Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 20° puntata. 8-13 maggio 1799. E’ abolita a Napoli la gabella sulla farina. L’eroica resistenza di Altamura. Note sugli intellettuali meridionali e sulle bande sanfediste

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventesima puntata.  8 – 13 Maggio 1799. “Il cardinale Ruffo ripropone la sua linea tesa alla clemenza. A Napoli è abolita la gabella sulla farina. Note sugli intellettuali meridionali e sulle bande sanfediste. L’eroca resistenza di Altamura”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

8 Maggio. Mercoledì. Napoli. Crudeltà francese.A futura memoria registro aver io saputo da persona venuta dalla Terra di Lavoro, che la barbarie usata in quella dal furore militare fa disonore all’umanità. Già l’insurgenza fu promossa da non naturali, tutta gente tranquilla fuggita sulle montagne colla roba e famiglia. Quando furono chiamati a restituirsi alle loro abitazioni con lettera che si disse del Generale, obbedirono: ma la sera di quel giorno medesimo si videro preda del sacco e del fuoco. Non vi è rimasta una casa intatta, depredandosi del più prezioso, il dippiù si consegnava alle fiamme. Le donne violentate, le chiese spogliate, per terra le ostie sacrosante. Le monache fuggite furono raggiunte e fatte preda della sfrenatezza militare; quelle che resistevano erano crudelmente ammazzate, né le altre venivano lasciate se non semivive” (De Nicola, p. 166).

Matera. Il cardinale Ruffo scrive ad Acton: “Oltre le preghiere che ripeto a V. E. di leggere il mio grifonaggio, ove si parla di clemenza e di perdono, aggiungo che con mio rammarico nelle lettere dei padroni si segue sempre a parlare di rigore ora più ora meno, ma sempre di punizione; ora io seguito a credere che la condotta sarebbe assolutamente diversa, e che sinceramente dovessersi perdonare i passati trascorsi. V. E. questa volta dice una parola che mi dà motivo di argomentare: dice dunque che non si ha abbastanza forza per contrastare con regola ai sforzi dei repubblicani e della disperazione: ora perché far nascere la potenza che proviene dalla detta disperazione? Quando i cattivi soggetti non si vogliono perdonare sinceramente, mancheranno occasioni di punirli, saranno degli Xenocrati? Quelli che mi capitano nelle mani non sono niente meno che castigati nei loro costumi. Ma ve ne sarà qualcuno che, sapendo bene che non li sarebbe perdonato nulla, sarà quieto e buono; ma in tal caso non merita questo convertito il perdono?” (Croce, p. 177).

Altamura. Il cardinale Ruffo inizia l’assedio per prendere la città.

Palermo. La regina scrive al card. Ruffo: “Le cose di Napoli non sono punto consolanti: le nostre canaglie di giacobini sono in molto numero e gran fanatismo, tanto più che capiscono che si tratta di tutto per loro. Salerno fu realizzata, poi di nuovo ripresa e saccheggiata; e, partiti i giacobini, di nuovo messo il padiglione del re. Castellammare pure si mosse per il buon partito, ma fu di nuovo ripresa e saccheggiata; Sorrento e la costa si difendeva caldamente, benché quel birbo di Caracciolo per mare animava e soccorreva i giacobini. La condotta di quell’ingratissimo furfante mi fa orrore: che non gli si è fatto di attenzioni ancora a Palermo, e tutta la sua rabbia fu di non averci con lui imbarcati per essere a sua disposizione e dei suoi amici traditori felloni. Il sentire i dettagli di Napoli e le individuazioni fa fremere: bisogna dire che non vi è che il basso popolo fedele, ma gli alti ceti sono perfidissimi; la marina e l’artiglieria tutta cattiva; molti uffiziali ed infinita nobiltà e saputelli, mezzi paglietti, studenti. Io non ardisco qua più dimandare del tale o del tale, aspettandomi una dispiacevole risposta. Desidero ardentemente riprendere il regno, rimettere l’onore, e lasciare il patrimonio ai miei figli. Ma l’animo mio ha sofferto una forte scossa ed è totalmente alienato e per sempre (…) Per me questa rivoluzione e tutte le sue circostanze mi hanno ammazzata, e per sempre distrutta la mia felicità: buono che non sarà lunga la mia salute essendo molto distrutta e peggiorando giornalmente. Mando a V. E. la copia scritta dello stampato emanato dai nostri Soloni per li fedecommessi e feudi: questo gli farà un gran partito nelle provincie ed il re dovrà tutto confermare per non disgustare le provincie ed il numero maggiore e più attaccato dei sudditi. Non credo possibile dopo questa proclamazione, e senza disgustare tutti i sudditi provinciali, ritornare i dritti perduti da gente infedele e vile e rimettere le cose sul piede antico. Alle persone fedeli, a quelli che si son sacrificati con noi e per noi se gli accorderà dei diritti e principati per ricompensa che a loro spetta, ma non alla generalità. Basta, disgraziatamente non siamo ancora, anzi ben lontani di essere, nel caso di parlare di ciò” (Croce, pp. 172-5).

