mezzi finanziari. Tra il 1636 e il 1644 furono applicate ben 10 nuove imposte indirette e numerose contribuzioni straordinarie. Molte località e terre demaniali, malgrado le resistenze dei Comuni, furono trasformate in feudali e sottoposte alla giurisdizione privata. Si formò e si allargò una nuova più numerosa e rapace nobiltà titolata. Il massimo del fiscalismo coincideva col massimo della disgregazione. E il massimo dell’oppressione col massimo di disordine e povertà. I grandi feudatari latifondisti organizzavano forme di terrorismo sistematico, fiancheggiando e sostenendo il banditismo criminale per distruggere le resistenze dei Comuni e della borghesia agraria stremata e dissestata che vi faceva riferimento, e per ricattare pesantemente l’autorità del potere statale spagnolo. Le risorse alimentari erano sempre molto scarse anche per la pressione demografica, ed erano onnipresenti carestia e peste (Bagnoli sarà colpita orribilmente nel 1656-7).

E’ in un contesto di questo genere che vanno collocati e capiti i fatti del sud Italia di questo anno cruciale, e anche quello che succede a Bagnoli. C’era stato un antefatto. Palermo nel maggio 1647 era insorta contro il malgoverno spagnolo e l’introduzione di nuove tasse, e la ribellione si era diffusa rapidamente nelle altre città della Sicilia ma era stata subito soffocata nel sangue. Il 7 luglio 1647, una domenica, insorge Napoli in seguito all’imposizione di una tassa sulla frutta fresca. A capo della rivolta vi furono due personaggi che rappresentavano le diverse anime della città. Il pescivendolo Masaniello, proveniente dal sottoproletariato urbano e interprete delle richieste popolari più immediate, e l’avvocato salernitano Giulio Genoino, espressione di un ceto medio che voleva usare la protesta popolare per modificare gli equilibri interni dei ceti dominanti. Alla rivolta di Napoli si unì presto quella delle masse contadine e dei ceti artigiani e piccolo-borghesi delle province, insorte contro gli abusi del baronaggio. Masaniello fu ucciso subito, il 16 luglio, ma l’insurrezione si propagò in tutto il regno, diventando presto un movimento radicalmente antifeudale e una lotta politica e militare molto aspra. Intanto, nel nostro paese, martedì 30 luglio 1647 –circa 20 giorni dopo la rivolta di Masaniello- il Parlamento del Comune (tutti i cittadini maschi maggiori d’età, meno i diffamati per reati, i debitori del Comune, e le donne, nota il Sanduzzi a p. 243; ma qui occorre correggere la nostra fonte: Fr. Scandone annota che vi intervenivano i cittadini probi, distinti nelle classi dei “primarii, degli egregi e degli honorabiles”) decide la fine della Giurisdizione Feudale e delibera la libertà da tutti i pesi feudali e di sudditanza (“Atto del notaio Giacomo Pallante”, in Sanduzzi, pp. 343 e 351). Quello che è davvero sorprendente è che non si tese a risolvere il conflitto sollevato dalla rivolta con una riforma di statuti e capitoli, come si era sempre fatto nei secoli precedenti, incanalando la protesta nell’alveo legale-istituzionale; come pure stupisce l’assenza di una qualsiasi mediazione ecclesiastica. Questo ci rivela l’interessante processo di maturazione politica dei gruppi insorti: dalla rivolta contro le tasse eccessive si è passati rapidissimamente alla presa di coscienza collettiva –questa sì rivoluzionaria- della necessità di abbattere il feudalesimo, un sistema di produzione che durava da quasi mille anni, e di dare spazio alle nuove forze sociali che stavano a fatica emergendo. In tutto il Sud i ceti popolari (contadini, proletariato cittadino, gruppi di intellettuali e di borghesia mercantile cittadina e agraria provinciale) si schierano contro la nobiltà feudale e la borghesia privilegiata e poi, quando l’esigenza di riforme così radicali si scontrerà con la volontà del governo spagnolo, decisamente contro la Spagna. E’ enorme il salto che si fa con questa decisione: si capisce che, nonostante l’insussistenza degli aiuti francesi, sono necessarie l’indipendenza e la proclamazione della repubblica. Solo col regime repubblicano si poteva avvicinare la capitale esitante alle province molto più radicalizzate, ridimensionare il potere dei baroni e costruire un nuovo equilibrio politico e sociale. Concordo con l’interpretazione di R. Villari: c’è un tentativo del Mezzogiorno d’Italia di resistere all’emarginazione dalla storia europea, il costruirsi faticoso di una rivoluzione borghese-popolare per l’affermazione di un nuovo blocco storico, di un nuovo raggruppamento di potere, l’espressione di forze potenzialmente moderne –pur nella loro immaturità e con le loro forti contraddizioni- che cercavano di imporre la propria presenza nella storia e nella società del sud, tentavano di inserirsi fra gli elementi direttivi del Paese: era l’aspirazione a un potere centrale in grado di battere e superare il particolarismo feudale dell’aristocrazia terriera. Certo, c’è chi vede (il Galasso) in questa spinta antifeudale delle province soprattutto la preoccupazione di salvaguardare le consuetudini e gli usi tradizionali, largamente compressi o usurpati dalla prepotenza baronale nei 70-80 anni precedenti (terre comuni, usi civici, beni demaniali); non la soppressione del regime feudale quindi ma solo il suo contenimento entro i limiti di legalità di tradizione di equità. Le due linee, quella rivoluzionaria e quella più tradizionalista, erano certamente presenti nei personaggi bagnolesi che guidavano il movimento ma fondamentale è che –nel momento delle decisioni cruciali- esse si unirono nella proposta politica più radicale (così come avveniva negli stessi anni in Inghilterra e come succederà nel 1789 in Francia). Intanto nelle campagne infuriava il terrorismo nobiliare, e a Napoli si affermavano forze borghesi più radicali. Il 17 ottobre a Napoli si pubblica il Manifesto del fedelissimo popolo di Napoli a tutte le potenze della Cristianità. Il Manifesto faceva un’esposizione efficace dei motivi della rivolta, scavava un solco più netto tra la causa regia spagnola e quella popolare, accennava a un’internazionalizzazione del problema napoletano. Alcuni giorni dopo si proclama l’indipendenza dalla Spagna e si costituisce la Serenissima Real Repubblica napoletana. Riflettiamo un momento su questi termini. L’aggettivo Serenissima era un riferimento esplicito al modello della Repubblica Veneziana. Poi c’è l’ossimoro Real Repubblica! E’ evidente che i capi dell’insurrezione a Napoli sono incerti e divisi sul da farsi, oscillanti tra simpatie repubblicane di stampo fiammingo (i ceti intellettuali guidati dall’avvocato Vincenzo D’Andrea) e ceti popolari, soprattutto artigiani, che premono per schierarsi subito con la Francia. Chiedere l’aiuto francese contro la Spagna significava porsi dalla parte di un’altra monarchia assoluta: tra l’altro il cardinal Mazarino esitava ad inviare aiuti perché non voleva aprire un altro fronte di guerra, oltre a quello che stava incendiando da anni l’Europa centrale. Coniare la stranissima definizione di Real Repubblica rivelava una volontà di compromesso, far vivere l’equivoco di poter tenere insieme la fiducia in uno sviluppo autonomo radicale dell’esperienza rivoluzionaria con una scelta di schieramento nello scacchiere internazionale che privilegiava la decisa opzione antispagnola, una scelta di campo in tutti e due i casi molto pericolosa per gli equilibri dell’Europa mediterranea e che il Papato in quel momento difficilmente avrebbe potuto accettare. L’espressione equivoca monarchia repubblicana, d’altronde, potrebbe significare che monarchia figurava come semplice sinonimo di Stato, come dimostrano altre citazioni giuridico-politiche di quel secolo. R. Villari cita, a questo proposito, la diffusione di un breve opuscolo, dal titolo inconsueto e suggestivo di Il cittadino fedele, i cui contenuti erano dirompenti rispetto al secolare panorama di subalternità e particolarismo offerto dalla società meridionale e dalle sue classi dirigenti; vi si affermava un’idea nuova della fedeltà: non più ossequio alla Corona, sottomissione dunque alla Spagna, ma fedeltà alla comunità dei cittadini, al Regno di Napoli inteso come Stato-nazione; dunque affermazione di indipendenza e di libertà nell’interesse di tutta la comunità. Lo scopo dell’anonimo estensore era evidentemente distinguere l’interesse generale dei cittadini dal servizio del Re e dal complesso dei privilegi nobiliari con i quali si erano identificati fino ad allora i valori nazionali della società. Era un’acquisizione rivoluzionaria, che contrasta con l’immagine corrente di torpore e di decadenza morale attribuita all’età seicentesca. Infine nello stendardo repubblicano vi erano scolpite queste lettere: SPQN, Senatus Populusque Neapolitanus, ripresa interessante e significativa del più famoso acronimo SPQR, Senatus Populusque Romanus.

