Repubblica Napoletana. 15-19 giugno 1799. “A Napoli saccheggi e massacri. La resistenza dei repubblicani. La “rivoluzione mite” dei giacobini di Napoli. Le preoccupazioni politiche di Ruffo. La “Capitolazione”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 26° puntata. 15–19 Giugno 1799. “A Napoli: saccheggi e massacri. La resistenza repubblicana. Le preoccupazioni politiche del cardinale Ruffo. Capitolazione tra Ruffo e i repubblicani. La resa dei Castelli”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

15 Giugno. Sabato. Napoli. Proclama di Ruffo contro i saccheggiatori e per la pacificazione generale. “Tutti coloro che non saranno attualmente con le armi in mano, e che non fanno alcuna resistenza né ingiuria alla società, quantunque per lo passato avessero ciò fatto, non dovranno ulteriormente offendersi da alcuno sotto le più gravi pene” (Battaglini, p. 29). Le preoccupazioni politiche di Fabrizio Ruffo. “Il cardinale, che poneva al vertice della propria opera di restaurazione il recupero del consenso tra i ceti medio-alti della società napoletana in vista della restaurazione monarchica e della ripresa economica dello Stato, si affretta ad emanare un proclama per fermare i saccheggi e gli atti di violenza perpetrati a danno dei cittadini inermi. Preoccupato del possibile arrivo di una flotta gallo-ispanica a sostegno dei repubblicani, della diminuzione progressiva della forza d’urto dei propri uomini ormai appagati e della resistenza dei patrioti –pur sempre in possesso di tutte le fortezze cittadine-, il cardinale concorda col Manthoné e con la Commissione Esecutiva Repubblicana un armistizio di tre giorni” (Sani, p. 52).

