Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 19° puntata. 1-7 maggio 1799. “Il re Borbone: estrema severità contro i rivoluzionari. Si ripete il “miracolo di S. Gennaro”. Il problema del Debito Pubblico. Ruffo scrive: “Mi mancano i fucili”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Diciannovesima puntata. 1 – 7 maggio 1799. “Il re Borbone afferma il principio di estrema severità contro i rivoluzionari. Il miracolo di S. Gennaro. Il Debito Pubblico. Il card. Ruffo scrive ad Acton: Mi mancano i fucili”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

 

 

1 Maggio. Mercoledì. Napoli. E’ nuovamente modificata la ripartizione del territorio della Repubblica.

Pescara. Gli insorgenti assediano la città.

Palermo. E’ affermato il principio di estrema severità contro i rivoluzionari. Il Re scrive al card. Ruffo: “La mia intenzione e volontà dunque si è che i rei sieno arrestati, e cautamente custoditi le seguenti classi di principali rei, cioè: Tutti quelli del Governo Provvisorio e della commissione esecutiva e legislativa di Napoli; tutti i membri della commissione militare, e di polizia, formata dai repubblicani; quelli che sono delle diverse municipalità e che hanno ricevuta una commissione in generale, dalla Repubblica o dai Francesi; e principalmente quelli che hanno formata una commissione per inquirere sulle pretese depredazioni da me e dal mio governo fatte. Tutti gli uffiziali, che erano al mio servizio, e che sono passati a quello della sedicente Repubblica o dei Francesi. Ben inteso però che è mia volontà che quando i detti uffiziali venissero presi le armi alla mano, contro le mie forze o quelle dei miei alleati, sieno dentro il termine di 24 ore fucilati senza formalità di processo, e militarmente. Come egualmente quei baroni che coll’armi alla mano s’opponessero alle mie forze ed a quelle dei miei alleati. Tutti coloro, che hanno formato e stampato gazzette repubblicane, proclami ed altre scritture, come opere per eccitare i miei popoli alla rivolta, e disseminare le massime del nuovo governo. Arrestati egualmente debbono essere gli eletti della città e i deputati della piazza che tolsero il governo al passato mio vicario generale Pignatelli, e lo traversarono in tutte le operazioni con rappresentanze e misure contrarie alla fedeltà che mi dovevano. Voglio che sia ugualmente arrestata una certa Luisa Molines Sanfelice, ed un tal Vincenzo Cuoco, che scoprirono la controrivoluzione de’ realisti, alla testa della quale erano i Backer padre e figli. Fatto questo, è mia intenzione di nominare una commissione straordinaria di pochi ma scelti ministri sicuri, i quali giudicheranno militarmente i principali rei fra gli arrestati con tutto il rigor delle leggi; e quelli che verranno creduti meno rei saranno economicamente deportati fuori dei miei domini loro vita durante, e gli verranno confiscati i beni (…) Mi riserbo, subito che riacquisterò Napoli, di fare qualche altra aggiunzione, che gli avvenimenti e le cognizioni, che si acquisteranno potranno determinare. Dopo di che è mia intenzione, seguendo i doveri di buon cristiano e di padre amoroso dei miei popoli, di dimenticare interamente il passato, e accordare a tutti un intero e general perdono, che possa rassicurare tutti da ogni traviamento passato, che proibirò ben anche di indagarsi, lusingandomi che quanto hanno fatto sia provenuto, non da perversità di animo, ma da timore e pusillanimità” (Croce, pp. 156-61). “Da questo lungo elenco emerge che ben 40mila cittadini erano minacciati di morte e ben 60mila d’esilio. Vedremo che quello che non fece il Cardinale, lo fece in seguito la seconda giunta di Stato, appositamente nominata dal re, dopo riconquistata Napoli dal Ruffo. Il dissidio fra la corte ed il Ruffo, così iniziatosi, non cesserà più: si accentuerà maggiormente nei due mesi successivi e, come vedremo, culminerà in occasione della violazione delle capitolazioni. Con l’aumentare di esso diminuirà il favore del Re e più della regina verso il cardinale-guerriero; ma questi guadagnerà nel giudizio della storia” (Serrao, p. 205).