Il risultato più interessante comunque delle più recenti ricerche storiche sui rapporti tra Napoli e l’Europa è la scoperta che questa nostra rivoluzione periferica ebbe nel continente una risonanza significativa, che il Parlamento inglese fu informato quasi giorno per giorno di quello che succedeva nel Sud Italia, che l’opinione pubblica olandese dimostrò altrettanta attenzione, per non parlare della Francia. Comunque, per tornare a noi, il 18 novembre, era di domenica, solo tre giorni dopo lo sbarco a Napoli del duca di Guisa e pochi giorni dopo il pronunciamento repubblicano della capitale, l’assemblea comunale di Bagnoli proclama anch’essa la Repubblica (lo si desume da un atto protestativo di un tale Antonio De Curcio di Acerno, Rogito del notaio Giacomo Pallante del 19 novembre 1647, in Sanduzzi, pp. 344 e 351). L’esercito contadino è forte, coordinato da elementi –soldati e sottufficiali soprattutto- che si sono fatti le ossa nella fanteria spagnola sui campi di battaglia europei negli anni precedenti: terre e città feudali sono espugnate, intere province controllate, contingenti militari baronali sconfitti (ad Ariano, per esempio, nei primi di marzo del 1648). Abbiamo ora un quadro più chiaro del significato delle scelte fatte –in quei giorni cruciali- da una parte nettamente maggioritaria dei ceti dirigenti bagnolesi: liberarsi dal dominio feudale, aumentare poteri e competenze del Comune, dare spazio e forza a borghesia e intellettuali, migliorare e difendere gli interessi dei ceti contadini proletari e artigiani. Era scegliere nei sommovimenti europei, pur senza una completa consapevolezza, la strada più avanzata e moderna: esaltare l’autonomia dei territori, liberare le energie economiche e sociali, riformare le istituzioni politiche. Era un passo importante e decisivo verso una concezione laica della politica, anzi verso quell’autonomia della politica dai vincoli religiosi che era stata preparata nei decenni precedenti dal pensiero politico e scientifico dell’intero Cinquecento italiano, a partire dal Machiavelli, e che in questi anni si nutriva delle elaborazioni di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Paolo Sarpi, Torquato Accetto.

Tornando al 1647, ripeto che quelle deliberazioni del Comune di Bagnoli furono scelte coraggiose e rivoluzionarie, al limite dell’avventura, visti i rapporti di forza. Perciò a questo punto ho inserito quella noterella su macrostoria e microstoria, sulla grande storia e sulla piccola storia. E’ necessario studiare non solo la grande storia, quella dei grandi avvenimenti, delle date e dei personaggi importanti, la grande scopa di don Abbondio, ma anche la storia piccola; interessarsi meno alle individualità di primo piano e più a tutti gli uomini e le donne in generale, guardare ai movimenti lenti e profondi, alle realtà concrete –materiali psicologiche culturali- della vita di tutti i giorni. Nei libri di storia i fatti cosiddetti storici acquistano un carattere di straordinarietà, come se non fossero fatti della stessa sostanza della vita quotidiana di tutte le persone. Ma è vero il contrario: la storia è fatta di cose luoghi e persone ordinarie, e indagare la loro infraordinarietà, quando sono improvvisamente chiamati a vivere momenti decisivi, è importante. In realtà la storia è proprio questo: masse di persone che fanno cose ordinarie.“La storia siamo noi”, diceva una canzone di qualche anno fa, “Quelli che hanno letto un milione di libri / e quelli che non sanno nemmeno parlare”. La sera del 30 luglio o del 18 novembre tutti i bagnolesi tornarono a casa a dormire. E alcuni si addormentarono serenamente, altri col cuore in tumulto restarono svegli, altri ancora covavano odio, coscienti tutti non so fino a che punto della cosa straordinaria che avevano realizzato e del pericolo gravissimo che ora correvano. Erano umani dubbi ed esitazioni di fronte alla scelta rivoluzionaria e alla rottura di una lunga tradizione di fedeltà alla monarchia, le incertezze sulle prospettive future, la consapevolezza delle difficoltà di controllare e dirigere la violenza popolare, il timore per un apparato repressivo imponente e feroce di cui si conosceva la crudeltà. Nessuno, da fuori, pensa mai che in una casa c’è chi piange e chi ride, chi sogna o s’innamora, chi addirittura stenta a trovare un pezzo di pane per sé e per i figli, chi non prende sonno per le preoccupazioni del bilancio familiare. C’è la consapevole necessità narrativa di dover ricorrere all’immaginario quando si vogliono ricostruire momenti in cui il reale si rivela inafferrabile; e questo accade quando si fruga nell’intimità delle tragedie umane o si entra nei convulsi lontani avvenimenti di una rivoluzione.  

E’ in un contesto di questo genere, con una storia fatta di personaggi semplici, lontana dai grandi palcoscenici, che va richiamato un altro episodio che ritengo particolarmente significativo per capire nel profondo i fatti bagnolesi di questo anno cruciale. Cinquanta anni prima circa, esattamente il 23 dicembre del 1600, un decreto della Camera della Sommaria di Napoli dichiarava Bagnoli “Terra Demaniale”, libera cioè dal dominio feudale. Cosa era successo? Era la conclusione di una lunga battaglia giuridica (ma anche politica e sociale) con la quale il Comune, sostenuto dall’intelligente e seria capacità di iniziativa dei suoi abitanti, concludeva uno sforzo eccezionale (e controcorrente per l’epoca, come abbiamo visto prima) ricomprando dal feudatario Cesare Palatuccio, avvocato napolitano (Sanduzzi, p.286) per 39000 ducati circa la sua libertà. Fu un sacrificio finanziario enorme, non sostenibile dalle risorse autonome di un piccolo Comune che poteva ricorrere solo alle tasse locali. E così, tre anni dopo, il 25 aprile 1603, furono costretti i nostri antenati a rivendersi a un nuovo Signore. Il precedente è importante perché illumina, da altra angolazione, la passione e la mobilitazione con cui Bagnoli arrivò a vivere i giorni tempestosi del 1647. Infine, che la scelta dei bagnolesi sia stata molto interessante nel contesto del nostro territorio è confermata dalla constatazione che nella vicina Montella, centro simile al nostro paese per tessuto economico e struttura sociale ma più grande e importante per molti altri aspetti, nulla di significativo sia avvenuto in quelle stesse fatidiche giornate. Lo Scandone nel suo III° volume de L’alta valle del Calore cita di passaggio, a pag. 121, “cessarono le esazioni delle gabelle” ma nulla riporta –pur nella sua amplissima silloge documentaria- di delibere del Parlamento comunale, che forse nemmeno fu riunito per affrontare specificatamente la questione. Questo dato rivela che i capi bagnolesi del movimento insurrezionale, segnatamente Leonardo Di Capua e Fabio Gargano, erano in stretto legame coi circoli rivoluzionari di Napoli, ne condividevano obiettivi e strategie, erano pienamente inseriti nella dialettica dei gruppi rivoluzionari e delle loro linee d’azione, ed erano capaci di convincere i gruppi più influenti del paese fino a farsi seguire nelle scelte più rischiose. Si deve notare, inoltre,che anche e soprattutto dal Salernitano venivano notizie di insorgenze: Acerno, Giffoni, Campagna, i casali intorno a Salerno furono coinvolti nei moti antifeudali che trovarono un capo efficace in Ippolito di Pastina.

