Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Seconda puntata. 25 dicembre 1798-15 gennaio 1799. “La convivenza di tre Anarchie. Si vagheggia una repubblica aristocratica”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Seconda puntata. 25 dicembre 1798 – 15 gennaio 1799. “La convivenza di tre Anarchie. Si vagheggia una repubblica aristocratica”. 

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti” (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose e processi che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

25 dicembre. Martedì. Napoli. Nuova riunione della “Città” per organizzare una milizia cittadina e predisporre la creazione di una “deputazione del Buon governo”. Il Vicario Pignatelli respinge la richiesta della “Città” di creare una milizia urbana. In compenso, la nuova amministrazione “fece aprire di suo ordine le cacce del sovrano già partito” (Cuoco, p. 85).

La convivenza di tre Anarchie. “Napoli, abbandonata a se stessa, con un Vicario che non sapeva ancora quali fossero i limiti esatti del suo potere, con una nobiltà che vedeva nella fuga del re l’occasione per sostituire al governo accentratore un governo più propizio agli antichi suoi privilegi, inizia a vivere il periodo che i cronisti contemporanei chiamano (con parola che assume volta a volta significati diversi ed opposti) dell’anarchia. Anarchia aristocratica, nel corso della quale l’amministrazione nobiliare della “Città” lotta contro il Vicario per esautorarlo e sostituirsi a lui. Anarchia monarchica, in cui il Vicario del re cerca per quanto gli è possibile di salvare il salvabile, anche a costo di firmare un armistizio coi nemici. Anarchia popolare, durante la quale il popolo cerca affannosamente di far udire la propria voce: ma nessuno è in grado di ascoltarla e, quel che più conta, di capirla” (M. Battaglini, pp. 15-16). “Non si trattava solo di ambizione di nobili, gelosi di privilegi e avidi di comando, ma di preoccupazione di gente ricca che temeva eventuali bombardamenti e saccheggi. Le questioni sulla durata della guerra e sul modo di trattare la pace stavano troppo a cuore a quella gente, perché essa ne lasciasse arbitro il vicario Pignatelli. Quando questi rimproverò i magistrati cittadini di usurpare i poteri del re e di usare un “linguaggio repubblicano”, il principe di Colubrano gli rispose “che il linguaggio era di colui che aveva roba da perdere, e che non voleva essere trascinato per Napoli dal popolo”. Il Corpo di “Città” pertanto aveva un’autorità morale, che gli derivava da antichi privilegi e dal prestigio personale di alcuni degli Eletti, e rappresentava ora, in seguito all’aggregazione dei 14 deputati borghesi, larga parte della popolazione, disponeva di una milizia, si trovava perciò nelle migliori condizioni per fronteggiare l’azione del Vicario. Ebbero gli Eletti un programma politico? Al ritorno del Re, essi saranno sottoposti a processo, sotto l’accusa di fellonia, “per aver voluto formare una repubblica aristocratica”. Assolti per insufficienza di prove, saranno tuttavia alcuni di essi condannati per avere usurpato poteri di spettanza del Vicario. In verità essi non avevano né animo né mente capaci di concepire e attuare una rivoluzione politica” (Rodolico, pp. 96-7).

26 dicembre. Mercoledì. Il re e la sua famiglia arrivano a Palermo.

27 dicembre. Palermo. La regina Maria Carolina in una lettera al marchese Del Gallo racconta: “Nous descendimes ce malheureux escalier. Je tremblais comme une feuille (…) Dans l’horreur de l’obscurité avec six enfants, ma belle-fille et un enfant à la mammelle, nous arrivames à bord transis de froid et moi de douleur. On passa cette prémière nuit à terre, sans lumière, feu, souper ni lit” (Sani, p. 12).

28 dicembre. Venerdì. Napoli. Vengono incendiati i vascelli e le cannoniere che la famiglia reale, a causa della fuga troppo precipitosa, non aveva potuto trasportare con sé in Sicilia e che erano rimasti alla fonda nel golfo. “Così parve che il popolo napolitano vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del suo destino”  (V. Cuoco, p. 78).

30 dicembre. Domenica. Napoli. Il Vicario Pignatelli autorizza la formazione della guardia urbana e della deputazione del Buon Governo. “Gli Eletti della Città (sei nobili e un borghese), cui si erano aggregati il 24 dicembre quattordici deputati “civili”, insistono col Pignatelli e col Mack per una pace sollecita, sia pure vergognosa, col nemico. Mack rifiuta. Gli Eletti si preoccupano per il controllo dei Castelli” (De Nicola, p. 99).