Palermo. La regina scrive a Ruffo: “Salerno ha tagliato l’albero infame e messo il padiglione del re, ma dopo due giorni sono venuti i nostri scellerati, ignoro da chi condotti, ed i realisti si sono al solito avviliti: “Fuggiamo, siamo traditi”, abbandonando i cannoni, disperdendosi e nascondendosi. Il comandante inglese scese coi suoi soldati e truppe, animò, parlò, ma tutto invano, e ci perdé lui quindici uomini. Salerno fu messo a sacco ed interamente spogliato; indi i birboni partirono, e poche persone di Vietri e Citara ripresero per il re l’indifeso spogliato Salerno. Castellammare, Sorrento, Massa della costa, hanno parimenti alberato il padiglione del re ed ammazzato i giacobini; si ci mandarono cento esteri, ma come vennero i giacobini fuggì il capo ch’era il preside Micheroux, che per disgrazia lì si trovava andato con i cento esteri (…) L’abbandono dell’armata di Boccheciampe alla sola notizia di Ruvo a Trani, la condotta a Salerno mi ha fatto rinascere tutti i miei timori e diffidenze. Non credo perciò che il solo nome di giacobino cambi il carattere della gente, né che li renda eroi; ma la disperazione, l’idea di perder tutto, di esser perduto, le dà il furore della necessità. Una forza straniera la credo indispensabile da tutto quello che vedo succedere, e non m’inganno. Per  i nostri repubblicani, si può calcolare tutti i nobili conosciuti per cattivi, dividendoli in scelleratissimi impiegati atroci, in compiacenti scellerati, ed il maggior numero in poltroni, vili, senza carattere, senza raziocinio, senza cuore. Confesso che avere vissuto trentuno anni in un paese, cercando obbligare a tutti, servire alle passioni, onore, comodo di ognuno, non pensando mai a me, prova di ciò che non ho né un soldo né un capitale, né un casino di campagna che sia mio, e vedere che nessuno di nessun ceto, sesso, classe venga o pure mi scriva, quando vedo la facilitazione di fare l’uno e l’altro dalle innumerabili lettere e gente che vengono, confesso che ciò fa una profonda dolorosa sensazione sul mio cuore, la perfetta ingratitudine. Se avessi trovato venti, dico dieci persone attaccate da vero, mi avrebbero consolata della scelleraggine ed ingiustizia di milioni: ma nessuno, fa un effetto terribile e ne risento tutta la profondità della forza” (Croce, pp. 161-3).

Bernalda. L’armata di Ruffo arriva in questa località.