Un altro dato è il ruolo svolto dai Domenicani. Sanduzzi scrive che i monaci influenzarono il partito anti-spagnolo. Non sappiamo esattamente come andarono le cose nei dettagli. Ma è indubbio che i conventi domenicani erano all’avanguardia nel Sud. San Domenico Maggiore, a Napoli, era uno dei centri culturali più vivi del regno, sede dello Studio generale dell’Ordine Domenicano, a contatto con l’università (che era nello stesso edificio) e col mondo culturale laico, luogo delle più vivaci e interessanti discussioni teologiche e filosofiche. La sua biblioteca possedeva opere pregevolissime, di cui parecchie mancavano nelle altre biblioteche della città, e certamente anche di autori (Erasmo, per es.) ormai vietati a privati e a istituzioni pubbliche. Bruno e Campanella vi avevano studiato, insegnato e avviato ricerche dirompenti –nell’Europa di allora- sia nella teoria e nella pratica politica che sul fronte dell’elaborazione filosofica, e avevano pagato duramente, con la morte sul rogo il primo e lunghi anni di carcere il secondo, la loro battaglia per la libertà di pensiero. Il convento, alla fine del ‘500, si era scontrato duramente con l’Inquisizione di Roma e aveva avuto l’appoggio delle organizzazioni popolari della città. Io penso esplicitamente ai tanti intellettuali coraggiosi presenti tra i frati a Bagnoli ma anche tra i canonici; sottolineo il ruolo economico e finanziario ma anche sociale, nel paese, delle strutture religiose: i microcrediti alle attività produttive, i prestiti a breve scadenza con mutui ipotecari per le piccole attività economiche, le scuole gratuite per una prima alfabetizzazione degli abitanti e l’istruzione superiore per i chierici, presenze scolastiche che vivacizzavano e stimolavano l’atmosfera culturale in un paese naturalmente a forte analfabetismo.

Nella Pasqua del 6 aprile 1648 si chiuse l’esperienza repubblicana. La repubblica era stata sconfitta per la sua debolezza finanziaria, perché era stata incapace di darsi una vera organizzazione politica interna e internazionale, perché era divisa nelle aspirazioni e nelle ideologie, perché riuniva repubblicani indipendentisti accanto a filofrancesi e a personaggi turbolenti senza chiara consapevolezza politica; ma era vero che non era stata una pazzia, piuttosto un’insurrezione dotata di coscienza intellettuale, con una significativa partecipazione ecclesiastica (frati e basso clero), femminile e anche studentesca (gli universitari fuori-sede); l’ultima esperienza che restava al popolo. La repressione aristocratica fu spietata e terribile, e soprattutto esemplare. Si voleva dimostrare, ribadire che nulla era cambiato, che nulla avrebbe potuto cambiare. E così infatti sarebbe stato: ancora per secoli, tra i due poli della arroganza baronale e della rassegnazione contadina, il nostro Sud sarebbe rimasto legato a un destino di stagnazione feudale, senza possibilità di progresso e di ammodernamento. Questa sconfitta fu una data importante nella preistoria della questione meridionale. Nei paesi dove la Rivoluzione fallì, e l’Italia fu tra questi –insieme a Spagna e Portogallo-, si aprì un processo a catena di vendette repressione e decadenza, si precipitò verso un’arretratezza drammatica. La Spagna accettò l’espansione del dominio feudale dei baroni come prezzo della sua sicurezza politica, anche se alcune esigenze riformatrici nella riorganizzazione del sistema fiscale furono almeno parzialmente accolte. Una parte consistente della classe dirigente bagnolese, però, era stata all’altezza della situazione, anzi molto coraggiosa e fiduciosa nella forza del progresso storico, era stata capace di sfidare gli eventi, di andare controcorrente, di pagare per le proprie idee; aveva dimostrato di possedere educazione politica, necessaria all’opposizione per creare nuovi spazi d’iniziativa e per tentare di sfuggire all’alternativa secca tra utopia e conformismo.

 

Sanfedisti e Carbonari. 1799, 1820-1.

Il secondo episodio che voglio richiamare è anche questo di grande interesse ma per un’altra ragione. Contrariamente al primo, più omogeneo e coerente, questo si sviluppa in due fasi, del tutto contrastanti tra loro. La prima, nel 1799, è improntata a un deciso spirito conservatore e tradizionalista, addirittura reazionario per molti aspetti. La seconda, nel 1820, è caratterizzata da una profonda e generalizzata adesione di quasi tutti i dirigenti bagnolesi al movimento della Carboneria, uno dei primi e significativi episodi dei moti liberali e risorgimentali italiani. E’ una profonda metamorfosi, straordinaria in un periodo di tempo tanto breve: dalle aperte simpatie sanfediste all’adesione in massa agli orientamenti rivoluzionari liberali. Cosa era successo? Qui si vede molto bene quanto in storia sia decisivo porsi le domande giuste, più che avere le risposte complete ed esaurienti. Per sollecitare su questo tema la vostra curiosità metodologica io proporrei a tutti noi un semplice quesito: perché fallì la spedizione rivoluzionaria di Carlo Pisacane nel Sud nel 1857 e solo tre anni dopo –nel 1860- ebbe successo invece la spedizione di Garibaldi? Il tentativo di risposta ci porterebbe ad interrogarci non solo sugli obiettivi immediati e su quelli più a lungo raggio delle due spedizioni, sulle personalità dei protagonisti, ma ancora di più e soprattutto sull’orizzonte internazionale, sugli attori italiani ed europei, sul ruolo del Piemonte sabaudo, sul progetto di egemonia nel centro-Europa di Napoleone III, imperatore dei francesi, sul cambiamento profondo di prospettiva della politica estera inglese nel Mediterraneo e sul suo appoggio all’unità italiana in funzione anti-francese. Ma torniamo ai nostri protagonisti.

Sono passati circa 150 anni dal 1647. Ancora una volta ci si deve richiamare a un’Europa in ebollizione. Un terremoto la sta sconvolgendo dopo la rivoluzione del 1789. Le armate francesi hanno conquistato l’Italia. A Napoli la monarchia borbonica insediatasi 65 anni prima –nel 1734-, impaurita, è scappata in Sicilia e il 24 gennaio 1799 è stata proclamata la Repubblica giacobina partenopea, gloriosa eroica ma velleitaria e incerta, soprattutto incapace di spezzare rapidamente la macchina del potere feudale. Non dimentichiamo che le bande sanfediste del cardinale Ruffo, risalendo dalla Calabria le regioni del Sud fino a Napoli, cantavano una canzone il cui ritornello era: “Chi tene pane e vino ha da esse giacubino”, identificando i rivoluzionari repubblicani coi proprietari, a danno della povera gente. A Bagnoli è scarsissimo il consenso per la repubblica (il Sanduzzi, a p. 539, parla di quei pochi di sentimenti giacobini e di due giovani preti (Cella e Trillo), abitanti a Napoli e iscritti alla Lega dei Patrioti, che vennero in paese a fare propaganda repubblicana e innalzarono in piazza l’Albero della Libertà). I nostri concittadini erano malcontenti e riluttanti in grandissima parte: la fama dei francesi atei e saccheggiatori, uomini senza Dio e senza religione, stranieri empi e crudeli, e poi l’inefficienza delle decisioni economiche e politiche del nuovo governo. Ricapitoliamo per sommi capi cosa accade in paese nei primi di maggio. Già nella seconda metà di aprile a Bagnoli sono arrivate voci sulle sconfitte francesi in Nord-Italia (Sanduzzi, 535). Il 2 maggio, giorno dell’Ascensione, “in piazza, in mezzo a un baccano indescrivibile, è abbattuto l’Albero della libertà, è proclamata la restaurazione della monarchia, sono saccheggiate le case dei due preti Cella e Trillo, il generale Championnet –in forma di fantoccio di paglia e messo a cavalcioni su un asino- è dileggiato per le vie del paese” (Sanduzzi, ibidem). C’è paura ora per la possibile ritorsione francese e repubblicana: è arrivata la notizia dei massacri di Mercogliano ed Avellino. Tra il 5 e il 6 maggio reparti francesi partono dal capoluogo per normalizzare la provincia irpina (cito solo Montemarano, Montella, Nusco, oltre che Bagnoli) ma, giunti nei dintorni di Salza, mutano improvvisamente direzione. C’è il ritiro francese dal centro-sud italiano per fare fronte alla minaccia austro-russa nella pianura padana. Acquisiamo il dato, perciò, di un paese decisamente ostile al nuovo che viene dall’estero, attaccato ai valori tradizionali, desideroso di riallacciarsi con passione alle eredità religiose ultrasecolari, insensibile alle ubbie rivoluzionarie.

