Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 23° puntata. 27-31 maggio 1799. V. Cuoco: le “nazioni meridionali” e la rivoluzione possibile. R. De Felice: Bilancio del triennio giacobino italiano. Giacobini e movimento popolare.

 

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ventitreesima puntata. 27 – 31 Maggio 1799. “Le “nazioni meridionali” e la rivoluzione possibile (V. Cuoco). Dalla Rivoluzione del 1799 al Risorgimento italiano. In Basilicata si costruì l’alleanza tra i giacobini e il movimento popolare. Sabotaggi e ribellioni. Bilancio del triennio giacobino italiano”.

 

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

 

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

 

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

 

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

 

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

 

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

 

Gennaro Cucciniello

 

 

27 maggio. Lunedì. Napoli. Ancora scontri nel campo democratico. “Questa mattina il Governo, o sia il Corpo Legislativo, si è occupato della elezione dei nuovi magistrati, ossia soggetti che dovranno sedere nel Tribunale di Cassazione, e gli altri Tribunali repubblicani. Nella Sala patriottica, quando si fece mozione contro i tre rappresentanti, che poi rinunciarono, se ne fece altra pure contro Luigi Medici, che si disse non dover mai aver parte nella Repubblica in qualunque carica, e si prese con ciò di mira qualche soggetto nel Corpo Esecutivo che si accennò di favorirlo. Forse si parlava di Albanese, del cui glub si disse che Medici fosse” (De Nicola, p. 190).

 

Le “nazioni meridionali” e la rivoluzione possibile. La nazione napoletana, lungi dall’avere questa unità nazionale, si potea considerar come divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte le varietà: diverso è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha sempre seguite tali varietà per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi benefici della natura, ed il sistema feudale, che nei secoli scorsi, tra l’anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietà ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la proprietà ed i mezzi di sussistenza. Conveniva, tra tante contrarietà, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva, dall’altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzione. Si avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era però docile a riceverla da un’altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto dei due pretendenti, avrebbe seguito quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo s’illude difficilmente, ma facilmente si governa. Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne avrebbe ben accettato il dono. Le insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessità di odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non scoppiarono che molto tempo dopo. Vi furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l’entusiasmo della libertà, che prevennero l’arrivo dei francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto” (Cuoco, 92-3).

 