2 Maggio. Giovedì. Napoli. I primi francesi lasciano Napoli per Caserta.

Bagnoli (Principato Ultra). “Non appena dai commercianti girovaghi bagnolesi fu portata in paese la notizia dei progressi che il cardinale Ruffo, a capo dei Sanfedisti, facea contro i Francesi, nonché dell’insorgenza di diversi comuni del Regno contro di loro, incominciò in Bagnoli al pari dei paesi vicini un vivo fermento contro i partigiani del nuovo governo, e se non insorse apertamente in una vera ribellione fu per la paura suscitata nei cittadini dal modo violento e feroce col quale i Francesi aveano domato i Comuni in rivolta, ma come corse la voce, che essi erano costretti ad allontanarsi dal regno per accorrere in Alta Italia a sostenere gli eserciti di Francia pericolanti per le sconfitte subite colà per opera degli Austro-Russi, insorsero i bagnolesi apertamente contro il governo repubblicano. E riunitisi nel giorno due maggio, in cui cadde in quell’anno la festività dell’Ascensione, nella Piazza maggiore, abbatterono in mezzo ad un baccano indescrivibile l’albero della libertà, e proclamarono la restaurazione del governo del Re Ferdinando. Né paghi di ciò, aizzati dai caporioni assaltarono armata mano le case di due sacerdoti giacobini, Tommaso Trillo e Domenico Cella, e le saccheggiarono completamente. Indi gli insorti formarono un fantoccio di paglia, che battezzarono pel Generale Championnet, e messolo a cavalcioni su d’un asino, in mezzo a schiamazzi, dileggi e fischi, lo fecero girare per tutte le vie dell’abitato, e quando furono stanchi del lungo chiasso per tutta la giornata, e già era fatta notte, precipitarono il fantoccio nel torrente del Borgo od Ospedale. Fortunatamente non vi fu spargimento di sangue, perché gli scarsi partigiani della Repubblica non solo non reagirono, ma stimarono prudenza il nascondersi per sfuggire all’ira popolare, che si cercò attutire nel miglior modo possibile per parte delle persone influenti del paese, unitamente ai frati e ai preti” (Sanduzzi, 535).

3 Maggio. Venerdì. Pietra de’ Fusi. Assassinato dai sanfedisti Carlo Spinelli, principe di S. Giorgio.

4 Maggio. Sabato. Napoli. “San Gennaro concede il bis, ripetendo al cospetto di MacDonald, Abrial e del Presidente della Commissione Esecutiva il miracolo già compiuto in gennaio davanti a Championnet. Lazzari e patrioti paiono così di nuovo affratellati come nei primi giorni della Repubblica” (Sani, p. 47). “MacDonald scrive nei suoi “Ricordi”: “Io feci fare a nostro favore il miracolo di S. Gennaro, al quale io assistetti; ne darò un’altra volta la descrizione, non pensando che alcun’altra persona ebbe la possibilità di osservarlo come me e il commissario Abrial”. La descrizione, meticolosa, fu data invece dal generale Thiébault” (Croce, “La rivoluzione partenopea…”, p. 76). Io l’ho riportata interamente in questo mio Sito Web, Portale “Storia”, “Miracolo di S. Gennaro”.

Eleonora Pimentel così commenta sul “Monitore” il miracolo: “E’ degno dell’attenzione di ogni buon Cittadino, merita di aver luogo nella filosofia della Storia, la sensazione per gradi ricevuta dal Popolo sabato scorso in occasione del consueto miracolo di S. Gennaro. Il Popolo Napoletano serbava tuttavia nell’animo pel nuovo sistema quel non so che di acerbezza, che è figlia del dolore della sconfitta. La cosa più difficile per ciascun uomo è quella di persuadersi di non aver ragione. Con giudizio visibile S. Gennaro doveva ora decidere il gran piato tra questo sistema ed il Popolo: vedeva questo con piacere l’omaggio prestato al suo Patrono celeste dal Commessario e dal generale Francese, ed avendo per certo, che il Santo avrebbe col ricusar il miracolo, giudicato per lui, tripudiava anticipatamente, e dalla presenza del Commessario e del Generale traeva una gioia di più al suo futuro trionfo. Ma dieci minuti non passano, e l’umore appar liquefatto dentro l’ampolla. Nel primo momento, sorpresa e stupore! Nel secondo, perplessità; nel terzo, decisione e slancio alla gioia. “Pure S. Gennaro s’è fatto giacobino!” Ecco la prima voce del Popolo. Ma può il Popolo napoletano non essere quel che è San Gennaro? Dunque…”Viva la Repubblica”. Le devote spettatrici riflettono che questa è la prima volta, ch’è pur ad esse permesso di assistere al miracolo; lagrime di tenerezza vengono loro su gli occhi. Esse sostengono allora che vennero anche al Generale MacDonald, e sostengono, che per asciugarle egli appose il fazzoletto: gli sguardi femminili si fissano su lui, comincia un favorevole bisbiglio, ed un paragone, che il fu re non accompagnò mai la processione di S. Gennaro, e l’ha ora accompagnata il Generale, ed il Commissario Organizzatore: il Popolo si affratella colla Guardia Nazionale; mille amorevolezze seguono fra l’uno e le altre: tutto il sabbato, tutta la domenica sera, in fin da quel punto in poi, la Carmagnola è la canzone di tutte le bettole” (Croce, “La rivoluzione…”, pp. 45-6).