I saccheggi. Verso le ore dieci d’Italia si è inteso il cannone di S. Elmo nuovamente, faceva fuoco egualmente il castello del Carmine e quello dell’Ovo, la cui mitraglia mi si dice arrivi sino alla strada dei Guantai. Un editto regio accorda il perdono ai Giacobini tutti con legge che uscir debbano dal Regno. Con altro editto ieri fu proibito il saccheggio, ma in punto si sta saccheggiando la casa di d. Giovanni Torre in mezzo la strada della Carità, casa del monastero di Donna Regina. Si vuole però che sia perché abbiano fatto fuoco dalle finestre, giacché per Napoli da molte case particolari si fa disperatamente fuoco dalle finestre e balconi. Molti Giacobini stanno nudi, ristretti al ponte nel serraglio delle vacche (…) Sono stati, sarà un’ora circa, trasportati i fratelli di Giuseppe Cestari ligati nudi, in mezzo al popolo ed a soldati. Ieri fu veduto trasportare nel modo stesso, ma colla camicia a calzonetto, quel vecchio rimbambito del sacerdote Nicola Pacifico, che serviva da capitano nella truppa civica essendo vecchio di 72 anni. Il già rappresentante Pagano con una figlia mi si dice che fu trucidato ieri (la notizia è falsa, ndr) (…) Il saccheggio continua da per tutto, ed è uno spettacolo che interessa ogni cuore che ha sentimenti di umanità, il vedere gittare la roba per le finestre, trasportarsi per le strade, e dilaniarsi da per tutto. La resistenza furiosa dei patrioti repubblicani. Quello che è sicuro, il cannoneggiamento che non soffre interruzione, e si sente nelle vicinanze di S. Lucia del Monte un continuo fracasso di scariche di fucilate. Il parroco d. Aniello del Luise, della parrocchia di S. Maria di Ogni Bene, è stato arrestato coi suoi nipoti. Questi erano impiegati della passata pseudo Repubblica, ed il zio avea dei serii incarichi, come quello della compilazione del catechismo repubblicano, e simili. I nipoti, si era saputo, che questa mattina facevano fuoco dalle finestre, come lo stesso facevano i figli di d. Antonio Colletta, operazioni di matti disperati (è la famiglia dello storico Pietro Colletta, ndr). Alle ore 18 circa è cominciato un attacco calorosissimo sopra S. Lucia del Monte, tralli Giacobini patriotti, chiusi entro il monastero e nella vigna di S. Martino, per quanto si dice, ed i Calabresi, che li hanno attaccati di fuori da tutti i lati. E’ impossibile poter descrivere il fuoco che si è fatto. Basti dire, che per due ore continue è stato un fragore continuato di scariche di fucili, framezzato da qualche colpo di arma da fuoco più grande. Ed è stato impossibile agli assalitori di superare e forzare gli assalti, non ostante i continui rinforzi ricevuti di gente a cavallo ed a piedi (…) Quello che vorrei sapere con accerto, sarebbe se il cardinale Ruffo sia effettivamente in Napoli alla testa dell’armata, perché finora non si veggono che orde, per così dire, d’insorgenti, i quali marciano alla rinfusa, senza ordine, senza tamburo, senza forma di truppa regolata, all’opposto si dicono gli editti publicati. La sintesi fulminante del diarista. Non si crederà la storia di questi nostri tempi. Fra lo spazio di sei mesi, due anarchie popolari, due incursioni, per così dire, una di Francesi, l’altra d’insorgenti, doppio saccheggio, due guerre vive nell’interno della città. La prima durò quasi tre giorni, e fu sostenuta dai soli popolari contro un esercito francese ben ordinato ed agguerrito, sostenuto al di dentro dal partito Giacobino, poi detto patriottico; la seconda, è questo il terzo giorno che dura vigorosissima. Il primo veramente fuori le porte, dirò così, perché sul ponte della Maddalena ed a Capodichino, gli altri due nell’interno della città, sostenuta questa guerra viva e risoluta dal solo partito patriottico contro torme d’insorgenti, i quali soli sostengono il fuoco, giacché il popolo napoletano ha preso le armi solo per unirsi al saccheggio delle case Giacobine; e tra queste Dio sa quanti cittadini tranquilli hanno sofferto la stessa sorte (…) Verso le ore 24 e tre quarti, essendo passata della truppa per Toledo, che hanno detto essere a cavallo, il popolo andava gridando “Viva il Re”, a queste voci hanno corrisposto i patriotti che sono entro la vigna S. Martino, gridando “Viva la Repubblica, la Libertà”. E poi quasi rimproverando il popolo, gridavano “schiavi vili” e soggiungevano delle improperie (…) In mezzo Toledo è stata arrestata una persona, perché tirandole il piccolo codino, è questo rimasto fra le mani di chi lo ha tirato. Conviene sapersi che molti, che s’avevano fatte le zazzere, per timore poi si attaccano i codini posticci, e fin da più giorni correva per Napoli questo detto: “Vuoi conoscere il Giacobino / E tu tirali il codino,/ Se la coda ti viene in mano / Questo è vero repubblicano” (De Nicola, pp. 234-7). Un altro diarista annota. “In queste giornate l’orrore del massacro, saccheggio e libertinaggio era cresciuto all’eccesso, che non vi è penna che lo possa descrivere. La minuta plebe, altrimenti detta i Santafedisti, facevano a gara di commettere ed inventare barbarie e crudeltà. Il facoltoso, il nobile, l’uomo civile era Repubblicano, o come dicevano loro i Giacobini, e tutto era esposto ad ogni insulto. Non vi era giusto; ma tutto esposto all’ingiustizia ed alle rapine di un popolaccio sfrenato. Non camminava per la città galantuomo, all’infuori di quei che il volgo strascinava ignudi e mezzi morti e intinti del proprio sangue verso il Ponte della Maddalena. Molti di questi non vi giungevano, essendo uccisi per strada. Tutto era orrore, spavento e lutto” (Marinelli, pp. 6-7).

Procida. Sono impiccati i sacerdoti De Luca, Lubrano di Vicaria e Scialoia (da “Il Mattino”, Il senso di un bicentenario”, 21 gennaio 1999, p. 4).