Dalla rivoluzione del 1799 al Risorgimento italiano. “Se il concetto di rivoluzione passiva, che Cuoco per primo ha teorizzato, è stato accolto nella cultura storiografica italiana come la categoria interpretativa che ha fondato il principio politico del pensiero moderato, non è mancato chi l’ha voluto vedere come il segno esplicito della dinamica risorgimentale. Un processo dal quale sono escluse significativamente le classi subalterne: un atto politico di un ceto che contemporaneamente imbriglia la protesta o il sogno dell’unità politica del paese, come riforma intellettuale e morale, in un reticolo che conferma e stabilizza i ceti politici ed economici che le preesistevano; e che retoricamente esalta quel modello italiano refrattario a una irriducibile diversità dal moderno perché non assimilabile al processo di omologazione indotto o sollecitato dalla modernità stessa. Intorno alla legittimità o meno di ricondurre a Cuoco l’origine di questa complessa vicenda in Italia non si era ancora aperta una discussione, spesso assumendo questa conclusione sintetica come incontrovertibile. La ridiscute, invece, Antonino De Francesco (nel suo libro “V. Cuoco. Una vita politica”, Laterza, 1997), mostrando come all’interno della riflessione di Cuoco essa non nasca compiutamente, ma anzi sia il risultato congiunto della sua biografia politica: quella che lo vide dapprima partigiano di un’idea democratica, ma non radicale, delle componenti del giacobinismo italiano, costretto a fare i conti con la propria drammatica sconfitta e con un occupante (la Francia del Direttorio) sospettoso di ogni autonomia italiana, e poi attento a un esito nazionale della crisi. E, d’altra parte, Cuoco fu il punto di riferimento di una lettura propria delle componenti intellettuali moderate del Risorgimento italiano (Botta, Balbo, Colletta, Pellico) che stabilivano la propria egemonia a partire dalla chiusura della vicenda quarantottesca. Se confronto ci fu con la riflessione di Cuoco e, specificamente, con le pagine del suo Saggio storico da parte delle componenti democratiche (Mazzini e, soprattutto, Pisacane) esso si risolse ben presto a vantaggio dei moderati. La sconfitta del progetto insurrezionale nel Mezzogiorno inseguito da Pisacane nel 1857, e chiuso con la sua tragica morte, sembrava dire l’ultima parola e dare credito definitivo alla “ragionevolezza” dei moderati circa l’impossibilità di produrre una rottura rivoluzionaria in Italia. A Cuoco invece premeva non tanto ribadire una generica irrealizzabilità di moti sovversivi, quanto collegarli e costruirli a partire dal sentire popolare, ossia fondarli su un sentimento, spesso privo di progetti e di vocaboli, di contenuti e di programmi. La rottura rivoluzionaria, in altre parole, si configurava come azione accorta, non traumatica, gestita dall’alto in nome e attraverso l’escamotage del rispetto del senso comune delle masse (…) Il saggio del De Francesco è un’ottima occasione per riproporre il problema del giacobinismo italiano, delle correnti democratiche e radicali dell’Italia tra dispotismo illuminato e dominazione napoleonica. Il giacobinismo italiano è la prima manifestazione di una corrente di opinione che non ragiona per modelli, ma che coglie il processo rivoluzionario in atto in Europa come l’occasione per rimeditare sui mali italiani. Un contesto in cui economia e riforma politica iniziano a coniugarsi e in cui prende corpo, anche se in forma contraddittoria e parziale, il confronto con le aristocrazie illuminate. E’ un momento in cui si operano alcune fratture all’interno di quel modello che si confermerà nel Risorgimento, costituito da un processo politico e culturale ancora dominato strutturalmente dall’intellettualità nobiliare e che non scalfisce nella sostanza uno dei tratti essenziali dell’Illuminismo italiano: il suo configurarsi come un nucleo uscito dal seno stesso di quella nobiltà terriera o urbanizzata, che con i nuovi soggetti emergenti del terzo stato non ha relazione, anzi da cui talora si sente strutturalmente estraneo” (David Bidussa, Il Manifesto, 29 agosto 1997).

 

Il card. Ruffo arriva a Spinazzola.

 

28 Maggio. Martedì. Napoli. Contrasti tra la Sala patriottica e la Commissione Esecutiva. “La Sala patriottica è insorta contro la elezione dei magistrati fatta ieri, dicendo che non dovea il Governo arrogarsi la facoltà di procedere a tale elezione, la quale dovea farsi con loro suffragio, rappresentando essi il popolo. Vi fu chi sostenne che fosse stato anche un passo intempestivo quello di organizzare ora i Tribunali repubblicani, per la ragione che restando senza impiego tante migliaia di persone, si faceva crescere il numero dei malcontenti (…) Questa mattina dal Legislativo si è fatta la legge a mozione di Pagano, che siano confiscati i beni tutti di coloro che seguirono la Corte, dovendo riputarsi come nemici della Patria. Cantalupo ha voluto opporsi, dicendo che non gli sembrava interamente giusta la legge, perché quei finalmente avevano seguito il loro legittimo Padrone, e voleva che si fossero posti in mora, assegnandoglisi tempo a ritirarsi. Tutta la sala dei circostanti ha susurrato contro di lui, e Pagano, Conforti, Scotti, gli hanno dato sulla voce, dicendo: che non dovevano chiamarsi coloro che si erano spiegati nemici, e che avevano avuto quattro mesi di tempo per ritirasi se volevano. E’ corsa dunque la legge proposta” (De Nicola, p. 191).

 

In Basilicata si costruì l’alleanza tra i giacobini e il movimento popolare. Il risultato di un’inchiesta giudiziaria già nota da tempo ed ora le imputazioni a carico dei 1307 rei di Stato lucani sono in netto contrasto con l’interpretazione data ai fatti del 1799. Tali documenti mostrano chiaramente che in questa regione le masse contadine non insorgono disordinatamente contro i detentori della ricchezza, ma partecipano attivamente al movimento rivoluzionario con elementi democratici e repubblicani appartenenti alla borghesia illuminata. Contro i funzionari borbonici e contro tutti coloro che sono interessati ad impedire ogni eventuale trasformazione economico-sociale, i contadini di Basilicata si schierano in difesa del nuovo regime dal quale hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti sulle terre feudali e su quelle demaniali usurpate” (Pedio, p. 702).