Gli intellettuali meridionali. “A ben riflettere, la raffigurazione crociana del ceto intellettuale napoletano (esposta nelle pagine precedenti, vedi la nota del 24 aprile, ndr) ha risentito probabilmente in misura determinante dell’interpretazione –sostanzialmente esatta sul piano etico e su quello politico- che il Croce e la tradizione alla quale egli apparteneva diedero dell’esperienza del 1799. La drammaticità e i netti contrasti di un breve ed eccezionale periodo, nel quale la forza di circostanze, solo assai parzialmente dominate dalle parti in lotta, diede unità e semplicità al campo delle forze reazionarie o conservatrici e a quello delle forze progressiste, vennero così proiettati su tutto l’arco della storia napoletana tra l’inizio del rinnovamento culturale e la fine del Regno e resero possibile la drammatica e lineare energia della ricostruzione crociana. L’influenza determinante e il posto centrale da attribuirsi all’interpretazione del Novantanove nella genesi della ricostruzione crociana della storia del Mezzogiorno trovano, del resto, il loro fondamento in ciò: che il breve ed eccezionale periodo del Novantanove segnò nella storia del Sud una svolta decisiva e che ad esso gli uomini dai quali nel 1860 fu promossa la risoluzione della secolare autonomia del Mezzogiorno nell’unità italiana dovevano necessariamente rifarsi come al punto storicamente discriminante delle proprie ragioni ideali e politiche. Ma ciò non può valere a coprire la realtà storica di uno sviluppo infinitamente più complesso, più incerto, più ricco di contraddizioni e di ripiegamenti. Nel 1799 come nel 1860 il crociano ceto intellettuale è astrattamente superiore al paese nella misura in cui, assorto nel suo ideale di rinnovamento e attestato sulle posizioni di una solida e matura coscienza nazionale e liberale, cerca di tirare a sé il paese e vive la prima volta il dramma di una terribile disillusione per vedere i suoi sforzi coronati poi la seconda volta da un definitivo successo; ma esso è d’altra parte profondamente congeniale al paese nella misura in cui ne subisce la dialettica disgregatrice e si rivela incapace di trasformarsi da frazione progressiste e liberale in forza politica con permanenti capacità di totale egemonia rivoluzionaria. Di questa contraddizione tra il suo carattere etico e la sua azione pratica la sua vicenda risente in maniera radicale e la sua funzione storica esce nettamente delimitata” (Galasso, pp. 30-1).

9 Maggio. Giovedì. Napoli. “Due grandi operazioni ha rese publiche quest’oggi il Governo. La prima riguarda i Banchi (…)  L’altra è stata la gabella sulla farina abolita, promettendo il rimpiazzo ai consegnatari sul prodotto della decima. Il popolo quest’operazione l’ha ricevuta con applauso ed entusiasmo; e se prima si fosse fatta il popolo non sarebbe tanto disgustato. Mentre a suon di tromba la si andava annunziando, il popolo gridava: “come la compreremo, non abbiamo fatiga, non abbiamo da fare”. Vi era chi gli animava a ricorrere al Governo, che gli avrebbe tutti sollevati ed impiegati. Invitavano i Sacerdoti a predicare per maggiormente promuovere l’entusiasmo del popolo che gridava “viva la Repubblica”. Per quello che ci fanno sentire le notizie correnti i Francesi e l’attuale Governo sono in cattive circostanze. Il Generale aveva risoluto di evacuare interamente Napoli e Roma, e formar quartiere generale a Firenze, per essere più a portata di accorrere ove il bisogno richiedesse; ma con ordine del Direttorio esecutivo di Parigi, se gli è ingiunto di lasciare approvisionate le piazze di Capua, Gaeta, castel Sant’Elmo di Napoli, castel S. Angelo di Roma. Resta dunque Napoli in mano di quella tale guarnigione e della truppa civica. Ecco perché si cerca affezionare il popolo, che prima non si curava, e si cercava spaventare. Gli uffiziali francesi che sono qui parlano di capitolare, occorrendo” (De Nicola, p. 166).