16 Giugno. Domenica. Napoli. “Si son publicati gli editti del cardinal Ruffo dati dal quartier generale del ponte della Maddalena. Con uno di essi proibisce il sacco e gli arresti per via di fatto dei Giacobini senz’ordine precedente, o suo o dei Ministri, meno il caso quando prendessero le armi. Ciò però non ostante la gente che vuol profittare va inquietando col pretesto della ricerca dei Giacobini. Un altro dice, che vedendosi girare bandiera Regia per la città ed entrare nei castelli, debbano cessare le ostilità, essendo segno di armistizio. Questa mattina in effetto è girato per Toledo, e si è veduto unito agli uffiziali regii anche il comandante del castello Nuovo, che ne andavano al ponte a stabilire i patti, e si è sperato che si combinasse l’armistizio” (De Nicola, p. 239).

La rivoluzione mite dei giacobini di Napoli. “La repubblica napoletana del 1799 durò poco meno di cinque mesi; si calcolano in molte migliaia i patrioti impiccati, moschettati, sgozzati dal Terrore sanfedista; molte famiglie tra le più nobili e più intensamente pervase da sentimenti di devozione al bene pubblico furono distrutte, beni e ricchezze dilapidati e dispersi. Si trattò di un avvenimento politicamente effimero, indotto per di più da fattori esterni e non intrinseco al sentire delle popolazioni del regno. La repubblica nacque infatti in coincidenza con l’arrivo a Napoli d’una piccola armata francese comandata dal generale Championnet e cadde quando i francesi abbandonarono la regione. La sua proclamazione fu preceduta di un mese da un’insurrezione popolare che spaventò il re e lo indusse a riparare a Palermo imbarcandosi sui legni inglesi di Nelson. La sua fine fu segnata dall’arrivo delle bande guidate dal cardinale Ruffo che risalivano dalle Calabrie vincendo la disorganizzata resistenza di pochi drappelli repubblicani. I lazzaroni della città insorsero nuovamente, ma questa volta invocando il re che avevano scacciato nel dicembre. Ferdinando, la regina e tutta la corte approdarono a Napoli con la flotta inglese e il macello cominciò. Come dicevamo, fu un evento effimero la rivoluzione. Passò sulla società meridionale quasi senza lasciarvi il segno, sebbene in quei pochi mesi in cui resse lo Stato numerose e importanti furono le riforme decretate dal governo repubblicano: abolite le istituzioni feudali e i fidecommessi, riformato il fisco e soppresse le gabelle più impopolari a cominciare dal testatico e da quella sul sale, creati i dipartimenti provinciali e istituita la guardia nazionale. Ma queste riforme rimasero in gran parte sulla carta e non riuscirono ad affezionare il popolo alla repubblica. Solo dopo la battaglia di Marengo, quando Giuseppe Bonaparte prima e Murat poi governarono il regno per oltre un decennio, le riforme si affermarono diventando la premessa dei moti costituzionalisti del 1821 e dell’inizio reale del movimento risorgimentale anche nel Mezzogiorno. La repubblica del ’99 dunque passò come una goccia d’acqua sul vetro. I suoi critici –che furono molti- sostennero che nulla finì con essa e nulla cominciò. Eppure se ne è parlato, se ne è scritto, storici illustri se ne sono occupati ed anche romanzieri rinomati, a cominciare da Alessandro Dumas. Tuttora, dopo due secoli, la memoria di romanzieri e di storici torna ad occuparsene, con spirito appassionato negli uni, critico negli altri; segno che quei pochi mesi, contrariamente all’apparenza, suscitarono passioni ancor vive oggi e posero problemi la cui natura andava al di là del fatto specifico. Riflettere due secoli dopo sulle vicende della repubblica partenopea ci farà più chiari alcuni passaggi del nostro presente poiché la storia, come capì e teorizzò Croce, è sempre contemporanea e questo è il solo e grande valore che porta con sé. Scrive V. Cuoco nel suo non dimenticabile saggio sulla “Rivoluzione di Napoli” –egli che ne fu partecipe testimone portando nella mente, oltre alla passione civile, anche il metodo storico appreso dal Vico-: “Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari ove si avesse voluto trarle dal fondo stesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte erano lontanissime dai sensi e, quel che è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutti i capricci e talora tutti i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, dai nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietà e dispareri si moltiplicavano in ragione delle cose superflue che non dovevano entrare nel piano dell’operazione e che intanto vi entrarono”. I giacobini del ’99, come li descrive il Cuoco e come nei fatti si dimostrarono, nulla avevano di simile a quel partito che sei anni prima in Francia aveva sostenuto Robespierre e il suo regime di terrore; essi infatti dettero vita a una repubblica mite, che non infierì su alcun esponente del