Passano neanche venti anni, e a Bagnoli viene fondata un’associazione di Carbonari, I figli del Sole e dell’ Onore, che riunisce quasi tutti i gruppi dirigenti del paese. Una Vendita che aveva per sigillo un tronco reciso dalla scure –il vecchio regime da abbattere- e una pianticella che cresce alla luce del sole nascente. Sanduzzi ci dice che ben 87 erano i carbonari iscritti, di cui poi 53 (tra cui 5 preti) saranno condannati nella reazione borbonica che seguirà. Come mai in soli venti anni questa trasformazione e questa maturazione, sconvolgente per certi aspetti? Va richiamata la fondamentale esperienza del regime napoleonico nel sud Italia tra il 1806 e il 1815, prima col regno di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, poi con quello di Gioacchino Murat. L’abolizione della feudalità –seppure non completa-, la ripartizione dei demani, la soppressione di moltissimi conventi e monasteri degli ordini religiosi con la vendita dei loro beni, le impegnative riforme finanziarie, la diminuzione e il consolidamento del debito dello Stato, i grandi lavori pubblici (soprattutto costruzioni stradali), la riforma dei codici, l’organizzazione di un più efficiente apparato statale, la modernizzazione dell’esercito, furono tutti fattori che fecero percepire all’opinione pubblica meridionale che si stava compiendo un salto di qualità verso una parziale ma significativa modernizzazione. Era il superamento della rivoluzione borghese-intellettuale (disegni ambiziosi avanzati ma astratti) del 1799 con una direzione ora nelle mani più concrete della borghesia agraria e municipale, interessata ad impossessarsi delle molteplici leve del potere locale. Era stata soprattutto, quella dei napoleonidi, una rivoluzione politico-giuridica, la fine degli elementi politici e giuridici su cui si era fondata la feudalità, la trasformazione dei princìpi su cui si reggeva il potere della classe dominante. Per di più contarono anche fattori locali: la soppressione delle odiate imposte feudali, l’abolizione del canone annuo di 100 ducati che il Comune doveva al duca feudatario, il passaggio al Comune dei beni provenienti dal demanio ecclesiastico (Sanduzzi cita i Castagneti Fieste e Ponticiello, p. 588), l’incremento del commercio dei tessuti, uno sviluppo significativo dell’industria del miele (a causa del blocco continentale di Napoleone contro l’Inghilterra e dell’interruzione dell’importazione di zucchero dalle colonie inglesi), tutti questi furono elementi che ebbero immediate positive ripercussioni sulla vita economica e sociale del paese. Le entrate comunali, che erano state di 4455 ducati nel 1801, salirono a 19154 ducati nel 1812; la popolazione, che nel censimento del 1743 era di 3358 abitanti, salì nel 1810 a 4251 e nel 1818, secondo il Catasto Provvisorio di quell’anno, a 4818; fu realizzato, infine, un parziale risanamento e abbellimento urbano con la sistemazione e bonifica della Piazza Leonardo di Capua, con la costruzione di ponti e la riallocazione di fontane (Sanduzzi, pp. 588-9). Ma c’era anche –e come nel 1647- la fiducia di stare in un movimento regionale nazionale europeo di cambiamento e di modernizzazione. Intanto nel 1815, dopo la definitiva sconfitta napoleonica a Waterloo, in Italia erano stati restaurati i regimi pre-rivoluzionari e nel Sud erano tornati i Borboni. La rivolta carbonara scoppia il 1 luglio 1820. Il 5 luglio è proclamata a Bagnoli la Costituzione. Sono presto formate due compagnie di volontari, armati a proprie spese dagli abitanti. Il 13 luglio il re giura solennemente sul Vangelo di difendere e conservare la Costituzione. Ma la situazione precipita nell’autunno-inverno. Il re Ferdinando tradisce gli impegni presi, passa nel campo della reazione e fa crollare il pilastro del nuovo ordinamento costituzionale. Alla fine di marzo del 1821 gli austriaci entrano a Napoli e ristabiliscono l’assolutismo monarchico.

L’analisi storica ha individuato i motivi della persistente debolezza dei movimenti riformatori meridionali: l’immobilità delle strutture economico-sociali, l’arretratezza dei rapporti di produzione e dei metodi di lavorazione, l’intrinseca debolezza di una borghesia ancora immatura e molto divisa al suo interno, soprattutto tra città e campagne, un mondo contadino chiuso nella miseria e nell’ isolamento di sempre. Gli italiani sono un popolo complicato. Possono essere contemporaneamente conformisti, pavidi, omertosi, amorali ma anche ribelli, anarchici, libertari e animati da una congenita diffidenza per le istituzioni. Ma va richiamata alla nostra memoria anche la complessa pluridimensionale e contraddittoria articolazione specifica del popolo meridionale; la difficoltà obiettiva, sottolineata dagli storici di tutte le tendenze, di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare; diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale; diversa la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche; diversi il folklore gli usi e i costumi; con caratteristiche evidenti di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico (per dirla con il Galasso). L’unità entusiasmante del fronte rivoluzionario borghese-popolare dei giorni del luglio 1820 poggiava su basi fragilissime e ambivalenti, perciò. Ma tutto questo non diminuisce il valore eccezionale dell’esperienza fatta dai carbonari bagnolesi. Se scorriamo l’elenco dei condannati e la loro collocazione sociale abbiamo la conferma che tutte le classi e i settori sociali di Bagnoli, con una predominanza dei ceti proprietari, avevano creduto nel moto unificante delle richieste carbonare, con le parole d’ordine di W il Re (superamento del repubblicanesimo di 20 anni prima, ancora immaturo), W Dio (negazione di un ateismo ritenuto sacrilego), W la Costituzione (ecco la soluzione più democratica allora possibile, costituzione europea sul modello spagnolo, un controllo sociale del potere regale). Sempre Sanduzzi insiste a più riprese sul ruolo cruciale avuto in tutte queste iniziative dai commercianti ambulanti di tessuti, annota che a motivare tanti nostri patrioti erano non solo le idee di libertà e uguaglianza proclamate dalla rivoluzione francese ma anche il desiderio ardente di scuotere l’Italia dal giogo straniero, riunirla in una sola nazione per far fronte ai popoli vicini, che l’aveano per secoli dominata e sfruttata (p. 592). Questo è un giudizio avventato, almeno per i fatti del 1820-21, influenzato da un’etica già risorgimentale. E’ così possibile comunque, anche solo annotando i commenti della nostra fonte, sottolineare la graduale e profonda maturazione ancora una volta, in pochi anni, della presa di coscienza e delle coraggiose scelte di impegno e di rischio di una parte davvero molto significativa dei ceti dirigenti del paese. Un’opzione che continuerà anche negli anni successivi. Nel 1828 ben 10 patrioti bagnolesi, aderenti alla setta carbonara dei Filadelfi, saranno arrestati (Sanduzzi, 594). E negli anni Trenta saranno perseguitati nel paese aderenti alla Giovane Italia di Mazzini (Sanduzzi, 605). E poi, i tanti partecipanti ai moti del 1848-49. Strascichi interessanti e durevoli, fino alla partecipazione di Michele Lenzi, sindaco poi del paese, alla spedizione garibaldina in Sicilia. Ci sono due film che hanno ricostruito molto bene e narrato con efficacia l’ambientazione storico-sociale e il profilo psicologico dei protagonisti rivoluzionari della prima metà dell’Ottocento italiano e meridionale: Allonsanfàn (1974) dei fratelli Taviani e Quanto è bello lu murire acciso (1975) di Ennio Lorenzini; invito i nostri soci cinefili appassionati a utilizzarli per una lettura guidata, rivolta soprattutto ai bagnolesi più giovani.