 

Il card. Ruffo arriva a Venosa.

 

29 Maggio. Mercoledì. Napoli. “Sulla Sala patriottica di S. Lucia arringava in tribuna un popolare del Mercato, ma io questi gli credo prezzolati, perché il popolo in generale è tutto Regalista, e so che aspetta l’armata Regia, e fa provisione di cartucci. Anzi mi si dice che acquista dei cristieri per liquefarli e farne palle. Qualche cosa vi sarà, perché il Ministro di Polizia ha fatto affiggere editto per le armi da fuoco che mai si tenessero nascoste. Gli Inglesi per rappresaglia, avendo intesa la fucilazione dei quattro eseguita qui, perché rei di opinioni politiche, hanno sui legni fucilati quattro della municipalità di Sorrento: spero che sia falsa la diceria, poiché sarebbe una crudeltà. Giulia e Mariantonia Carafa continuano ad andar mendicando la limosina per la Repubblica. Questa mattina sono passate per casa mia, ed io ho fatto cacciarle grana cinque, dicendo, non estendersi più in là le mie finanze. Esse per dar soggezione notano i nomi di coloro che niente danno: a me dovranno notare quello che gli ho dato. Giulia è la celebre duchessa di Cassano” (De Nicola, p. 194).

 

Il card. Ruffo arriva a Melfi.

 

30 Maggio. Giovedì. Napoli. Mario Pagano lascia la presidenza della Commissione Esecutiva a Domenico Cirillo. “E’ questo l’ultimo atto ufficiale della Repubblica napoletana prima dell’ingresso in città del cardinale Ruffo (13-14 giugno). Dopo sarà la vendetta. Volendo sintetizzare questo periodo, non si andrebbe perciò molto lontano dal vero dicendo che la fuga di Ferdinando IV, iniziata ad Albano nel dicembre 1798, terminerà a piazza del Mercato a Napoli all’ombra della forca e della mannaia” (Battaglini, pp. 17-8).

 

“Il Governo questa mattina è stato sempre chiuso, e si dice che fosse in conferenza col generale di brigata Gerardon venuto da Capua. Egli è certo che sta in agitazione. Anzi quest’oggi mi si è detto che il rappresentante Pagano ieri sera voleva ammazzarsi. Sarà ciarla popolare, non è poi tanto fuori proposito. So che vi è di certo che la disfatta di Spanò è stata considerevole, di 700 uomini della sua colonna appena 200 ne sono tornati sani, i feriti sono stati moltissimi, ed i morti anche molti. Egli è gravemente ferito con due palle, una entro la coscia, l’altra nel ginocchio; leggermente ferito è anche in fronte e nel petto. All’arrivo di questa notizia furono immediatamente chiamati al quartiere i civici tutti, e gli fu detto che conveniva si accingessero a partire. Questi ricusarono, e vi fu chi tra loro prese la parola dicendo, che poteva partire il rappresentante Pagano ed il generale Basset, che stavano a fare i minchioni a Napoli. Il capo di Legione disse, che sarebbero notati come infami tutti coloro che ricusavano di partire. Ma di niente giovolli, anzi vi è stato chi ha deposto l’uniforme, ed è andato a dire al Governo, che non erano essi obligati ad andare a reprimere le insorgenze, essendosi solo prestati al servizio interno per la quiete della città; non si sa l’esito di quella briga (…) Ieri dal correttore Vincenzo Troisi, furono chiamati i superiori di tutti i missionarii, si voleva che spedissero missioni volanti pei dipartimenti tutti, gli fu risposto da taluno di essi, e specialmente dal P. Tornesi dei Vergini, che le missioni volanti di due o tre giorni erano inutili e pericolose; da altri che non era tempo di mandarle ora che i dipartimenti erano in rivolta, perché avrebbe ciò esposti gli individui, poste in discredito le missioni, ed allarmate viepiù le popolazioni. Per Napoli anco si fanno predicare dei monaci Francescani la repubblica e la Libertà; ma il popolo se ne beffa, e la Religione ne patisce” (De Nicola, pp. 194-6).