Il card. Ruffo arriva a Montescaglioso (Basilicata).

Mercogliano (Principato Ultra). “Però le milizie francesi non erano ancora partite dal regno, ed una Brigata sotto il comando del Generale Olivier si trovava nelle gole di Monteforte Irpino, a cui come giunse la notizia delle rivolte dei diversi Comuni di Principato Ultra, chiese rinforzo all’altre truppe di Francia, che si trovavano in Capua, ed oggi parte di esse piombarono su Mercogliano, che saccheggiarono ed arsero, ed altre, sconfitte facilmente l’orde del colonnello borbonico De Filippis, che era capo dei rivoltosi, assaltarono ed occuparono Avellino, cui fecero subire tutta la ferocia di una soldatesca sfrenata con uccisioni, saccheggi, incendi e stupri” (Sanduzzi, p. 536). “Ad Avellino mi si dice che arrivarono a restar morte nelle braccia dei loro violatori le infelici donne anco consacrate a Dio. Queste scelleraggini non fanno onore certamente all’umanità, come dissi, e la vendetta divina, se sarà tarda, non sarà certamente sfuggita da chi la merita” (De Nicola, p. 166).

Bagnoli Irpino (Principato Ultra). “Nella sera di questo giorno pervennero nel paese le tristi notizie sul modo feroce e barbaro col quale i Francesi aveano domato e trattato i paesi insorti, e la cittadinanza rimase terrorizzata, perché prevedea, che la stessa sorte sarebbe toccata ad essa, ma i caporioni della sommossa ed i più animosi del paese decisero di resistere ad oltranza alle milizie francesi, e di vendere cara la vita, le loro sostanze e l’onore delle loro donne, e subito si apprestarono nel miglior modo, che essi riteneano possibile, alla difesa della loro Terra, illudendosi che le deboli mura, che la circondavano, ed il suo Castello avessero potuto resistere all’urto delle agguerrite schiere di Francia. Gli uomini seri però della Borgata con a capo il Sindaco, mentre cercarono di richiamare a più miti consigli i bollenti cittadini, si riunirono in comitato privato per intendersi fra loro nel miglior modo per scongiurare a Bagnoli una catastrofe al pari degli altri paesi della Provincia assaliti dai Francesi. Fu innanzi tutto d’accordo stabilito di allontanare le donne del paese non appena si sarebbe saputo l’avvicinarsi di tali milizie, e di uscire poscia tutti insieme, Preti Frati e gentiluomini fuori dell’abitato per riceverle con tutti gli onori e l’apparenza di sottomissione e di pace, e di far loro comprendere che la ribellione era stata opera di pochi sconsigliati, e non si potea riservare la colpa su tutta la popolazione, che non solo non vi avea preso parte, ma l’avea apertamente riprovata, e se non si era opposta ad essi con la forza, dovea ciò ascriversi al desiderio di evitare possibile spargimento di sangue nel conflitto, che ne sarebbe avvenuto. Però quegli stessi, che aveano presa tale deliberazione, non erano troppo fiduciosi sul risultato di essa, e stimarono prudente consigliare a tutti l’allontanamento delle donne dal paese pria dell’arrivo dei Francesi, e di nascondere gli oggetti preziosi per sottrarli alla loro avidità” (Sanduzzi, 536).