Ho scritto, nel mio Estratto, che a questo punto avrei sviluppato una riflessione disincantata sugli interventi divini nelle vicende politiche ed umane. So di toccare un tasto delicato e sensibile per molti bagnolesi ma voglio farlo con prudenza e attenzione, con l’intento soprattutto di suscitare dubbi e interrogativi. Espongo comunque i dati essenziali, utili per la riflessione e il dibattito. A partire probabilmente proprio da una malintesa interpretazione della cronaca e dei commenti del Sanduzzi, nel corso del ‘900 si è rafforzata a Bagnoli la convinzione, maturata nei secoli precedenti, di un intervento miracoloso della Madonna a protezione del paese anche nei primi giorni del maggio 1799. Anche se il nostro Sanduzzi non si risparmia, a metà di p. 538 del suo libro, di annotare “il vero motivo del richiamo delle truppe francesi” e di insinuare qualche dubbio sugli organizzatori dell’”invocazione dei fedeli nel Duomo a Maria SS. a protezione del paese”. I dati oggettivi da rimarcare sono di duplice ordine. Da un lato, i fatti storici evidenti: dal Candeloro apprendiamo che “proprio nel mese di aprile giunsero a Napoli le notizie dei primi insuccessi subìti dal generale Schérer in Lombardia nella guerra contro gli austriaci, sicché il generale Macdonald il 15 aprile ordinò alle forze francesi che presidiavano le Puglie di ripiegare su Napoli. Quindi, giunte altre gravi notizie dalla Lombardia, il comandante francese, lasciati alcuni presìdi a Castel S. Elmo, a Capua e a Gaeta, il 7 maggio levò il campo da Caserta e col grosso dell’armata si diresse verso il nord. La Repubblica napoletana era abbandonata a se stessa” (Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, 1978, v. I, pp. 263-4). Dall’altro, i fatti paesani del 5-6 maggio, già raccontati. Nella seconda metà del mese di giugno 1799 il Parlamento del Comune votò una seconda festa della Vergine da effettuarsi ogni anno nel mese di giugno, “da celebrarsi il lunedì (ché in tal giorno avvenne il richiamo dei francesi) successivo all’ottava del Corpus Domini” (Sanduzzi, 539). La festa fu ripetuta fino al 1805 ma nel 1806, ritornati i francesi, “si stimò prudente non celebrarla per non offendere la loro suscettibilità” (cit, ib). Dopo il 1815, ritornati ancora una volta i Borboni, la festa non fu ripresa (e sarebbe molto interessante chiedersi il perché). Fino a quando, nel 1837, per una grave epidemia di colera, si ritenne necessario invocare di nuovo sul paese la protezione della Madonna, stabilendo un legame tra la pestilenza del 1656-‘57-l’attacco francese del 1799-il colera del 1837, sempre col paese protetto dai miracoli mariani. Sia consentito a un laico di dubitare fortemente su pretesi interventi divini nelle vicende umane. A questo proposito vorrei riprendere i dati molto dettagliati che il nostro Sanduzzi riporta nelle (pp. 386-97) sulle caratteristiche della grave epidemia di peste di metà ‘600. Nell’anno e mezzo (1 luglio 1656-1 gennaio 1658) in cui imperversò a Bagnoli il morbo morirono 1089 abitanti, quasi 1/3 del paese. Nel mese di luglio 5 morti, 18 in agosto, 99 a settembre, 280 in ottobre, 358 a novembre (il picco), 144 a dicembre, 185 in tutto il 1657, con un’evoluzione tipica di queste epidemie e verificabile nei vari secoli e nelle diverse regioni d’Italia e d’Europa. Un andamento del tutto simile, infatti, l’ho riscontrato a Venezia nell’epidemia di peste del 1630-’31 (quella citata dal Manzoni nei Promessi Sposi e che devastò la pianura padana). Ci furono 35000 morti circa su 102000 abitanti (anche qui poco più di 1/3): 48 nell’agosto del 1630, 1168 a settembre, 2121 in ottobre, 14465 a novembre (il picco), 7641 a dicembre, 2048 nel gennaio 1631, 2033 a febbraio, 2085 a marzo, 2213 in aprile, 2936 a maggio, 4002 a giugno, 2891 a luglio, 1474 in agosto, 638 a settembre, 727 in ottobre. Anche nella città lagunare Autorità e Popolo chiesero, il 22 ottobre 1630, la protezione della Vergine e le dedicarono la stupenda chiesa della Salute sul Canal Grande (Paolo Preto, Peste e demografia, in AA.VV, Venezia e la peste, Marsilio, 1979, pp.96-98). Sanduzzi ci informa anche (pp.395-7) che a Napoli, dove “c’era stata immensa strage di cittadini, la pestilenza era cessata verso novembre 1656 e la fine di essa era stata ivi attribuita a speciale intercessione di Maria SS., sotto il titolo di Immacolata Concezione, a ciò indotti dai monaci francescani che nutrivano e propagandavano la divozione verso l’Immacolata(…) Come seppe il Capitolo dei Canonici di Bagnoli che Napoli dovea la cessazione del morbo a speciale intercessione di Maria Immacolata, si affrettò a diffondere nel paese tale notizia, e a infervorare tutti a raccomandarsi a Lei, se voleano vedere Bagnoli non del tutto sterminata(…)Il 6 dicembre 1656 il Parlamento del Comune accettò tutte le proposte dei Canonici: festa l’8 dicembre, digiuno a pane e acqua nella vigilia, una prestazione annua del Comune di 10 ducati, l’Immacolata eletta a speciale protettrice del paese”. A conclusione si può annotare che in tutta Italia, ma specialmente nel Sud, è sempre stata forte nei secoli passati la tradizione di appoggiare il senso dell’identità cittadina e paesana ai culti dei santi patroni: una sorta di religione civica quale segno e fondamento di una identità politico-sociale, che ignora del tutto o si assoggetta servilmente al dominatore di turno. Ne è una riprova clamorosa il fatto che a Napoli il sangue di S. Gennaro si sciolse sia a favore dei repubblicani indipendentisti che degli spagnoli nel 1647-8, e nel 1799 il miracolo si ripeté appoggiando sia le armate francesi e i giacobini che il sanfedismo borbonico.

 

Eccoci quindi all’ultimo tassello: il voto per la Repubblica a Bagnoli nel referendum istituzionale del 1946 (1110 voti, pari al 59, 35%) e la predominanza nel nostro paese di un Fronte Laico nelle elezioni politiche dei 40 anni successivi. Nel giugno scorso la conferenza di A. Cella e del prof. Cogliano ha avviato un dibattito su questi temi, discussione che deve continuare e necessariamente allargarsi e approfondirsi; abbiamo preso l’impegno, come Circolo, di promuovere una ricerca sistematica sulla presenza politica, sul radicamento territoriale e sulle proposte programmatiche in Irpinia –tra il 1945 e il 1970- dei tre grandi partiti di massa, la DC-il PCI-il PSI. Premetto subito che questo è un tema molto controverso e sul quale le mie perplessità d’analisi sono notevoli, sia per l’ambiguità politica del concetto di Fronte laico, che non è né coerente né compatto, sia perché relega implicitamente la DC su un versante conservatore. E questo assolutamente non è vero né nella realtà locale né in quella nazionale. Il quadro politico di oggi è radicalmente diverso da quello di 60 anni fa. Allora c’era un mondo diviso in due blocchi contrapposti, oggi si va verso uno stentato sistema multipolare con inedite difficoltà di coabitazione. La DC, il PSI, il PCI, partiti strategici del secondo dopoguerra in Italia, sono scomparsi e si sono frantumati, scomponendosi e riaggregandosi nel Pdl, nel Pd, nell’Udc, nella Lega Nord, nell’Italia dei Valori o in gruppi politici per ora marginali. Tutto sembra davvero molto cambiato. Però, pur con tutte queste cautele, pur con l’avvertenza che non è ancora avvenuto il passaggio dalla cronaca alla storia, operazione intellettuale dalla quale ci si aspetta inevitabilmente un’analisi più lucida laica e dissacrante, non è senza interesse riflettere su questo nostro dato politico-elettorale, ancora una volta originale nel contesto campano e meridionale. Io mi chiedo: ha un qualche significato storico? E soprattutto continua quella sottile linea rossa che ho voluto rintracciare nella storia delle classi dirigenti bagnolesi? Soprattutto perché, se è vera l’analisi di una Dc non conservatrice, o non totalmente conservatrice, a maggior ragione emerge il quadro di una popolazione che fa scelte politiche nettamente avanzate.