passato regime che certo molto mite non era. Si affidavano alla bontà astratta degli ideali senza curarsi che avessero rispondenza negli usi e nell’animo delle popolazioni. Pensavano che bastasse annunciare la giustizia e la libertà perché le cose si svolgessero di conseguenza con la concordia di tutti. Infine non conoscevano i partiti poiché il loro sentimento più profondo era la devozione verso il pubblico bene e lo Stato e ciò non contemplava che ci si dividesse in fazioni ma che si fosse uniti nell’interesse della nazione. Anime belle, si direbbe oggi di questi giacobini così singolari rispetto al modello da cui avevano tratto il nome. Eppure qualche connotato di somiglianza con quel modello c’era: anche i giacobini robespierristi volevano infatti sovrapporre alla realtà sociale economica e religiosa del loro paese uno schema ideologico e astratto; il Terrore del 1793 fu il tragico prodotto di quella discrepanza e derivò dalla fiducia al tempo stesso ingenua e spietata nelle virtù dell’ideologia rispetto alla realtà delle costumanze e degli interessi. I giacobini napoletani non ebbero neppure il tempo di lasciarsi prendere la mano dalla stregoneria della violenza ideologica, ma quand’anche lo avessero avuto io credo che non se ne sarebbero fatti coinvolgere. La natura di quel gruppo, che dopo essere emerso per breve tempo fu distrutto dai patiboli della Santa Fede, era riformista e non rivoluzionaria. Credevano in istituzioni capaci di modificare l’economia, il lavoro, la proprietà; non puntavano a cambiare gli uomini ma ad affrancarli dalla servitù e lasciarli operare nella libertà. Non avevano però calcolato quanto quell’affrancamento fosse così poco desiderato da quello stesso popolo che preferiva campar la vita con le mance dei potenti anziché con la responsabilità consapevole e difficile degli uomini liberi. La lontananza tra l’immaginazione e la realtà era troppo grande perché si potesse colmare in tempo breve e in presenza di nemici agguerriti che facevano invece appello agli istinti più elementari di quella società ancora così arretrata. Quaranta anni fa nelle stanze di redazione del “Mondo” il discorso cadeva di tanto in tanto sui fatti napoletani del ’99. Per molti di noi quei fatti avevano un fascino insieme storico, politico e romanzesco: costituivano in Italia la prima civile insorgenza repubblicana e liberale contro il dispotismo, erano stati un tipico esempio di iniziativa elitaria e laica; infine c’erano nel nostro gruppo di amici alcuni giovani studiosi cresciuti a Napoli all’insegnamento crociano che avevano per quelle vicende un attaccamento quasi parentale, che anche io condividevo per avere avuto tra i patrioti finiti sul patibolo un mio avo alla cui memoria ero assai devoto. In quei nostri discorsi intervenne più d’una volta Ugo La Malfa che ci faceva lezione di politica e ci invitava a considerare quei giacobini per quello che realmente erano stati: un piccolo nucleo di intellettuali con una cultura, un costume, un sentimento che li facevano stranieri in patria, condannati a restare piccola minoranza se prima non vi fosse stato un duro e lungo dissodamento del terreno sociale di quelle regioni. La Malfa riprendeva la tesi del Cuoco e batteva e ribatteva sulla necessità, per i piccoli gruppi di pressione come era il nostro, di puntare sulla concretezza delle riforme, sugli studi, sui buoni ordinamenti e, infine, sulla politica delle alleanze con forze che, pur partendo da presupposti diversi dai nostri, potessero accompagnare per un tratto di strada un processo mirato a comuni obiettivi. Noi più giovani eravamo maggiormente sensibili all’intransigenza anche a costo dell’isolamento, ma lui ci ammoniva contro questo difetto dell’età e portava come esempio di inefficacia proprio quegli uomini del ’99 che ai nostro occhi raffiguravano un modello di virtù civiche. Così il Cuoco conclude il suo saggio: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posterità oblierà gli errori che, come uomini, han potuto commettere coloro cui la repubblica era affidata; tra essi però ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall’uomo ed ecco ciò che forma la loro gloria”. E questo spero sarà lo spirito con cui i napoletani e gli italiani consapevoli vorranno ricordare la sfortunata, ingenua, utopistica ma luminosa repubblica del 1799 e i suoi martiri. Essi non ci hanno certo trasmesso un grande esempio di intelligenza politica, ma sì di altissimo sentire morale; e poiché viviamo in tempi nei quali, se l’intelligenza politica non abbonda, la moralità è assente del tutto, ecco perché quella repubblica breve e fragilissima rappresenta tuttavia un punto di riferimento per il formarsi della coscienza degli italiani, ancora così incerta e manchevole” (articolo di Eugenio Scalfari, in “La Repubblica”, dicembre 1998).