 

I sabotaggi. “Appena un mese dopo la promulgazione della legge sui feudi, il Governo Provvisorio della Repubblica ne deve emanare un’altra per tentare di imporre l’effettivo rispetto della prima. Conviene riportare il prologo: “Considerando che invano il Governo Provvisorio si occupa di alleggerire i pesi pubblici sofferti dai Dipartimenti, fino a che vi siano dei malvagi che ne impediscano le abolizioni e gli effetti salutari; considerando che non pochi ex baroni ed ex nobili per mezzo dei loro agenti ed erarii s’interessano ad inutilizzare la legge feudale portata in sollievo delle popolazioni da loro per tanto tempo tiranneggiate; considerando ultimamente che molte insurrezioni sono state fomentate dai detti agenti, ed altri dipendenti degli ex baroni ed ex nobili, cagionando spargimento di sangue, etcc”. Mancano alla caduta della Repubblica soltanto una quindicina di giorni” (Galasso, p. 529).

 

31 Maggio. Venerdì. Napoli. E’ emanato il Regolamento dell’armata repubblicana.

 

Oggi si trovò il seguente affisso: “Unica ed indivisa la Republica Napoletana, comincia a Posillipo e finisce a porta Capuana”. Mentre i principali patriotti spiegano coraggio ed energia, tutti i loro seguaci poi fuggono ad ogni minimo rumore. Quest’oggi reggevasi la Sala patriottica a S. Lucia, si è inteso un colpo di cannone, e in un momento la Sala è rimasta vuota; son tutti spariti, senza che le voci del moderatore Luigi Serio fossero state bastanti a trattenerli. Si è saputo dopo che il colpo di cannone fu tirato per chiamare all’obbedienza un picciolo legno che si è creduto mascherato, avendosi notizia che giornalmente vengono di simili piccioli legni Inglesi mascherati, fino a scendere a terra (…) Il popolo è nella stessa fermezza realista, non ostantino le prediche che ogni giorno gli si fanno fare da un frate Francescano fra gli altri, il quale va predicando Republica e Libertà per tutta Napoli. Il popolo non è possibile che si affezioni a questo Governo per quanto facciano e dicano, perché fa fede che i fatti non corrispondono. La scostumatezza dei patriotti pompeggia e il popolo lo vede e lo sente. Quanto sarà peggio appresso, e questo fa disperare della salute della Republica, il di cui fondamento dovrebbe essere la virtù. Per notizia della scostumatezza noterò due aneddoti. In un quartiere della truppa civica, quattro scostumati si erano disposti a trastullarsi alla pederastia, e non ci volle poco perché desistessero. In mezzo Toledo una gentildonna camminava col marito, ed un civico ebbe l’impudenza di darle con la mano un colpo sulle natiche” (De Nicola, pp. 197-9).

 

