La Repubblica Napoletana. 12-31 luglio 1799. La lunga serie delle esecuzioni (impiccagioni e decapitazioni). E’ chiusa l’Università. Grande potenza sociale della Chiesa. S. Antonio sostituisce S. Gennaro come patrono

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 30° puntata. 12–31 luglio 1799. “Comincia la lunga serie delle esecuzioni (impiccagioni e decapitazioni). Viene chiusa l’Università. La parabola del card. Ruffo. Ancora sul tradimento delle Capitolazioni. E’ grande la potenza sociale della Chiesa. S. Antonio sostituisce S. Gennaro come patrono di Napoli”.

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

Gennaro Cucciniello

12 Luglio. Venerdì. Napoli. La resa di Castel Sant’Elmo. “Alle ore 14 con salva Reale (fatta dai vascelli e dai castelli, e sulle alture le scariche delle fucilate accompagnavano, anzi come tiravano a palla fischiavano sui lastrici) si è innalzato lo stendardo regio sul castello di S. Elmo. L’allegria per la città è stata indicibile, e le campane tutte hanno fatto eco alla publica letizia col fuoco festoso a gloria. Tutta la gente è concorsa a vedere la guarnigione francese prigioniera di guerra. S.M. è ancora a bordo, e si trattiene qualche altro giorno. Veramente a considerarsi, si tratta che ha dovuto conquistare Napoli di mano ai suoi stessi sudditi che glielo hanno contrastato puol dirsi palmo a palmo, cosa che non avrei mai creduto, perché non credevo così estesa la peste del giacobinismo (…) Ora che siamo quietati nella città, dobbiamo pregare Iddio che ci liberi da altro flagello, cioè dalla peste, atteso la quantità dei cadaveri. Mi vien detto che avendo il cav. Venuti voluto aprire la casa della Porcellana, accanto a San Carlo, dovette chiuderla per il gran fetore che ne usciva. La guarnigione è calata da S. Elmo in mezzo a due cordoni di soldati Inglesi, si è trovata esser composta di 1400 uomini, e pure si credeva di poche centinaia. Andava senz’armi, senza tamburro, e senza bandiera; colle sole mucciglie nelle quali non li è stato permesso di portare che quattro camicie per ogni uffiziale, due per ogni soldato, ed i commestibili saranno visitati nell’imbarcarsi. I patriotti sono rimasti in S. Elmo, e si deciderà del loro destino. Il celebre Pagliuchella è stato arrestato ed esposto alla berlina, ligato ai ferri d’un balcone sopra il Ritiro di Mondragone, colla mitra in testa, il popolo che vi è concorso è stato immenso. Lo spettacolo della calata dei Francesi è stato anco allegrissimo vedendosi la publica esaltazione che fa testimonianza del fedele attaccamento di questa popolazione alla Religione ed al Re. Calavano scortati dalla milizia Inglese, che marciava colla banda e tamburro avanti, ed in mezzo portavano i Francesi alla rinfusa” (De Nicola, pp. 292-3).

 13 Luglio. Sabato. Napoli. Impiccati nella piazza del Mercato Nicolò Carlomagno e il frate francescano Belloni. L’avvocato Carlomagno, (38 anni), aveva fatto parte durante la rivoluzione della Municipalità provvisoria e presieduto il Comitato di Polizia Municipale. “Carlomagno, montato già sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: “Popolo stupido! Tu godi adesso della mia morte. Verrà un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue già si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la fortuna di non esser vivi, sul capo de’ vostri figli” (Cuoco, p. 205).

Viene chiusa l’Università. “Con un dispaccio è chiusa l’Università e proibito ai professori di congregare ivi la gioventù”.

Il re torna a Palermo per la festa di S. Rosalia. “Mi è stato detto ch’oggi parte il Re per Palermo, per vedere la festa di S. Rosalia” (Marinelli, p. 10).