“Quando si abolì la gabella sulla farina, non si ottenne l’intento di far ribassare il prezzo dei grani in Napoli, dove, per le insorgenze che aveano già chiuse tutte le strade delle province, non potevano ivi più entrar grani nuovi, e quei che esistevano erano pochi ed avean già pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora: “che la gabella si era tolta quando non vi era più farina”. Dal 1764 era in Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento fosse in parte effetto della maggior ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in controversia che l’aumento del prezzo degli altri generi non era proporzionato all’aumento di quello del grano. Questo non era alterato, quando si paragonava al prezzo del grano nelle altre nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione napoletana. Tutto il male nasceva da che l’industria, ed in conseguenza la ricchezza, non si era risvegliata e diffusa equabilmente sopra tutti i generi ed in tutte le persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale, non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto più caro che nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di renditieri, di oziosi o di persone che, senza essere oziose, nulla producevano e che non partecipavano dell’aumento dell’industria e della ricchezza nazionale” (Cuoco, pp. 171-2).

“Eleonora Pimentel scrive nel “Monitore”: “Il popolo napoletano, allorché insorse alla resistenza, se mostrò accecamento di ragione, svelò insieme un vigor di carattere che ignoravano in lui gli stessi suoi connazionali”. E guardando al simile spettacolo nelle province: “Sono le funeste insorgenze dei nostri dipartimenti una forza mal applicata sì, ma forza son di carattere. Piangendo in esse i dolorosi effetti di un carattere viziato da tanti secoli di assurdo sistema politico e dalla recente corruzione… consoliamone almeno gittando gli sguardi sul felice avvenire, che ne presenta questo carattere stesso rettificato, regolato dalle salubri leggi repubblicane, e rivolto non a dilacerare ma a sostenere e difendere la patria” (Croce, “La rivoluzione napoletana…”, p. 42).

10 Maggio. Venerdì. Napoli. “Se fossero vere le notizie che si fanno correre, fra giorni dovrebbe tornare Napoli alla Monarchia. I Francesi in tutte e tre le guarnigioni si vorrebbe che non eccedano il migliaio. La truppa civica, a riserba di pochi che hanno interesse a sostenere la repubblica, nella massima parte al vedere rumore, gittarebbero il fucile, né tutti sono sette otto mila, e si stenta a completare le Legioni per fargli arrivare a 12mila. All’opposto all’infuori di Napoli e casali, tutto il dippiù è in insorgenza; tanto che poche migliaia di truppe di linea che venissero, sarebbero seguite da esercito innumerevole d’insorgenti. Da un giorno all’altro sarà terminata la Repubblica; finisse con quiete importerebbe poco alla gente tranquilla; ma questo è il timore, a cui se ne aggiunge un altro anche serio, che da per tutto si sente che gli Inglesi vogliono regalarci un poco di peste. In seguito della gabella della farina abolita, quest’oggi si è annunziato ordine del Governo, perché si venda la farina grana 20 a tomolo meno di quello vendevasi. Si cerca così chiamare il popolo, dopo averlo alienato cercando solo deprimerlo e spaventarlo. La verità si è che i Francesi non sono che guerrieri, ed i nostri Soloni tutto sanno fuorché l’arte di governare, arte difficilissima, soprattutto nei primi momenti di una rivoluzione di cinque milioni di anime, che dopo 800 anni non ha inteso parlare che di Re e di regno, e crede che senza Re non si possa vivere. Per domenica prossima si è annunziata una festa patriottica: sta a vedere che si farà qualche altra minchioneria, che invece di cattivare, disgusterà il pubblico. Sarà così se verrà regolata da qualche testa calda e sventata” (De Nicola, pp. 168-9).

Il cardinale Ruffo conquista Altamura dopo due giorni di assedio. “Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l’assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mitraglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato né al sesso né all’età. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tuttavia: “Viva la Repubblica!”. Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue” (Cuoco, p. 183).