Quali furono i rapporti tra il giacobinismo italiano e le masse popolari? “L’insorgenza e, là dove non si giunse all’aperta lotta armata, l’orientamento anti-repubblicano sopravvennero solo in un secondo tempo (più o meno breve a seconda delle circostanze locali): solo quando le masse popolari videro che il nuovo regime era per essi peggiore dell’antico; quando videro il loro tenore di vita, già così basso, ancora peggiorare; quando si resero conto che le loro aspirazioni anche più elementari (soppressione del regime feudale, divisione delle terre feudali, recupero dei beni comunali sottratti loro nei decenni precedenti, diminuzione del carico fiscale, conseguimento di migliori condizioni di lavoro) non avevano speranza di realizzarsi e che –al contrario- la rivoluzione significava per loro solo ruberie, requisizioni, carestia, carovita, disoccupazione, nuove contribuzioni (…) Che questo fosse il vero stato d’animo delle masse popolari è confermato ad abundantiam da come andarono le cose nelle regioni meridionali della Repubblica napoletana, dove le truppe francesi non misero piede. I più recenti studi in materia (in particolare quelli del Villari, del Cingari e soprattutto del Pedio) mostrano infatti chiaramente come la rivoluzione abbia avuto in queste zone un decorso ben diverso che nell’Italia occupata. Non contrastato né dalla presenza dei francesi e dalla loro volontà di evitare ad ogni costo che la democratizzazione delle terre liberate precipitasse in una vera e propria rivoluzione sociale e soprattutto contadina come era stato in Francia, né dall’applicazione indiscriminata di massicce requisizioni e contribuzioni, il processo rivoluzionario si sviluppò all’estremo sud secondo schemi tutt’altro che passivi e che ricordano da vicino quelli francesi. L’adesione popolare al movimento rivoluzionario fu qui tutt’altro che trascurabile. “La speranza di riconquistare le terre demaniali privatizzate o di ottenere nuove terre sottraendole alle proprietà feudali o borghesi –scrive il Villari- fu quasi dappertutto l’elemento fondamentale della partecipazione popolare, che assunse subito nettamente il carattere di assalto alla terra”. In gran parte della Basilicata e in varie zone della Calabria (specie in quelle albanesi) soprattutto, questa adesione fu così vasta da provocare, per contraccolpo, una profondissima divisione del fronte democratico, con conseguente irrigidimento di buona parte di esso su posizioni moderate o addirittura conservatrici. Come bene ha mostrato il Pedio, ben presto infatti tutta la lotta politica finì proprio per ruotare attorno alla partecipazione popolare al movimento rivoluzionario. La borghesia agricola e moderata, che –insieme a buona parte del clero- aveva in un primo tempo aderito alla rivoluzione e dato vita alle municipalità, assunse infatti subito una posizione nettamente anticontadina avvicinandosi sempre più alle posizioni della nobiltà feudale; la borghesia radicale, invece, prese posizione per le rivendicazioni contadine e, in molti casi, si mise alla testa del movimento delle campagne. Da qui un aperto conflitto che a seconda del suo esito finì per determinare la successiva posizione delle masse. Dove i radicali ebbero il sopravvento queste furono con essi e con la Repubblica sino alla fine; dove, invece, prevalsero i moderati e dove l’equilibrio tra i due partiti provocò una stasi nell’occupazione delle terre esse finirono ben presto per passare ai sanfedisti che –è importante sottolinearlo- si presentavano anch’essi come “riformatori” e promettevano una riduzione dei pesi fiscali, una riforma amministrativa, un ristabilimento della giustizia amministrativa e, in qualche caso, persino una revisione delle terre comunali e feudali (…) In tutti questi fatti è riscontrabile più o meno esplicitamente un “incontro” tra masse popolari e giacobini. E’ questo infatti un elemento importante della realtà politico-sociale del triennio rivoluzionario a cui non è stata in genere prestata tutta l’attenzione che esso avrebbe meritato. L’interpretazione passivista del triennio 1796-1799, se da un lato ha sostenuto la refrattarietà delle masse alla rivoluzione, da un altro ha infatti sostenuto –altrettanto recisamente- un’astrattezza e un disinteresse del movimento democratico per le aspirazioni popolari che è, a nostro avviso, da respingere con uguale decisione.

 