Una stroncatura per la monarchia. “Tutti gli avvenimenti della grande tragedia del ’99 sono dominati dalla nullità d’un Re infingardo e crudele, dalla ferocia d’una Regina nevrastenica e vendicativa, dall’intrigo d’un avventuriero britannico, divenuto ministro napolitano, e dalla viltà d’una corte, che all’avvicinarsi dei Francesi abbandona la Reggia ed il popolo, creando un tale stato di cose che un cambiamento di governo è ineluttabile. Ed ecco la repubblica; che, dopo breve e travagliata vita vissuta sotto la protezione ed oppressione francese, per l’opera d’un grande porporato senza scrupoli, pel tradimento di un soldato francese e per l’ignoranza d’una plebe superstiziosa viene abbattuta. Ed ecco il ripristino della monarchia, col trionfo della reazione, che, avida di vendette, per la prepotenza ed infamia d’un grande ammiraglio inglese, viola i patti della capitolazione, ed inalza i patiboli, sui quali lasciano la vita centinaia di onesti ed illustri cittadini, solo colpevoli d’avere desiderato la libertà, amato la patria e sperato in una società migliore” (Serrao, p. 301).

14 Luglio. Domenica. La parabola del cardinale Ruffo. “Fu essenzialmente un uomo d’azione indomito e d’animo pronto; un misto di male e di bene. Fu eminentemente pratico, razionale in ogni manifestazione della vita, avendo saputo servirsi dei mezzi ch’ebbe a sua disposizione, qualunque essi fossero. Certo non ebbe scrupoli, pur di raggiungere gli scopi che si prefiggeva; né si può negare che, specialmente per essere un cardinale, fu spesso anche molto crudele. In complesso fu rappresentato peggio di quello che fu in realtà: molte crudeltà commesse dalle sue masse ( e noi sappiamo di che gente esse fossero formate) furono a lui attribuite. Certo le uccisioni, i saccheggi, gli incendi di Cotrone e d’Altamura, se non voluti certamente tollerati dal cardinale, non possono essere giustificati, ma non sono più gravi di quelli d’Andria, di S. Severo e di Trani commessi dai suoi avversari, francesi e liberali. Il Ruffo permise, e forse qualche volta ordinò alcune crudeltà, quando però credette ch’esse, pel timore che incutevano nelle popolazioni o per la soddisfazione che davano alle sue masse, giovassero alla sua causa; ma non tollerò o per lo meno cercò frenare quelle inutili o che non avessero uno scopo immediato di guerra. In ogni modo fu uomo di forte carattere e di volontà eccezionale: dell’uno e dell’altra diede prova in tutta la sua vita, e specialmente nella riconquista del regno, fatta per mezzo di masse ignoranti, fanatiche e spesso disoneste, ch’egli seppe riunire, ordinare e sufficientemente disciplinare, e ch’egli, non uomo di guerra, condusse alla vittoria. Conobbe gli uomini e l’anima delle masse; e seppe sfruttare le passioni degli uni e gli istinti delle altre. Assolutamente poi non avrebbe voluto la violazione delle capitolazioni, che fu la causa per cui i più illustri cittadini del regno finirono sul patibolo o nelle carceri: negli avvenimenti gravi e tumultuosi, che seguirono alla caduta delle repubblica partenopea, non gli mancò la volontà di serbare fede ai patti giurati; ma solo in ultimo non ebbe il coraggio o la costanza di continuare a lottare contro il Re, la Regina, Nelson, Acton e gli Hamilton, divenuti a lui contrari e collegati nel volere vendette e repressioni senza alcuna misura. L’essere caduto in disgrazia della corte napoletana, che fu la corte della viltà e delle perfidie, mostra come il cardinale, pur non essendo riuscito ad opporsi all’opera nefasta d’essa, non vi abbia aderito nelle questioni principali; certo non fu cieco strumento della cattiva regina. Ad impresa compiuta, Ruffo, motteggiato dall’Acton per la sua moderazione e bontà, gli rispose: “Con questo sistema, signor generale, colla mia prudenza e buona condotta, umanità e religione, ho recuperato il Reame di Napoli” (Serrao, 306-7).