17 Giugno. Lunedì. Palermo. Il re scrive al cardinale Ruffo. Congratulazioni e ammonimenti:Dai consolantissimi rapporti ricevuti da tre giorni a questa parte da Procida sullo stato dei nostri affari vado a rilevar, che coll’aiuto del Signore a quest’ora probabilmente tutto sarà terminato in Napoli e voi vi troverete a far le mie veci in quella capitale e regno mediante la vostra attività, zelo, coraggio ed attaccamento, usato fin dal momento che vi prescelsi al disimpegno di sì delicata e scabrosa incombenza, e l’aiuto di tanti buoni e fedeli miei sudditi; benché non ne sia sicuro, mi congratulo di avanzo con voi e con tutti quelli che hanno cooperato a sì gloriosa intrapresa che nell’Istoria farà epoca molto gloriosa per voi e per il buon popolo del regno tutto di Napoli, avendomelo ricuperato senza quegli aiuti che dai nostri alleati ci erano stati promessi, e senza dei quali volevano ciò non potersi assolutamente fare. Son sicuro di non aver bisogno di ulteriormente ripetervi, quanto nelle ultime due mie vi ho scritto relativamente al modo come trattare tanto i buoni, e che da tali siensi mostrati, quanto gl’infami ribbelli Giacobbini, in particolare i capi. Vi raccomando però non ostante caldamente di non far nulla che possa di sconvenire a quella dignità, che è tanto necessaria di sostenere, ed al mio e Vostro onore, e decoro. Come cristiano io perdono a tutti, ma come quello in cui Dio mi ha costituito, debbo esser vindice rigorosissimo delle offese fatte a Lui e del danno cagionato allo Stato e a tanti poveri disgraziati. La squadra di Nelson partì ieri mattina, con vento favorevolissimo, né dei Francesi s’è saputo altro fin’ora” (Croce, “La riconquista…”, pp. 217-8).

Ibidem. La regina scrive a Ruffo. Lodi e riordino del regno: Non trovo termine sufficiente per ringraziare vostra Eminenza del segnalato grande ed unico servizio che V. E. con tanto coraggio, spirito, energia e fermezza ci ha reso nel riconquistare con nessun mezzo, che quelli del suo genio e talento e della buona volontà dei popoli, il regno di Napoli, ed assicurato il vacillante trono di Sicilia. La mia penna non sa esprimere, ma il mio cuore sente vivamente tutto quello che le devo. Ora resta a compire la più grande, la più difficile opera, quella di ricreare l’ordine, riordinare tutto al fine che questa orribile crisi sia di vantaggio e non di perdita del regno” (Croce, ibid, p. 219).