Intanto i dati. Fin dai risultati delle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 il Fronte laico (Pci Psi Pda Pri) ha il 54, 5% -la maggioranza assoluta perciò-, un dato che sale al 61% nelle due elezioni degli anni ’50 (1953 e 1958, col Psdi che sostituisce il Pda scomparso) e che si conferma stabilmente nel ventennio successivo (da un minimo del 53% nel 1972 al massimo del 63,5% del 1983). (Mi sono rifatto alle tabelle contenute nel libro di T. Aulisa, Bagnoli antico e moderno, 1984). Che significato diamo, nella politica italiana, a questo raggruppamento, che chiamiamo Fronte Laico? Non è uno schieramento omogeneo. Il Pci è stabilmente e saldamente all’opposizione, il Psi lo sarà solo negli anni ’50 per poi diventare il partner fondamentale della Dc nel centrosinistra dal 1963 in poi, Pri e Psdi sono alleati strategici della Dc fin dalle scelte decisive del 1948-9 sulla Nato e del 1954-6 sul Mec. E non è senza significato che De Gasperi, dopo il 18 aprile 1948, pur potendo governare da solo, volle invece associarseli al governo.

Però io voglio ribadire il carattere a-confessionale di questi partiti come elemento di modernità: in essi c’era il chiaro superamento –rispetto alla linea politica e al rispecchiamento sociale di partiti quali il Pli, il partito monarchico, (un’analisi a parte meriterebbe il Msi)- di modelli e tradizioni di notabilato, così tipici dei rapporti ancora gerarchici e clientelari della società meridionale. Scriveva il prefetto di Avellino il 4 aprile 1946 in una relazione al Ministero dell’Interno che in questo territorio prevale una speciale forma di attaccamento della popolazione verso quelle famiglie locali che per censo e istruzione mantengono una posizione di privilegio. Si scelgono le famiglie, non i partiti. Ancora oggi in Campania si constata una continuità dei gruppi di potere dominanti a Napoli e in regione, una continuità addirittura storica e anche trasversale, capace di contaminare persino settori della sinistra: dalle forze raccolte nel blocco clerico-moderato del periodo giolittiano di primo ‘900, fino alle fasi di Lauro prima, Gava poi e oggi –sia pure con qualità diverse- del duo De Mita-Mastella e che ha contagiato anche la pratica politico-amministrativa di Bassolino. E’ da questa angolazione che –secondo me- va rettamente interpretata quella forte ripulsa che c’è stata e che ancora persiste a Bagnoli di una metodologia politica fatta anche, e forse soprattutto, di occupazione del potere pubblico, di favori clientele elargizioni. E in questo orientamento politico, stavolta dell’intera popolazione bagnolese e non solo dei gruppi dirigenti, io voglio rintracciare elementi di continuità con gli episodi storici così significativi, che ho analizzato fin nei dettagli.

 

Conclusione.

Siamo così giunti alla fine. E ritorno alla domanda iniziale: c’è stata a Bagnoli una classe dirigente che, pur fra contraddizioni, ha plasmato nei secoli la società locale e ha attraversato gli eventi con dignità e serietà? Io credo di trarre dagli esempi che ho analizzato una risposta affermativa: alcuni tra i nostri antenati, in taluni casi una parte significativa, hanno saputo e voluto scegliere tra le drammatiche alternative proposte la strada della autonomia e della libertà, della innovazione e della modernizzazione, anche se non accompagnata da un fenomeno autentico e reale di sviluppo, che del resto non dipendeva da loro. Come possiamo noi oggi, cittadini bagnolesi, essere coerenti con questa lezione? Cosa può significare per noi essere classe dirigente oggi? Si sarà in grado di affrontare i problemi difficilissimi posti dal degrado ambientale crescente, dall’esaurimento delle risorse energetiche fossili mentre cresce tumultuosamente la domanda mondiale, dai mutamenti climatici, dai nuovi equilibri geo-strategici del pianeta? Le rotture rivoluzionarie sono degli shock, un cambiare improvviso di segno, poi serve il tempo, la costruzione di modelli culturali convincenti che avviene in tempi lunghi, a volte lunghissimi. La borghesia ha costruito cultura per sei-sette secoli, da classe dominata, e solo alla fine di questo processo ha vinto; le rivoluzioni proletarie del ‘900 hanno perso in modo rovinoso anche perché non precedute e preparate da un serio lavoro culturale.

Bisogna riflettere sul concetto e sulla pratica reale della democrazia. Essa è un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Essa richiede cittadini capaci di decidere che cosa realizzare, perché farlo e come farlo. Intanto è necessaria in tutti noi una scelta di fondo: ripudiare la democrazia della raccomandazione, della corruzione e dell’ignoranza, optare per la democrazia del controllo, del merito, della serietà. Questo è un obiettivo del lavoro del nostro Circolo, e dovrebbe esserlo anche dei partiti politici e di tutte le associazioni del paese. Impegno comune per un progetto di educazione civile della società bagnolese. Puntare a far diventare, con lavoro serio e graduale, ogni cittadino di Bagnoli elemento di classe dirigente. Esaltare la soggettività politica e culturale di ognuno di noi. Gramsci sosteneva, se non sbaglio, che un partito è l’organizzazione delle passioni degli iscritti, non degli interessi dei suoi dirigenti; non si dovrebbe partire come se cominciassimo ogni volta la spedizione dei Mille per liberare il Sud e ci si ritrovasse poi con i gattopardi di sempre. Un buon governo si costruisce anche attraverso le scelte quotidiane della società civile.