15 Luglio. Lunedì. Ancora sul Ruffo e sui problemi posti dal tradimento delle Capitolazioni. “Il Ruffo, col sentimento che lo tormentava, con in mente la chiara diagnosi che aveva fatta della situazione, stretto dalla necessità di porre freno alle masse da lui condotte e alla plebe napoletana che a queste si era unita ammazzando, rapinando e tripudiando, pensoso dei pericoli della resistenza che i repubblicani ancora opponevano nei castelli e di qualche ardita irruzione che di là facevano contro i suoi avamposti, pensoso altresì di un intervento nel golfo di Napoli della flotta gallo-ispana, nella quale i repubblicani avevano confinato l’ultima loro speranza, concesse, contro le intenzioni a lui note dei sovrani, ma col consenso e il concorso dei comandanti dei contingenti alleati, inglese russo e turco, una capitolazione ai repubblicani, che loro assicurava l’incolumità, la vita civile e la protezione delle leggi. Ma il Nelson, sopravvenuto con la flotta inglese e coi superstiti vascelli della napoletana e regia, e col quale il Ruffo entrò subito in dissidio e conflitto, dopo aver prima finto di piegarsi al fatto compiuto e aver lasciato porre in esecuzione i patti della capitolazione, dichiarò nulla la capitolazione stessa e diè inizio alle disegnate e caldeggiate vendette. E’ comprovato anche che il Nelson ciò fece di suo capo, unanime coi sovrani di Napoli, infervorato in questa unanimità da una donna poco stimabile che lo aveva legato a sé e lo annodava a quelli; ignari i suoi superiori militari, ignaro il governo inglese, con riprovazione e scandalo del suo subordinato che aveva approvato, sottoscritto e garantito in Napoli la capitolazione, il Foote, il quale più tardi stese in Inghilterra un pubblico atto d’accusa contro il comportamento di lui e con questo aperse una polemica, continuata per un secolo. Per istruzione e ammonimento di coloro che con poco buon gusto sogliono ancor oggi rinnovarla in Italia, rivolgendola contro la patria stessa del Nelson, mi restringo a trascrivere il giudizio che intorno ad essa si legge, con riferimento al caso di Francesco Caracciolo, nell’ultima edizione (la XIV, del 1929) della Encyklopaedia Britannica: “The whole trial and execution were indefensible, alike on the grounds of legality and naval usage, and are to be ascrive to personal spite on the part of Queen Maria Carolina working through the influence of Lady Hamilton over Nelson” (vol. IV, p. 826). “L’intero processo ed esecuzione non si possono difendere né con ragioni di legalità né con gli usi navali, e sono da attribuire a personale vendetta da parte della regina Maria Carolina, che si valse a suo strumento dell’influenza che Lady Hamilton esercitava sul Nelson” (Croce, pp. XI-XII).

Insubordinazioni e delitti. “Verso sera gli Fucilieri acquartierati a Chiaia han preso briga con un loro ufficiale, spacciandolo per Giacobino, e mezzo strascinandolo lo volevano condurre a bordo del Re; ma giunti nella Marinella lo hanno fucilato e brugiato. Questa notte vi è stato allarme nella credenza ch’i Giacobini calavano da S. Martino verso la Madonna delle Grazie e Madonna Addolorata. Fu una falsa voce. L’ufficiale dei fucilieri brugiato era di casato Guido, caro al re” (Marinelli, p. 11).

16 Luglio. Martedì. Napoli. Il re Ferdinando “prigioniero” del Nelson. “Nelson, unico autore dell’infrazione del trattato, quell’istesso Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai, partendo o ritornando, ebbe mai la minima cura dell’onor di lui: giacché, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti. Tutti gl’infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti pesti, intrisi di povere e di sangue, spirando quasi l’ultimo respiro. Non s’intese mai da lui una sola parola di pietà. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d’infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell’acqua, per gli insetti, sotto la più ardente canicola, nell’ardente clima di Napoli. Egli avea degli infelici ai ferri finanche nel suo legno” (Cuoco, p. 194).