Il richiamo delle armate francesi preannunzia imminente il crollo della Repubblica. La situazione si capovolge. Ad accelerare il ripristino dell’antico regime sono gli ultimi ordini dei comandi militari: i prigionieri non possono essere lasciati nelle fortezze e, non potendo tradurli altrove, vanno fucilati. Rapine, fucilazioni, massacri accompagnano la ritirata dei francesi, cui segue l’ordine impartito alle forze repubblicane stanziate in Puglia di portarsi a Pescara. Abbandonate e tradite, le città repubblicane non sono in grado di reagire e di difendersi contro la ripresa del movimento popolare che, soltanto ora, sembra assumere un carattere politico. In realtà è legittima reazione ad un inumano sistema di oppressione posto in essere da reparti armati che affermano di difendere i diritti e le libertà del popolo. Da ogni centro abitato di Terra di Bari partono delegazioni a Ruffo o a Micheroux. Le Municipalità repubblicane cedono i loro poteri e ad esse subentrano i vecchi amministratori borbonici. Soltanto poche città resistono ancora intorno alla bandiera repubblicana. Il 10 maggio cade Altamura, la “leonessa di Puglia” (Pedio, pp. 180-1). “Con la caduta di Altamura, le truppe del Ruffo e del De Cesare possono ora congiungersi per marciare unite alla conquista di Napoli” (Sani, p. 39).

Picerno (Basilicata). Muoiono, uccisi dai sanfedisti, i patrioti Girolamo Vaccaro, 26 anni, giurista, e il fratello Michelangelo, 25 anni, studente.

11 Maggio. Sabato. Napoli. “Mi è noto il seguente aneddoto. Due Rappresentanti della Legislativa, Filangieri e Pignatelli, si querelavano con Abrial perché gli avesse compromessi mettendogli in carica, mentre vivevano così tranquilli nelle loro case, e poi gli lasciavano così esposti senza difesa. Altro Abrial non gli disse, se non che potersene partire con lui (…) Gli Inglesi sono padroni del mare, dunque non mi pare che passi molto e si vedrà l’esito della nostra Repubblica, che secondo le apparenze sarà soffocata in culla” (De Nicola, p. 169).

Il Governo repubblicano riordinò alla meglio le milizie di cui poté disporre, e destinò: il generale Schipani contro Sciarpa verso Salerno; il generale Basetti contro Mammone e Fra Diavolo verso Capua e Sessa; il generale Spanò contro De Cesare verso Avellino; Manthoné contro il cardinale Ruffo; il generale Wirtz in riserva, in città; il duca di Roccaromana ebbe ordine di formare un reggimento di cavalleria (…) Roccaromana, sulla cui cavalleria molto si sperava, tradendo la causa della repubblica e macchiando d’infamia il suo nome, passò con tutto il reggimento alla parte di Ruffo. Grave errore era stato quello di dividere l’esercito repubblicano: se il Manthoné fosse stato capace generale, come era stato valoroso maggiore e come era ardente patriota, anziché piccole colonne avrebbe formato un sol corpo, col quale molto probabilmente avrebbe potuto arrestare l’avanzata di Ruffo. Giustamente dice il Cuoco: “Le infinitesimali colonne spedite da Manthoné furono ad una ad una distrutte”” (Serrao, pp. 220-1).

Eleonora Pimentel scrive sul “Monitore”: “Rappresentanti dell’una e dell’altra Commissione, Patrioti, Nazione Napoletana, voi siete ora rimasti in balia di voi stessi, ed avere quella felicità di circostanza, che ha invano desiderata ogni altra rigenerata Nazione: questo è il momento di dar saggio di voi: unitevi di menti, di forza, di volontà. Stabilitevi tosto la vostra Costituzione, che deve comprendere solo la distribuzione dei poteri, i principi della democrazia, e non l’amministrazione, e quindi può e dev’esser sollecita e breve. Ha il diritto di esser solo a volere, chi solo ha il peso di sostenersi: profittate di questo labile momento: tali sarete per sempre, quali ora vi mostrerete. Da questo momento dipende il mostrarvi all’augusta Nazione Francese, all’Europa, come meritevoli, o no, di essere un Popolo libero, e di annunciarvi o degni del rispetto e della fiducia di tutta l’Italia, o del suo perpetuo disprezzo” (Croce, “La rivoluzione del ’99.., p. 65).

Terlizzi (Puglia). Viene abbattuto l’albero della libertà.

12 Maggio. Domenica. Bari. La presenza di cinque navi russe dinanzi al porto segna la fine del regime repubblicano in città. In questo stesso giorno si scioglie anche la Municipalità repubblicana di Corato.