Vorrei approfondire con più attenzione i concetti di democrazia e di politica. Essi devono essere sempre accompagnati da una forma di Anti-Politica. E spiego perché. In questi ultimi tempi si scrivono e si leggono molte analisi approssimative e fuorvianti. Ogni cittadino è portatore di soggettività politica. In una struttura utopica di democrazia diretta ognuno rappresenterebbe al meglio le idee e gli interessi di se stesso. Ma la società industriale moderna è complessa, ed imponente dal punto di vista demografico. In Occidente siamo in questa fase storica in una democrazia rappresentativa. Ed è in atto un’evidente crisi del principio di rappresentanza, che ha varie cause, penso soprattutto alla potenza degli apparati tecnico-economico-finanziari, che non funzionano certo sulla base dei princìpi democratici. Basta vedere cosa è successo con la gravissima crisi finanziaria di questo ultimo periodo, e con una recessione economica che si prospetta tremenda, spietata e lunga. Bisogna prendere sul serio la contestazione dell’attuale struttura e del funzionamento dei partiti. In teoria la legittimità democratica si fonda sulla volontà espressa dal popolo ma in realtà questa volontà non è mai generale e la maggioranza non è altro che una frazione, dominante, del popolo. Per questo, non basta il verdetto delle urne ma è indispensabile il legame di fiducia che il potere deve stringere con i cittadini. Bisogna prendere sul serio l’antipolitica e non assumerla come una patologia contingente. Essa ci permette di vedere un limite essenziale del discorso democratico. Io delego a un mio rappresentante me stesso, proietto in lui le mie idee e la tutela dei miei interessi. Se io mi identifico col mio rappresentante, se egli riflette perfettamente le mie idee, questa è la forma democratica ottima. Ma allora si perde la rappresentanza. Perché questa comporta una differenza e una distanza tra rappresentante e rappresentato. L’idea regolativa della democrazia rappresentativa comporta perciò di necessità una critica immanente e continua dell’idea stessa di rappresentazione. Io, homo democraticus, vivo di questo paradosso: sono costretto a delegare ma insieme esprimo una insopprimibile istanza all’autonomia, vivo cioè questa dialettica politica con un senso di privazione, di alienazione. E’ evidente che il deputato rappresentante deve sentire l’enorme responsabilità di rapportarsi di continuo ai suoi elettori (è su questo drammatico contrasto che si misura la vera porcata del Porcellum di Calderoli e Berlusconi!, quando sottrae agli elettori la scelta del deputato trasferendola alle segreterie dei partiti, o addirittura al capo del partito). L’alienazione dei miei diritti di cittadino deve essere compensata dal dovere morale e politico del mio rappresentante a non trattarmi da suddito, a non arrogarsi privilegi assurdi (v. le retribuzioni altissime e i tanti benefit), a servire lo Stato con umiltà, a essere sottoposto sempre a controlli (la sua certificazione penale) e a revoca, a non durare in eterno (ecco i due-tre mandati al massimo). La democrazia esige rappresentanti capaci di ascoltare i movimenti del mondo reale e di tradurli in azioni politiche. Il potere deve essere esempio responsabilità servizio sacrificio, non un marciume a volte infame, non un sistema perdonatorio che premia le insipienze e le clientele, accaparratore di privilegi ben remunerati, con legami non sorprendenti con la malavita organizzata e con il cuore di tenebra della politica. Uno scrittore latino-americano, Carlos Fuentes, nel suo ultimo romanzo Il trono dell’aquila (Saggiatore, 2008) scrive che l’adulterio è il migliore addestramento per apprendere l’arte della politica: per la necessità di riservatezza, per la menzogna, l’ipocrisia, il tradimento. La politica non è sempre menzogna o ipocrisia ma purtroppo è anche questo. Nel mondo la democrazia si è sviluppata ma in modo disuguale e soprattutto formale, non sociale: ci sono miliardi di persone costrette ancora a chiedersi: “Come è bella la democrazia, ma a che ora e che cosa si mangia?” C’è oggi un’energica attesa sociale che chiede ai poteri di recuperare “una integrità di élite”, per così dire, in competenze, in capacità di decisione. Questa è la lezione che viene anche dall’esperienza infelice dell’Unione e dell’ultimo governo Prodi. Una classe dirigente non deve trasformarsi in una casta digerente, per dirla con una formula giornalistica di successo: altrimenti potrebbe verificarsi davvero la progressiva distruzione dello stesso principio di rappresentanza politica. Lo ripeto: nel tempo delle tecnologie moderne le istituzioni della democrazia deliberativa soffrono quasi ovunque nel mondo di un deficit di legittimità e di attrattività e sempre più si afferma un’esigenza di trasparenza e di partecipazione. Questa sana urgente necessaria critica alla classe politico-istituzionale non può e non deve essere trasformata e deformata nell’accusa di qualunquismo antipolitico. Ma questo sarà realmente possibile solo se i cittadini, tutti i cittadini, garantiranno a se stessi informazione competenza onestà impegno. Noi meridionali dobbiamo guardare con spietatezza a noi stessi ma anche raccontare i nostri talenti e i nostri successi, dobbiamo saper avere ambizioni e pensieri lunghi. Un cittadino è la cellula più piccola della società, e nella nostra società civile bagnolese serve che ognuno abbia una responsabilità, si svesta dell’inerzia e dell’apatia e –da persona normale, con tutti i suoi limiti- cerchi di cambiare quello che ritiene ingiusto, contribuendo a costruire anche uno spirito collettivo positivo. Solo così si potrà affermare che non vale per Bagnoli e l’Italia di questi anni quello che Francesco Guicciardini scriveva nei suoi Ricordi della Firenze del primo ‘500: “Spesso tra il Palazzo e la Piazza c’è una nebbia così folta o uno muro così grosso che…tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che si fanno in India(…) Quanti dicono bene, che non sanno fare! quanti in sulle panche e in sulle piazze paiono uomini eccellenti che, adoperati, riescono ombre!”

Il lavoro del nostro Circolo è avvicinarci sempre di più, con pazienza e serietà, a raggiungere almeno una parte di questi obiettivi. Un ceto dirigente onesto dignitoso laborioso giovane, identificato con dei progetti, allenato a collaborare insieme in gruppi di lavoro, rispettoso delle opinioni di tutti ma al tempo stesso capace di battersi con serena fierezza per i propri ideali, che sia presente in tutti i partiti del nostro paese, dotato di strumenti critici forti, desideroso di leggere e studiare, di pensare e di crescere, capace di distinguere tra il concetto di persona e quello di individuo. Una classe dirigente maturata dall’elaborazione e dall’esempio di partiti rinnovati, uscita dall’esperienza del lavoro, dalle università, dalle scuole, dalle fabbriche e dall’artigianato, dalle professioni, dal governo dell’Ente Locale, dall’associazionismo; che abbia sia radici che ali: che sa serenamente coltivare l’orgoglio del passato valorizzandone la tradizione e sa aprirsi verso l’esterno dialogando con il mondo in una prospettiva cosmopolita. Così potremo continuare quella linea di coraggio e modernità, quella capacità di coerenza, che ho cercato di rintracciare in alcuni episodi importanti della nostra storia paesana e di cui dobbiamo sempre essere consapevoli e fieri, perché ci danno l’orgoglio del passato e la speranza del futuro.

 

A commento delle riflessioni che ho scritto sul Seicento bagnolese, meridionale e italiano, voglio riportare due testi poetici, diversissimi tra loro, ma interessanti.

Il primo è un madrigale-sonetto scritto da Tommaso Campanella, frate domenicano, teologo e filosofo, nel 1601, quando era rinchiuso nelle carceri spagnole di Napoli.

 

Stavamo tutti al buio, altri sopiti (a)

D’ignoranza nel sonno, e i sonatori (b)

Pagati raddolciro il sonno infame. ©

Altri vegghianti rapivan gli onori, (b)

La robba, il sangue, e si facean mariti (a)

D’ogni sesso, e schernian le genti grame. ©

Io accesi un lume; ecco qual d’api esciame ©

Scoverti, la fautrice tolta notte, (d)

Sopra a me vendicar ladri e gelosi, (e)

E que’ le paghe, e i brutti sonnacchiosi (e)

Del bestial sonno le gioje interrotte, (d)

Le pecore co’ lupi fur d’accordo  (f)

Contra i can valorosi,  (e)

Poi restar preda di lor ventre ingordo. (f)

Il poeta vuole spiegare che tutta l’umanità è abbrutita e giace in una specie di oscura caverna. La maggioranza dorme, assopita nell’ignoranza; ma ci sono persone, assoldate, servi cortigiani dei tiranni che insistono nel farla dormire, adulandola e rassicurandola con bugie e ipocrisie. Poi ci sono altri ancora, svegli e malvagi, birbanti e corrotti, sempre al servizio dei potenti, che rapinano gli onori e i beni dei dormienti e si abbandonano a piaceri lussuriosi. Il filosofo-poeta accende nelle tenebre un lume per svelare a tutti gli inganni; ma contro di lui si muovono gli uni e gli altri, le pecore e i lupi, i sonnacchiosi e i ladri, gli uni per vendicarsi del loro sonno interrotto, gli altri delle loro malvagità denunciate. Le pecore furono d’accordo coi lupi contro i cani; poi, sconfitti i cani, le pecorelle furono preda del ventre ingordo dei lupi che le sbranarono.

I cani sono i Domini canes, i cani del Signore, come si chiamavano i frati domenicani (S. Domenico era accompagnato da un cane con una torcia in bocca).

Come non cogliere l’attualità sconvolgente di questo testo?

Chi sono i cani del Signore di oggi? Chi i cortigiani? Chi i birbanti e i corrotti? Con quali strumenti i sonatori pagati raddolciro il sonno infame? E perché le pecore si fanno così docilmente sbranare dai lupi, che prima le rimbambiscono e poi, con tutta calma, le sfruttano e le derubano? Cosa dire di esperienze di governo della Destra che consapevolmente trasferiscono enormi risorse dal lavoro dipendente e dai pensionati ai redditi autonomi e nello stesso tempo ottengono i voti dalla stessa classe operaia, dalle casalinghe e dai pensionati?

Il secondo è un’ottava tratta dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, ed. 1532.

I versi spiegano la necessità della Dissimulazione, la capacità cioè di nascondere la propria vera natura. La vita umana è un doloroso pellegrinaggio, che l’uomo compie tra infiniti pericoli, dai quali deve sapersi guardare, se aspira a godere di quella felicità, che solo la morte concede. Si può salvaguardare la verità solo nascondendola. Per capire nella loro interezza questi versi si deve tenere a mente una frase terribile, scritta da Paolo Sarpi, un monaco servita veneziano, autore di una bellissima Istoria del Concilio Tridentino, Venezia 1608 (libro messo all’Indice dalla Chiesa cattolica): “Se vivi in Italia, una maschera devi portare”.

Ludovico Ariosto Orlando Furioso (canto IV, vv. 1-8).