18 Luglio. Giovedì. Evviva Santa Fede. “Verremo invitati a un Te Deum in onore del cardinale Fabrizio Ruffo, condottiero delle orde della Santa Fede? Si celebrerà una messa solenne in ricordo dei lazzari che, in nome della Chiesa e del Borbone, sconfissero nel sangue i rivoluzionari del 1799? Non mancano, in questo senso, sintomi allarmanti. L’iniziativa assunta dal presidente della Camera, Irene Pivetti, di riabilitare i controrivoluzionari della Vandea, può essere soltanto un primo passo verso una generale revisione storica. Come escludere che la tappa successiva sia, appunto, la Napoli di due secoli fa? Fra i due eventi la somiglianza s’impone a prima vista. Per averne una riprova ragionata ne abbiamo parlato con Giuseppe Galasso. “L’analogia fra i due episodi, a dispetto delle ovvie differenze, è perfetta”, dice Galasso. “L’elemento unificante è la rivelazione dell’enorme potenza sociale della Chiesa. Nei fatti vandeani esordì quella realtà che durante tutto l’Ottocento sarebbe stata volta a volta esecrata o esaltata: l’alleanza tra il Trono e l’Altare. Superstizione, tradizionalismo, confessionalismo: nella rivolta sanfedista la spinta ideologica sarà praticamente la stessa. In Vandea i contadini si erano organizzati in bande, sotto la guida di nobili e popolari, con il clero a far da suggeritore. Un analogo cemento religioso ed ecclesiastico terrà insieme l’armata del cardinale Ruffo”. Chi era Fabrizio Ruffo? “Uno dei tanti cadetti di famiglia nobile che abbracciavano la carriera ecclesiastica. Tesoriere della Santa Sede, era vstato allontanato dall’incarico per l’eccessiva durezza del carattere. Fu probabilmente per questo che re Ferdinando IV, dal suo temporaneo esilio di Palermo, affidò proprio a lui l’incarico di promuovere agitazioni antifrancesi nel Regno, col disegno finale di sconfiggere la Repubblica giacobina di Napoli. Mai immaginando un successo così pieno e rapido. Ruffo intraprese una marcia trionfale che in quattro mesi lo portò a Napoli”. Da Napoli, intanto, i francesi erano partiti lasciando i patrioti giacobini soli a difendere la loro Repubblica. “Essi si trovarono, infatti, a dover combattere su vari fronti. Le orde della Santa Fede. La flotta inglese che, al largo del Golfo, attuava uno spietato blocco navale. Nell’Italia centrale era sceso, intanto, un esercito austro-russo. E poi c’era la plebe napoletana, che si sollevò contro i giacobini così come aveva fatto in gennaio, quando con pari accanimento tentò di difendere il regno dall’invasione dei francesi del generale Championnet”. Nel suo celebre saggio storico Vincenzo Cuoco definì quella napoletana una rivoluzione “passiva”. Pensata in alto, non sentita dal paese. “Lo stesso Cuoco vedeva il regno borbonico composto da due nazioni, separate fra loro da due secoli di civiltà e da due gradi di latitudine. I capi giacobini credevano che il popolo con il quale avevano a che fare fosse simile a quello che animò la Grande Révolution. Cuoco correggeva amaramente questa visione: i patrioti del Novantanove somigliavano, sì, ai loro omologhi di Parigi. Ma il paese che li circondava non corrispondeva al modello francese. Rifletteva una realtà arretrata di due secoli. Più che passiva, quella napoletana la definirei perciò una rivoluzione imitata”. “Chi tene pane e vino – ha da esse giacobino”, si recitava fra i seguaci di fra’ Diavolo, il brigante devoto a Sua Maestà che mise a dura prova i francesi. Un ritornello assai espressivo di un rancore popolare, anti-elitario. “Un simile risentimento senza dubbio esisteva. Un canto popolare fiorito nel ’99 e rivolto al re, suonava così: “Signò, ‘mpennimmo chi t’ha traduto – muonece, prievete e cavaliere”. Impicchiamo i traditori: monaci, preti e cavalieri. I monaci e i preti erano quelli (una minoranza) che avevano simpatizzato per la Repubblica. I cavalieri erano i patrizi e i borghesi colti. Ad Eleonora Pimentel Fonseca, la giornalista patriota che verrà giustiziata nei giorni della repressione, venne dedicata una canzoncina: “’A signora Donna Lionora – ca cantava ‘ncoppa a ‘o triato – mo’ abballa mmiezo ‘o mercato”. Per intenderci: donna Eleonora, che teneva comizi politici in teatro, ora ondeggia appesa ad una forca, in piazza Mercato. Ma torniamo all’armata di Fabrizio Ruffo. Di quali tipi umani si componeva? “Il nucleo centrale era formato da bande di briganti provenienti da ogni angolo del Regno. Poi c’erano i contadini, inquadrati da nobili e da borghesi di provincia”. A questa gente Cuoco attribuisce “barbarie che fan fremere”. Accenna a roghi “ove si cuocevano le membra degli infelici”. Nel suo saggio sul 1799 Croce a un certo punto definisce l’accaduto “una scena dantesca di Malebolge”. “Le descrizioni di parte democratica sono impressionanti. Riferiscono casi di cannibalismo che lasciano perplessi. Certo, il furore degli armati del Cardinale, unito a quello della plebe, produsse crudeltà, scempi e saccheggi senza nome. Alla base, c’era una motivazione politica assai grave. Fabrizio Ruffo aveva stipulato con i patrioti un atto di capitolazione: deposte le armi, essi avrebbero potuto raggiungere la Francia o addirittura restare tranquilli a Napoli. Ma un contrordine di Ferdinando IV infranse i patti. L’ammiraglio Nelson, dal canto suo, contribuì validamente al disconoscimento della capitolazione. Ne nacquero mesi di orrori repressivi”. Se ne ricordano le vittime illustri, i patrioti giustiziati: da Francesco Caracciolo a Domenico Cirillo, da Vincenzio Russo a Mario Pagano, da Carafa a Serra di Cassano. “ Questi rei di Stato erano tutti laicisti convinti” (intervista di Nello Ajello a Giuseppe Galasso, la Repubblica, 25 agosto 1994).