18 Giugno. Martedì. Napoli. Le trattative per la capitolazione. Dopo l’armistizio continuarono le trattative per addivenire alla capitolazione dei Castelli; alla quale erano indotti: i repubblicani dalla perduta speranza d’aiuto dalla flotta gallo-ispana e dal contegno ostile della plebe, e il cardinale Ruffo dalla preoccupazione per la resistenza dei patrioti e per l’anarchia che regnava nella città, e dalla notizia comunicatagli segretamente dal Foote, che il Nelson aveva dovuto recarsi incontro alla flotta nemica, la cui venuta –sempre possibile- avrebbe annientati tutti i vantaggi finora ottenuti. Al riguardo però il cardinale non poteva ignorare le idee della corte contrarie ad un patto o armistizio coi repubblicani, che la corte stessa voleva considerare semplicemente come ribelli. Ma il Ruffo, per le ragioni sopradette e forse più ancora perché desiderava prevenire gli Inglesi nel riacquisto di Napoli, cercava indubbiamente concludere al più presto la capitolazione dei castelli, che suggellava la conquista definitiva del regno; e perciò approfittò della pretenziosità del Micheroux e lo lasciò fare, permettendogli di concedere quanto egli stesso avrebbe forse concesso e quanto il Foote aveva accordato ai patrioti di Castellammare il 15 giugno. In tali condizioni fu relativamente facile addivenire ad un accordo per la capitolazione, tanto più che nelle trattative, nelle quali ebbero molta parte il generale francese Méjan e il capitano inglese Foote, il generale repubblicano Massa poté ottenere che le condizioni desiderate dal Direttorio Francese per la capitolazione venissero integralmente accettate dal Micheroux, al quale Ruffo aveva lasciato libertà di trattare e di concludere” (Serrao de Gregori, pp. 236-7).

Palermo. La regina Carolina scrive a lady Emma Hamilton: “Di ritorno dal convento ho saputo la felice nuova che i castelli sono stati in parte presi. Ad onta del perdono accordato, i furfanti si battevano ancora al Palazzo da disperati, avendone distrutta una parte. Alcuni se ne son fuggiti, ed il popolo fa delle giustizie parziali su quei birbanti. Ciò che ci bisogna è un secondo 1° agosto, un Abukir del nostro bravo generale” (Serrao, p. 239). Quindi prima che il Nelson parta per Napoli la regina sa che i castelli erano in parte occupati ma teme che si concedano ai difensori di essi condizioni troppo favorevoli e che i maggiori responsabili riescano a sfuggire.

Parigi. Un importante rivolgimento in Francia rianima le speranze dei patrioti italiani. “C’è la caduta dell’antico Direttorio, l’insediamento del nuovo con prevalenza di elementi radicali e giacobini, le minacce di mettere sotto processo il La Revillière e il Merlin, e gli agenti e commissari che con le loro rapine avevano eccitato contro la Francia l’odio dei popoli già a lei devoti, la liberazione dello Championnet dalla prigione e dal processo, e, poco di poi, la nomina di lui a generale dell’armata delle Alpi” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 330).

19 Giugno. Mercoledì. Napoli. Capitolazione tra Ruffo e i repubblicani. Resa di Castel Nuovo e di Castel dell’Ovo. “Alla presenza dei rappresentanti di Russia, Inghilterra e Turchia, il conte Micheroux e il card. Ruffo per i Borbone, il generale Oronzo Massa, comandante del presidio di Castel Nuovo, e Méjan, comandante di Castel S. Elmo, per la Repubblica Napoletana firmano gli articoli di capitolazione. In essi si stabiliscono: la consegna di Castel Nuovo e Castel dell’Ovo ai commissari di Ferdinando IV in cambio della libertà e dell’incolumità di quanti si trovano al loro interno; la liberazione dei prigionieri politici di ambedue le parti; la predisposizione di navi per il trasporto a Tolone dei repubblicani che lo desiderino; la detenzione in S. Elmo come ostaggi dell’arcivescovo di Salerno, del vescovo di Avellino, del Micheroux e del conte Dillon fino all’arrivo delle navi a Tolone” (Sani, p. 52).