Avigliano (Basilicata). “Questo giorno venne un ordine del colonnello Curcio di abbattere immediatamente l’albero rivoluzionario e di apparecchiarsi la popolazione al sacco e al fuoco. Si dovette allora a guisa di un Parlamento fra tutti i capi d’ordine per vedere ciò che doveva risolversi. Miracolo che fu stabilito di mandare una deputazione al Curcio, non per dirgli di essersi reciso l’albero e di volere l’istruzioni, ma semplicemente di essere pronta quella Terra a realizzarsi. Non sapevano in quale altra maniera prolungare il tempo dell’anarchia, forse sulla speranza di essere sostenuti dalle truppe francesi, che si erano andate a ricercare da alcuni patrioti. Vi furono alcuni sfrenati che cercarono tutti i mezzi onde non far seguire la realizzazione. Vito Santoro, dopo i maneggi fatti per impedire l’andata dal Curcio dei due Deputati, si pose a girare il paese con bandiera nera ed esclamando le formate parole: “o libertà o morte”, e cercò di persuadere il popolo a mantenersi nella rivoluzione. Alcuni armati di schioppo fecero un circolo in piazza minacciando di volere uccidere chiunque si avvicinava per abbattere il loro palladio della libertà” (Pedio, pp. 771-2).

Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa comune. La stessa mancanza di provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono tanto di quell’ascendente che il valore dà sul numero, che fecero una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di valore” (Cuoco, p. 183).

“Il popolo (disse anche il Cuoco), “ripiena la mente delle impressioni di tanti anni, amava la sua religione, amava la patria e odiava i francesi”: disposizioni non indegne, da cui si sarebbe potuto “trarre un utile partito”; e molti patrioti furono allora e poi presi da una sorta di rossore, come se quelle incolte plebi avessero loro inflitto una lezione di sano patriottismo e di orgoglio nazionale. Contro siffatto giudizio, più recenti storici contestano la validità militare di quelle masse plebee, non capaci di affrontare, fuor che nelle insidie spicciolate, eserciti regolari: il che può ben concedersi; ma essi negano anche che fossero animate da alcuno spirito patriottico e sentimento nazionale, presentandole come nient’altro che orde brigantesche, mosse da invidia pei ricchi e da brama di saccheggio e di vendetta. Era questa, in fondo, l’opinione dello stesso cardinale Ruffo, che non si nascondeva la qualità delle genti che menava, e sapeva che il loro sentimento politico coincideva con la caccia alla preda, e che assai volentieri battezzavano giacobini e nemici del re i proprietari; ed era anche l’opinione di re Ferdinando, al quale, come si è detto, non mancava perspicacia, e che, pur adoperando a suo pro lo sfrenamento del fedelissimo popolo, scriveva al Ruffo che bisognava starne in guardia, perché “il popolo è sempre una brutta bestia”. Ma come le crudeli superstizioni delle plebi, e anche dei selvaggi, non possono condurre a negare in selvaggi e plebi una qualche sorta di religione e di coscienza del divino, così in quel moto della Santa Fede (apparso, del resto, anch’esso spontaneamente in più parti d’Italia e d’Europa in quei tempi) spirava, disopra alle più materiali passioni, un sentimento di devozione monarchica, di amore all’indipendenza e al costume nativo contro gli stranieri e le leggi che questi pretendevano imporre, e di fanatica difesa delle credenze dei padri. Era certamente un’assai rozza e primitiva religiosità, da non potervisi fare sopra assegnamento, sia perché poco salda senza l’accidentale unione con le cupidigie materiali e con la possibilità di soddisfarle, e volubile altresì per quel che v’ha di casuale e capriccioso nelle fiammate degli entusiasmi popolari, sia perché incapace di fondersi con la civiltà moderna” (Croce, “Storia del Regno..”, 208-9).

13 Maggio. Lunedì. Napoli. Proclama della Commissione Esecutiva che promette l’indulto a tutti i prigionieri politici.

Bari. “Tosto che in alto mare si videro le navi Moscovite, con estremo giubilo della Popolazione, che ne diede dei contrassegni con allegrie, luminarie e sinfonie, immantinenti fu tolto l’albero continuandosi per cinque giorni le comuni gioie” (Relazione del sindaco del 16 marzo 1800) in (Pedio, p. 393).

In questo giorno si sciolgono le Municipalità repubblicane di Casamassima e di Castellana.

Nota bibliografica

  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • B. Croce, Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1972
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • Serrao de Gregori, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I