19 Luglio. Venerdì. Ischia. E’ giustiziato Giuseppe Schipani, 41 anni. Calabrese, già ufficiale dell’esercito borbonico, aveva partecipato alle congiure giacobine ed era stato in carcere fino al giugno del 1798. Nella Repubblica era stato comandante della Guardia nazionale della Calabria Ultra, generale della Legione Bruzia e presidente del Consiglio di guerra. Fallita, dopo la sconfitta di Castelluccia, la sua missione contro gli insorgenti di Calabria, aveva combattuto nella difesa della città di Napoli fino al 14 giugno.

E’ giustiziato Agamennone Spanò, 43 anni. Ufficiale dell’esercito borbonico, aveva aderito alla Repubblica e nominato il 18 febbraio giudice della Commissione militare inappellabile e il 25 febbraio comandante generale della Guardia nazionale di Napoli. Aveva combattuto contro le truppe del Ruffo ed era stato ferito in maggio nelle gole di Monteforte Irpino.

Napoli. Comincia la vendetta dei sovrani sui Serra di Cassano. “Oggi vi fu gran partenza di truppa. Sono state mandate in Vicaria e nella penitenza la principessa di Popoli Montemiletto e la Principessa di Cassano Serra, ambidue sorelle e belle dame, come ree di Stato, e poi ambidue furono esiliate” (Marinelli, p. 11).

20 Luglio. Sabato. Napoli. E’ impiccato in piazza del Mercato Andrea Vitaliani, 34 anni. Fratello di Vincenzo Vitaliani, condannato a morte e impiccato nel 1794. Costretto all’esilio dalla repressione della Giunta di Stato, era diventato ufficiale della legazione francese a Genova. Era tornato a Napoli con lo Championnet. Membro del Comitato di polizia della municipalità provvisoria. “Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la chitarra; continuò a suonarla ed a cantare finché venne l’ora di avviarsi al suo destino. Uscendo dalle carceri, disse al custode: “Ti raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu potresti esser infelice un giorno al pari di loro” (Cuoco, p. 205). I fratelli Antonio e Nicola furono condannati all’esilio.

23 Luglio. Martedì. Ischia. E’ impiccato Pasquale Battistessa, 30 anni. Durante la Repubblica era stato commissario ordinatore per il Cilento e si era battuto valorosamente contro il Ruffo. Nonostante avesse capitolato nel castello di Baia con la promessa di aver salva la vita, viene giustiziato. “Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma già da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli abiti repubblicani ai municipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. “Egli è furbo” –diceva Speziale- “è bene che muoia”. Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest’ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: “Scannatelo”, egli rispose” (Cuoco, p. 191).

24 Luglio. Mercoledì. Napoli. La Corte borbonica sceglie giudici siciliani contando anche sull’avversione assai forte contro i giuristi napoletani. “Questa mattina hanno preso possesso in Sacro Consiglio due consiglieri siciliani, uno, mi si dice, di cognome Sambuti, l’altro Damiani. Costoro vengono come consiglieri ordinari con l’incarico della Giunta di Stato. Sarebbe cosa rincrescente pel foro napoletano se i soggetti per coprire le cariche vacanti di consiglieri si facessero venire dalla Sicilia” (De Nicola, p. 255).

27 Luglio. Sabato. Napoli. “Questa mattina han preso possesso in S. C. il consigliere d. Angelo de Fiore calabrese, il siciliano d. Vincenzo Speciale e il napolitano d. Michele de Curtis, già governatore di Caserta. Nel dispaccio di Speciale si diceva creato consigliere, ma doversi unicamente occupare della Giunta di Stato, riserbandosi S. M. destinarlo ad altro posto: così mi si dice che era il dispaccio di Fiore e fu quello degli altri due siciliani” (De Nicola, p. 259).