I due campi del mondo democratico italiano di fine ‘700. Come hanno dimostrato gli studi più recenti, il mondo democratico del triennio rivoluzionario può dividersi nettamente in almeno due campi, i moderati e i radicali o, come noi preferiamo, i giacobini. Agli uni e agli altri le masse popolari, specie quelle contadine, furono tutt’altro che non presenti. Ai moderati furono ben presenti negativamente, cioè come un pericolo da allontanare dalle proprie teste, da tenere in confini ben delimitati ed impedire che si inserissero attivamente nella vita politica e soprattutto economico-sociale del nuovo regime trasformando la rivoluzione borghese in una rivoluzione popolare così come era avvenuto in Francia. Ai giacobini esse non furono, salvo rare eccezioni, presenti come un problema economico-sociale; la stragrande maggioranza, per non dire la totalità, dei giacobini era di origine borghese e –all’inizio almeno- era anch’essa (nonostante il suo tendenziale egualitarismo) lungi dall’auspicare una rivoluzione popolare (che, oltretutto, avrebbe indebolito il fronte democratico-borghese); per essa il popolo prima di poter aspirare alla partecipazione al potere doveva essere innanzi tutto illuminato ed istruito; i giacobini si rendevano però conto, e vieppiù se ne resero conto col procedere della rivoluzione, che se il movimento rivoluzionario voleva affermarsi e mettere salde radici doveva da un lato cattivarsi il popolo e dall’altro spuntare le unghie ai grandi ricchi. Alcuni credettero che ciò potesse essere realizzato con l’apostolato e l’istruzione; altri però si resero conto della necessità assoluta di venire incontro alle aspirazioni popolari e di realizzarle, seppur gradualmente. Se non come problema economico-sociale le masse popolari ( e le loro aspirazioni economiche di conseguenza) furono loro presenti come problema politico, come elemento essenziale allo stabilimento di un vero ed efficiente regime rivoluzionario in Italia. A. Saitta ha avuto occasione di scrivere anni or sono che “il giacobinismo italiano, se non fosse stato conculcato dalla Francia direttoriale e napoleonica, avrebbe potuto realizzare la sua rivoluzione agraria”. Contro questa tesi alcuni hanno –anche recentemente- polemizzato vivacemente. Essa ha però, a nostro avviso, un certo fondamento. Potenzialmente almeno, non vi è dubbio che –a parte la soluzione francese- l’unica via che si presentava alla rivoluzione italiana nel triennio ’96-’99 era questa; così come non vi è dubbio che i giacobini la imboccarono, chi prima chi poi, anche a costo di vedere le loro file diradarsi e a costo di rendere ancora più esplicito il conflitto che ben presto si era venuto delineando tra essi e i francesi in sede politica (…) Quale bilancio perciò si può trarre? Concludendo, alla luce di questo complesso di elementi, un bilancio del triennio rivoluzionario non può essere assolutamente così negativo come a prima vista potrebbe apparire sulla base di una tradizione storiografica più che secolare, né può –come ha bene dimostrato il Saitta- basarsi su un’antistorica contrapposizione del movimento repubblicano meridionale, tutto luce, a quello settentrionale, tutto ombre. Il movimento rivoluzionario italiano fu infatti un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario. Non può essere così negativo perché nonostante le sue ombre e nonostante la distorsione a senso unico che il processo rivoluzionario italiano dovette subire a causa dello strapotere francese, il triennio ebbe una sua originalità che lentamente viene affiorando purché lo si studi con mente scevra da pregiudizi. Si pensi, per esempio, al suo aspetto amministrativo-costituzionale che, pur essendo stato in larghissima misura influenzato dall’esempio e dalla volontà francesi, ha –a ben vedere- una sua originalità. Ma dove soprattutto il bilancio non può essere negativo, ma –al contrario- nettamente positivo, è a proposito del ruolo che vi ebbero i gruppi più nettamente radicali. E questo in base alla visione nazionale che della rivoluzione italiana ebbero i giacobini. Cioè della loro consapevolezza che la rivoluzione non potesse essere un fatto della sola borghesia, ma dovesse investire tutta la società nazionale, tutte le classi, quelle popolari comprese. E’ questa consapevolezza che in sostanza determina quel significato profondo di frattura che ebbe rispetto alla storia d’Italia il triennio rivoluzionario. Se già nel ’96-’99 e ancor più nettamente nel successivo periodo napoleonico furono i moderati ad avere la meglio e a imporre la loro linea politica, è un fatto indiscutibile che questa consapevolezza dei giacobini fu alla base di gran parte del movimento settario del primo Ottocento, si fece potentemente sentire sul movimento liberale sino al 1848 e, se non fu proprio alle origini, certo influì notevolmente sul movimento mazziniano” (R. De Felice, pp 37-43, passim).

 

Il cardinale Ruffo arriva ad Ascoli Satriano.

 

 

Nota bibliografica

 

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • R. De Felice, “Italia giacobina”, ESI, Napoli, 1965
  • G. Galasso, “La legge feudale del 1799”
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974