5 Maggio. Domenica. Napoli. Sono organizzate quattro compagnie di Calabresi.

Un autentico entusiasmo sembra pervadere e trascinare all’azione tutti i membri del Governo Provvisorio nella speranza che il popolo, partiti i francesi, si convinca a schierarsi in blocco a difesa dello Stato repubblicano. Vengono perciò varati alcuni importanti ma tardivi provvedimenti in ambito fiscale, come l’abolizione delle gabelle sulla farina e sul pesce e la revoca delle contribuzioni di guerra” (Sani, p. 47). “La legge colla quale si abolì la gabella del pesce produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale” (Cuoco, p. 171). “Una politica economica e fiscale che venisse incontro alle esigenze delle masse popolari fu tentata negli ultimi giorni di vita della repubblica, abbandonata ormai a se stessa dalla partenza delle truppe francesi: di qui l’abolizione del testatico, della gabella sulla farina, sullo “scannaggio”, sul pesce, la promessa redistribuzione ai “difensori della Patria” dei beni sequestrati agli insorgenti. Tutte misure significative di un tentativo di politica “giacobina” ma ormai tardive ed inefficaci” (Rao, p. 138).

6 Maggio. Lunedì. Napoli. Sono impiccati i quattro popolani colpevoli dell’assassinio, il 19 gennaio, dei duchi Filomarino.

Viene approvata una legge sui Banchi, legge che in sostanza disciplina la politica economica della Repubblica.La Commissione Legislativa volle occuparsi a riparare al disordine dei Banchi. Fin dai primi giorni della rivoluzione, la prima cura del governo fu di rassicurare la nazione, incerta ed agitata per la sorte del debito dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della nazione. Un tal debito fu dichiarato debito nazionale. Tale operazione fu da taluni lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava più il vantaggio o la difficoltà dell’impresa: tutti però convenivano che una semplice promessa potea tutt’al più calmare per un momento la nazione, ma che essa sarebbe poi divenuta doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati i mezzi di adempirla. Allora tutta la vergogna e l’odiosità di un fallimento sarebbe ricaduta sul nuovo governo, e si sarebbe intanto perduto il solo momento favorevole, quale era quello di una rivoluzione, in cui la colpa e l’odio del male si avrebbe potuto rivolgere contro il re fuggito, e gli uomini l’avrebbero più pazientemente tollerato, come uno di quegli avvenimenti inseparabili dal rovescio di un impero, effetto più del corso irresistibile delle cose che della scelleraggine dei governanti. Così il governo non fece allora che una promessa, e rimaneva ancora a far la legge. Ma, quando volle occuparsi della legge, non era forse il tempo opportuno. La nazione era oppressa da mille mali, le opinioni erano vacillanti, tutto era inquietezza ed agitazione. In tale stato di cose il far delle leggi utili e forti è ottimo consiglio: sgravasi così la somma dei mali che opprimono il popolo e si scema il motivo del malcontento; il farne delle inutili e delle inefficaci è pericoloso, perché al malcontento, che già si soffre per il male, l’inutilità del rimedio aggiunge la disperazione. Se non potete fare il bene, non fate nulla: il popolo si lagnerà del male e non del medico. La Commissione Legislativa altro non fece (e, per dire il vero, allora che potea far di più?) che rinnovare per i beni, che erano divenuti nazionali, quella ipoteca che già il re avea accordata sugli stessi beni, quando erano regi. Gli esempi passati poteano far comprendere che questa operazione sola era inutile. Questi beni non poteano mai essere in commercio, perché riuniti in masse immense in pochi punti del territorio napolitano; ed i possessori delle carte monetate erano molti, divisi in tutti i punti e non voleano fare acquisti immensi e lontani. Quando furono esposti in vendita, in tempo del re, i fondi ecclesiastici, i quali non aveano questo inconveniente, si ritrovarono più facilmente i compratori. Si aggiungeva a ciò l’incertezza della durata della repubblica, la quale alienava maggiormente gli animi dei compratori; l’incertezza della sorte dei beni che davansi in ipoteca, quasi contesi tra la nazione ed il francese: per eseguir le vendite in tanti pericoli, conveniva offerire ai compratori vantaggi immensi, e così tutti i fondi nazionali non sarebbero stati sufficienti a soddisfare una picciola parte del debito pubblico. Il debito nazionale in Napoli non era tale che non si avesse potuto soddisfare. Era più incomodo che gravoso. Conveniva una più regolata amministrazione, e questa vi fu: infatti, in cinque mesi di repubblica, il governo, colle rendite di sole due province, tolse dalla circolazione un milione e mezzo di carte. Questo è stato il trionfo dei nostri governanti. Sfido ogni altra nazione ad opporre un tratto di eguale moralità ed economia! Con tanta moralità nel governo, si potea far quasi a meno della legge per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col solo fatto, e che si sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze interne ed esterne della nazione fossero state meno infelici. Ma conveniva, nel tempo istesso, che tutta la nazione avesse soddisfatto il debito nazionale; conveniva che questo debito avesse toccato la nazione in tutti i punti; e, dove prima gravitava solo sulla circolazione, si fosse sofferto in parte dall’agricoltura e dalla proprietà: così il debito, diviso in tanti, diveniva leggiero a ciascuno. La nazione napoletana è una nazione agricola. In tali nazioni la circolazione è sempre più languida che nelle nazioni manifatturiere o commercianti; ed il danaro, o presto o tardi, va a colare, senza ritorno, nelle mani dei possessori dei fondi. Difatti in Napoli, e specialmente nelle province, non mancava il danaro: ma questo danaro era accumulato in poche mani, mentre ché per la circolazione non vi erano che carte. Conveniva attivare tutta la nazione, ed offerire ai proprietari di fondi delle occasioni di spendere quel danaro che tenevano inutilmente accumulato. Conveniva…Ma io non iscrivo un trattato di finanze: scrivo solo ciò che può far conoscere la mia nazione”  (Cuoco, pp. 168-70).