Quantunque il simular sia le più volte (a)

ripreso, e dia di mala mente indici, (b)

si truova pur in molte cose e molte (a)

aver fatti evidenti benefici, (b)

e danni e biasmi e morti aver già tolte; (a)

che non conversiam sempre con gli amici (b)

in questa assai più oscura che serena ©

vita mortal, tutta d’invidia piena. ©

 

Poi aggiungo questa quartina di Michelangelo Buonarroti:

Caro m’è il sonno, e più l’esser di sasso

mentre che il danno e la vergogna dura;

non veder, non sentir m’è gran ventura;

però non mi destar, deh, parla basso.

 

E ancora questo Ricordo di Francesco Guicciardini:

Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: sì ché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì ché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dipendente da Dio, e ancora ché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano(…) Arei amato Martino Luther quanto me medesimo…per veder ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioé a restare o sanza vizi o sanza autorità.

Nel breve dibattito che è seguito alle relazioni l’ing. Michelino Nigro ha osservato che in qualche passaggio avrei forzato i toni dell’analisi. Io naturalmente ho negato d’averlo fatto. Ma sono contento di questa notazione per spiegare meglio la mia posizione. In storia, come in qualsiasi altro ramo della produzione scientifica, tutti i ricercatori portano nelle loro indagini il peso della loro ideologia e della loro formazione culturale. Questo è innegabile e vale per tutti e per tutte le tendenze. Non può esistere un’oggettività assoluta. Quello che è invece fondamentale è che lo storico dichiari con chiarezza sempre la metodologia che ha inteso seguire, le fonti che ha usato nelle sue indagini, i confronti meticolosi che ha operato con altre sorgenti di informazioni, il dibattito storiografico nel quale si è inserito. E’ importante che chi indaga tenga sempre a mente di dover rispondere a semplici quesiti: chi è il protagonista di un fatto, cosa è avvenuto, quando e dove, con quali modalità, per quali ragioni, con quali conseguenze. Con la consapevolezza che la storiografia, quando ha valore civile, non consola bensì pone domande. Ho già sottolineato che in ogni ricerca sono fondamentali le domande che ci si pone, perché le risposte a cui si perviene inevitabilmente proporranno altre e più suggestive domande a cui si cercherà ancora di rispondere in una catena inesauribile e sempre nuova di problemi e di interrogativi.

Nel dibattito è stato fatto notare da Aniello Vivolo, discretamente, che nel relazionare i risultati elettorali di Bagnoli –dal 1946 al 1983- erano stati omessi quelli relativi al 1948, risultati che avevano registrato la grande vittoria nazionale della D.C.

A Bagnoli, però, anche in quell’occasione il Fronte Laico prevalse. Ecco i dati (Aulisa, cit, p. 289):

Il raggruppamento di Destra ebbe 71 voti, così disaggregati:

MSI 2, Uomo Qualunque 27, Monarchici 42. Tot. 3,63%.

La Democrazia Cristiana ebbe 849 voti, il 43,49%.

Il Fronte Laico ebbe 964 voti, così disaggregati: PRI 95, Fronte Popolare 667, Socialdemocrazia 202. Tot. 49,38%.

I votanti furono 1952 e i risultati si riferiscono alla Camera.

Al Senato i votanti furono 1676. La Destra ebbe il 4%, la DC il 44%, i Laici il 46,30%. Se ne desume che il voto giovanile premiò i Laici.

Risposta a due domande di Carlo Trillo ’49. Sul ruolo d. donne nella Repubblica napoletana del 1647-8 non posso che ribadire le poche scarne note contenute nella mia relazione a pag. 11. Le ho riprese dal saggio più documentato sull’argomento, quello di G. Galasso, citato in bibliografia, “Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734)”, in “Storia d’Italia”, Torino, Utet, v. XV, t. III, pp. 277-552. C’è un altro libro molto interessante scritto da A. Musi ma l’indicazione l’ho lasciata nella mia biblioteca a Bagnoli; potrò fornirla in seguito. Si sa che Masaniello riuscì a mobilitare, nei quartieri intorno alla chiesa del Carmine a Napoli, una quota significativa di popolane. Nella rivoluzione partenopea giacobina del 1799 un ruolo importante di direzione culturale lo ebbe Eleonora Fonseca Pimentel, come direttrice del Monitore repubblicano, giornale ufficiale del nuovo governo, impiccata poi il 20 agosto 1799.

Sulla causalità oggettiva tra i fatti del 1647-8 e la più generale Questione meridionale io ho già accennato a pag. 11 della mia relazione e poi ancora a pag. 14, commentando i moti del 1820-21. Vero è che il problema delle cause profonde dell’arretratezza meridionale e del sostanziale dualismo tra le due Italie è un problema dibattutissimo, su cui c’è una bibliografia sterminata.

Quello che si può dire sinteticamente in questa sede è questo: già nel medioevo si erano poste le premesse di una grave arretratezza del nostro Sud. C’erano state condizioni favorevoli perché anche nel Mezzogiorno, tra il 1100 e il 1300, si sviluppassero progressi economici e innovazioni istituzionali legati alla creazione dei Comuni, come nel centro-nord d’Italia: nel Sud si registravano tra XI e XII secolo città e mercati all’avanguardia nei rapporti con le economie di Bisanzio e degli Stati arabo-islamici, concentrati soprattutto lungo le coste del Tirreno (Gaeta, Napoli, Amalfi, Salerno, alcuni centri calabresi), della Puglia e in Sicilia. Normanni e Svevi vi avevano introdotto però, tra il 1059 e il 1250, una monarchia unitaria e centralizzatrice che aveva gradualmente inaridito le autonomie comunali e bloccato lo sviluppo d’una borghesia avanzata. Questo fenomeno era da una parte negativo ma da un’altra parte poneva problemi del tutto nuovi e interessanti: se l’imperatore svevo Federico II fosse riuscito a unificare l’Italia sotto il suo potere, sconfiggendo la Chiesa e i Comuni, sarebbe nata a metà ‘200 nella nostra penisola una entità politica e statale del tutto nuova nel contesto europeo, in anticipo rispetto alle esperienze delle monarchie nazionali di Francia e Inghilterra, con una concezione statuale moderna e che aveva nel Sud il suo centro motore e le forze intellettuali dirigenti, anche se scontava la contraddizione importante d’una divisione tra realtà costiere progressive e centri interni isolati e depauperati.

Nel XIII sec. in Italia si giocò quindi una partita decisiva: nel centro-nord si svilupparono forze borghesi e vitalità economica rilevanti, centrate intorno ai Comuni e poi nelle Signorie regionali; nel Sud la centralizzazione monarchica autoritaria poneva in embrione le premesse di una possibile unità dello Stato ma si bloccò prestissimo per ragioni interne e internazionali. Il Sud quindi non ebbe sviluppo economico capitalistico in agricoltura, non vide nascere una borghesia mercantile e finanziaria anche per la distanza dai mercati centro-europei (già coperti dal ruolo di intermediazione di Venezia e Genova, oltre che da Milano e Firenze), perse infine anche la dominazione monarchica: anzi fu donato dalla Chiesa a potenze straniere deboli (angioini, aragonesi) che non riuscirono a ostacolare lo strapotere cresciuto del baronaggio feudale. Per di più questo fallimento ostacolò gravemente l’instaurazione, nello stesso Sud, di un potere civile -quale quello del Comune- che altrove favorì la crescita di una cultura e di un costume civico positivi, con una responsabilizzazione seria della classe dirigente, dei ceti economici borghesi, di strati artigiani e contadini, di forze intellettuali (v. la storia delle città toscane umbre lombarde emiliane venete, col loro disegno urbanistico bellissimo e intatto, con la genialità delle creazioni artistiche, con forme interessanti di coinvolgimento “democratico” e di governo cittadino avanzato.

Come si vede, è una storia complessa e contraddittoria, da studiare in modo approfondito. Per una prima lettura, consiglio le pp. 12-60 del volume primo della “Storia dell’Italia moderna” di G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento”, Milano Feltrinelli, 1978; e le pp. 10-41 del volume primo della “Storia degli Italiani” di G. Procacci, Bari, Laterza, 1968.

I successivi sviluppi e i fallimenti del 1647-8, del 1799, del 1820-1 non fecero che aggravare questo squilibrio strutturale, già nato e cresciuto nei secoli precedenti, e che si trasferì interamente nel nostro Stato unitario nel 1861, con le conseguenze che ancora oggi viviamo.