“In questa convenzione di resa il Ruffo consente ai giacobini dei due sessi di trasferirsi sulle navi per recarsi a Tolone e garantisce il rispetto delle persone e delle proprietà mobili e immobili, trasformando addirittura alcuni prigionieri politici in ostaggi per garantire l’esecuzione del trattato. Per motivi diversi e concorrenti, ma non certo per volontà del cardinale, questi principi e il trattato stesso non troveranno mai attuazione, anzi saranno calpestati da una politica opposta. Tuttavia nel piano del card. Ruffo c’è un disegno politico preciso: non riconquistare il Regno, ma creare a poco a poco i presupposti per riordinarlo, per rifare ciò che era stato disfatto o era stato mal fatto, per evitare soprattutto che si ripetesse il pauroso fenomeno di anarchia che Ruffo temeva più che il giacobinismo. Egli riteneva infatti che il secondo fosse opera di pochi ribelli che non già per massime, o per mal’animo hanno aderito al perverso partito, mentre pensava che l’anarchia portasse a sciogliere ogni vincolo sociale distruggendo il potere regio. Ma se il disegno politico del cardinale che voleva, in definitiva, attenuare e minimizzare quasi l’opera dei giacobini, fu abbandonato e respinto, quella che rifulse in tutta la sua grandezza fu la sua capacità di organizzatore e amministratore. Partito con quattro compagni da Messina, giunse a Napoli con circa 20mila uomini dei quali ben 18mila costituivano le cosiddette truppe di massa, difficili da governare, più difficili ancora da frenare. Eppure Ruffo non solo riuscì a raccogliere attorno a sé un gruppo così forte , a reggerlo e guidarlo, entro i limiti del possibile, con una certa disciplina senza che gli abusi dilagassero. E’ sotto questo angolo visuale che dovrà in futuro prospettarsi la ricostruzione di questa figura, sfrondandola da ogni incrostazione che amici e nemici gli hanno accumulato intorno riuscendo solo a deformarla” (Battaglini, pp. 29-30).

“Il trattato della capitolazione porta la data del 19 giugno ma fu firmato forse il 20 o il 21 dal Cardinale Ruffo quale Vicario Generale e da Micheroux per il Re di Napoli, da un tale Kerandy per l’Imperatore delle Russie, da Banieu per la Porta Ottomana, da Foote per il Re d’Inghilterra, da Méjan per la Francia e dal generale Massa e dal colonnello Aurora per la Repubblica. Comprendeva i seguenti articoli: 1°) I castelli Nuovo e dell’Uovo, con armi e munizioni, saranno consegnati ai commissari di S.M. il Re delle due Sicilie e dei suoi alleati, l’Inghilterra, la Russia e la Turchia. 2°) I presidii dei due castelli usciranno con gli onori di guerra, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; essi deporranno le armi sul lido. Saranno rispettati e garentiti nella persona e nei beni mobili e immobili. 3°) Potranno scegliere d’imbarcarsi sopra navi parlamentari per essere portati a Tolone, o restare nel regno, sicuri d’ogni inquietudine per sé e per le famiglie. Daranno le navi i ministri del Re. 4°) Quelle condizioni e quei patti saranno comuni alle persone dei due sessi rinchiusi nei forti, ai prigionieri repubblicani fatti dalle truppe regie o alleate nel corso della guerra, al campo di S. Martino. 5°) I presidii repubblicani non usciranno dai castelli sino a che non saranno pronte a salpare le navi per coloro che avranno eletto di partire. 6°) L’arcivescovo di Salerno, il conte Micheroux, il conte Dillon e il vescovo di Avellino resteranno ostaggi nel forte di Castel S. Elmo sino a che non giunga in Napoli nuova certa dell’arrivo in Tolone delle navi che avranno trasportato i presidii repubblicani. I prigionieri della parte del Re e gli ostaggi tenuti nei forti andranno liberi dopo firmata la presente capitolazione”. “Inoltre il Cardinale Ruffo scriveva ad Ettore Carafa, conte di Ruvo, nell’invitarlo a cedere le fortezze di Pescara e di Civitella alle stesse condizioni della capitolazione dei castelli: “volere il Re perdonare i falli della ribellione, e che finissero le persecuzioni” e con pubblico bando, emanato a nome del Re, dichiarò finita la guerra” (Serrao de’ Gregorj, pp. 237-8).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • D. Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • F. Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I