Bagnoli Irpino (Principato Ultra). Dio interviene nella storia? La massa del popolo non fidando né sui propositi degli assennati, né sulla resistenza degli animosi, si ricordò in questa disperata circostanza del potere di Maria Immacolata e della protezione che sempre essa avea spiegata a favore di questa cittadinanza, quando con fede e divozione si era a Lei rivolta, e tutti convennero nel Duomo, ed ivi prostratisi innanzi alla sua statua con lagrime e con preci ne invocarono il suo valido patrocinio per essere liberata dall’ira dei Francesi. Il timore di Bagnoli di essere assalito dalle truppe di Francia non era affatto infondato, perché nella notte dal 5 al 6 maggio un forte distaccamento di milizie francesi partì da Avellino alla volta di questi luoghi, dove vi erano molti paesi insorti contro la Repubblica. I Bagnolesi, che aveano già avuto sentore di tale spedizione di truppe, per conoscere il momento in cui si sarebbero rivolte contro questa Terra, aveano pensato di scaglionare lungo il cammino, che esse doveano percorrere, degli individui per demarcare i loro passi, e conoscere quando verso Bagnoli si avviavano, onde darsi scambievolmente fra loro delle notizie opportune per informare a tempo il paese, per allontanare le donne e ripristinare nella Piazza l’albero della libertà abbattuto dai rivoltosi e dimostrare così che il paese rimanea fedele alla Repubblica. Il messo, che era stato mandato in Avellino a spiare le mosse dei francesi vide queste milizie prendere il cammino verso questa alta valle del Calore e le seguì ad una certa distanza per conoscere il punto preciso dove erano dirette, perché lungo la via da percorrere si trovavano prima di Bagnoli altri Comuni ribelli, come Montemarano, Montella, Nusco ecc., ma con meraviglia sua osservò, come i Francesi, giunti nella gola detta il “Malo Passo” di Volturara, si voltarono indietro e rifecero il cammino verso Avellino. Egli, avvertito di ciò il messo che era stato scaglionato in quel punto, ed animatolo ad attendere là il suo ritorno onde conoscere lo scopo di questa mossa dei francesi, seguì l’orme di questi fino ad Avellino, ove con grande gioia constatò, che essi uscirono dalla parte opposta della città e proseguirono oltre il cammino verso Terra di Lavoro. Assunte informazioni, fu assicurato, che anche le altre truppe, che si trovavano in Avellino nella notte erano improvvisamente partite per la stessa direzione richiamate d’urgenza in Capua. Quando egli fu sicuro di ciò, tutto allegro ritornò in questo punto, dove diede la lieta novella al messo colà posto, ed entrambi corsero a darne avviso agli altri, che si trovavano lungo la strada, ed insieme tutti nell’ore pomeridiane di questo giorno giunsero in Bagnoli con la lieta novella. Si lascia immaginare come fu accolta tale notizia dalla trepidante popolazione, la quale nella maggior parte si trovava nel Duomo a pregare innanzi alla Vergine Immacolata, e come essa fu assicurata dell’allontanamento dei francesi, manifestò con alte grida e lacrime la sua riconoscenza a Maria Santissima, attribuendo a miracolo di costei di essere stata liberata da tal pericolo (…) Nei giorni successivi si seppe il vero motivo del richiamo delle truppe dirette a questa volta, e della partenza da questa Provincia di tutte l’altre qui acquartierate, perché queste e le altre sparse pel Regno furono raccolte in Caserta per essere inviate d’urgenza in Alta Italia a rinforzare le altre milizie di quella nazione messe in grave pericolo per le sconfitte patite per opera degli eserciti riuniti d’Austria e della Russia” (Sanduzzi, pp. 537-8).