Capua. “Oggi è cessato il fuoco e si è capitolato” (Marinelli, p. 86).

29 Luglio. Lunedì. Napoli. “Prima di pranzo sono passati per la strada di Foria, gli Francesi in mezzo agli Inglesi per andarsi ad imbarcare, ch’erano quei che presidiavano Capua. Molti di essi francesi erano quasi ignudi, alcuni scalzi, e tutti disarmati. Così si è resa Capua dopo pochi giorni di stretto assedio. Con tutto che essi Francesi andassero sotto la scorta degli Inglesi, non lasciarono i Lazzari e Santafedisti d’insultarli, deriderli, e se potevano, maltrattarli. Essi fremevano inutilmente. Regnava ancora la ferocia nella plebe, il massacro ed il saccheggio” (Marinelli, p. 86).

Il Cardinale Ruffo è nominato luogotenente generale.

30 Luglio. Martedì. Napoli. Continuano gli arresti di Giacobini. “Questa mattina son passati per la strada di Foria i pretesi rei di Stato, detti Giacobini, che si erano trovati in Capua. Maltrattati camminavano a piedi Galantuomini, Preti, Vescovi, e di altro ceto. Sebbene per tempo pure ricevevano infiniti maltrattamenti dal Popolo. In questa giornata altri rei di Stato son stati arrestati, e tra gli altri, il celebre D. Pasquale Baffi. E’ stato arrestato D. Antonio Sementini, buon medico napoletano” (Marinelli, p. 86).

31 Luglio. Mercoledì. Resa di Gaeta.

Napoli. “Anche questa mattina son passati altri Giacobini della resa di Capua, e tra essi vi erano tre religiosi, ed altri ecclesiastici. Si vuole che in Napoli si forma una Reggenza, che governa in luogo del Re” (Marinelli, 86).

“Cedé, poco appresso, la fortezza di Capua, indi Gaeta. Le condizioni furono le medesime di Santelmo, lo scandalo minore; avvegnaché non erano tra le file francesi, o si nascosero i malaugurati soggetti del re delle due Sicilie. Imbarcarono i Francesi; e sopra tutte le rocche sventolava la bandiera de’ Borboni; comandava il regno, luogotenente del re, il cardinal Ruffo; le città, le terre, i magistrati gli obbedivano. Tutto dunque cessò della Repubblica, fuorché, a maggior supplicio degli animi liberi, la memoria di lei, e lo spavento dei presenti tiranni” (Colletta, p. 365).

S. Antonio sostituisce S. Gennaro come patrono di Napoli. “E’ noto che il cardinal Ruffo mise le sue schiere sotto la protezione di un altro dei patroni di Napoli, S. Antonio da Padova. Il Ruffo fece spargere la voce che per opera di S. Antonio i lazzari erano stati salvati dalla strage che di essi preparavano i patrioti, i quali volevano ucciderli tutti, salvo i bambini, che avrebbero allevati senza religione. E fece eseguire un quadro e molte incisioni ritraenti S. Antonio con un mazzo di corde in mano, ch’erano le corde che si dicevano preparate dai giacobini per impiccare i lazzari. S. Antonio appare anche in tutte le stampe borboniche di quel tempo che figurano l’entrata del re, la resa di S. Elmo, etc. A lui sono dirette un’infinità di poesie stampate in libercoli e fogli volanti, e in suo onore fu fatta, tra il luglio e l’agosto, una gran festa, durata per tre giorni” (Croce, “La rivoluzione del ’99..”, p. 95).

La conferma del diarista. “Ieri sera cominciò un triduo di lumi a S. Antonio con anfiteatro fatto al largo di S. Lorenzo e che tira fino ai Gerolomini da un lato, fino a Sedile di Montagna dall’altro; è accompagnata quell’illuminazione dai lumi ai balconi e finestre di tutta la strada, e banda di musica in mezzo al largo. Quest’oggi è cominciato il vespro e questa mattina si è fatta girare la statua del santo scortata da guarnigione di realisti: i quali hanno preso il pennacchio verde e bianco; fra essi si contavano otto monaci che procedevano armati di sciabola, ma coll’abito della loro religione: seguiva la banda con una pattuglia dello stesso corpo” (De Nicola, ibidem, nota).

 Nota bibliografica

  • P. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  •  B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  •  B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  •  G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  •  V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  •  Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  •  A. Fiordelisi, “I giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
  •  Diomede Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998
  •  F. Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I