Matera. Il cardinale Ruffo arriva in questa località.

7 Maggio. Martedì. Napoli. Inizia la partenza delle truppe francesi dalla città.  “Giunte altre gravi notizie dalla Lombardia, il generale MacDonald, lasciato un presidio di 900 uomini in Castel Sant’Elmo, uno di 2100 a Capua ed uno di 1500 a Gaeta, in questo giorno levò il campo da Caserta e col grosso dell’armata si diresse verso il Nord. La Repubblica napoletana veniva abbandonata a se stessa” (Candeloro, p. 264).

Matera. Il card. Ruffo scrive ad Acton: “Insomma, è questo uno di quei momenti molto critici. Io non ho elezione di parere, devo attaccare Altamura ad ogni modo, prenderla e presto, o perire. Se intanto questi eterni Moscoviti mettessero in terra una picciola quantità di truppa regolata, tutto sarebbe accomodato (…) Da Napoli ho avuto notizia che i giacobini nostri dicevano ai Francesi che li avevano compromessi e rovinati, giacché non avevano condotto che un pugno di gente incapace di sostenere il regno, nonché di occuparlo. Rispondevano i francesi che eglino i ribelli li avevano ingannati e sacrificati, poiché avevano supposto che tutti erano inclinatissimi alla ribellione e che questo erasi trovato onninamente falso. Ora quattro bombe ed il perdono generale farebbero l’affare. Sono pochi coloro che sentono la speranza di accomodare i guai loro, e scansare tutta questa serie di mali e di timori, abbiano tanta passione che non si pieghino all’ordine. Mi mancano gli aiuti e soprattutto i fucili” (Croce, pp. 170-1).

 

Nota bibliografica

  • G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento. 1700-1815”, Feltrinelli, Milano, 1978
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • A. M. Rao, “Il regno di Napoli nel ‘700”, Guida, Napoli, 1983
  • A. Sanduzzi, “Memorie storiche di Bagnoli Irpino”, 1923, reprint Montella, 1975
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