Gaeta. L’ala destra dell’armata francese, guidata dai generali Championnet e Mac Donald attacca la fortezza. “Dopo il tiro di due-tre granate francesi si arrende la fortezza di Gaeta (bene armata, con quattromila soldati)” (P. Colletta).

31 dicembre. Lunedì. Napoli. E’ minata l’autorità del Vicario Pignatelli. Il Vicario Pignatelli e il generale Mack tengono un Consiglio di guerra per decidere la tregua. Lettera di Mack al generale Championnet per chiedere l’armistizio: risposta negativa del comandante francese. “Ma ormai la base morale dell’autorità del Vicario era assai debole: la fuga del Re aveva scemato il prestigio della monarchia presso la nobiltà malcontenta e presso il medio ceto di “paglietti” e di galantuomini; il disfacimento dell’esercito toglieva al Vicario la forza per imporre la sua autorità; le pretese di governo da parte della magistratura cittadina accrebbero le sue difficoltà. Nel processo contro gli Eletti un testimone così deporrà: “Il Pignatelli diceva che gli Eletti erano una massa di bricconi, e che il Re era tradito dai più beneficati. Un giorno quelli dissero che la Città di Napoli mai aveva fatto guerra contro il conquistatore, ma sempre si era arresa con sostenere i diritti della medesima. Al che rispose il generale Pignatelli, ributtando tutti li punti che li medesimi assicuravano e con voce alta disse: Questo è un parlare rivoluzionario, vi credevo fedeli vassalli del Re, e non lo siete”. E in altra discussione il Pignatelli: “Io vi casso a tutti quanti siete, vi fo carcerare. Ho castelli e mannaie”. E replicando gli Eletti dissero che la “Città” si voleva fare repubblica” (Rodolico, p. 95).

1 gennaio. Martedì. Napoli. Sembra che la “Città” voglia costituirsi in repubblica aristocratica. Proseguono le trattative per l’armistizio. “Il Governo non ha basi ferme, né buone intenzioni, essendo tutto contrario tra di loro, e l’uno dubitando dell’altro, godendo tutti la diffidenza del pubblico. La “Città” confusa e tremante non sapeva scegliere che partito prendere. Gli dispiaceva la democrazia, applaudiva l’aristocrazia, ma era incerta dell’uno e dell’altro esito” (Marinelli, 21).

In Abruzzo le armate francesi, guidate da Duhesme, danno vita alla Repubblica Abruzzese. “Il nuovo organismo, dotato di istituzioni autonome coordinate tra loro dal Consiglio Supremo con sede a Pescara e destinato a diventare una frangia della futura Repubblica Napoletana, costituirà di fatto una struttura statuale autonoma delle cui vicende a Napoli si saprà sempre ben poco. Nella regione i conflitti tra i francesi e le masse contadine assumono subito caratteri particolarmente duri” (Sani, pp. 35-36).

2 gennaio. Mercoledì. L’Aquila. “Erano fuggiti, impauriti dall’arrivo delle truppe francesi, il governatore, il vescovo, il tesoriere. Il popolo, raccolto a parlamento nella chiesa di S. Massimo, delibera di costituire “una massa”. In ogni Comune se ne costituirono. I capi erano quasi tutti “don” (Coppa-Zuccari, p. 56).

L’armata francese arriva a Capua e a Venafro.

Napoli. “Il Pignatelli ha mandato a chiamare i capi del popolo, gli ha detto che per niente si movessero, perché occorrendo si sarebbe messo alla loro testa per marciare. Avrebbe detto: “Figli miei, non dubitate, perché quando sarà tempo mi metterò alla vostra testa, e i Francesi, per Dio, qui non entreranno!” (De Nicola).

Un inserto romanzesco. Carcere della Vicaria. Eleonora Pimentel Fonseca è qui imprigionata. “La carceriera continua a tacere. Eleonora decide di regalarle ancora, quella bisbiglia: “Donna Liono’, si preparano li guai. Lo re è fujuto a Paliermo, la regina pure. Ma ha dato ordine d’appiccià tutta Napoli. Stanno venendo li Frangise. Per mo’ hanno bruciato le navi nel porto. Dicono che li Giacobbe, e pure li lazzarune, vogliono pigliare li castielle”. “Pure la Vicarìa?”. “Pure la Vicarìa. Stasera li surdate vengono a fa’ guardia a li ccelle” (Striano, 281).

3 gennaio. Giovedì. Napoli. La “Città” decreta la costituzione di una “Guardia Civica”.

7 gennaio. Lunedì. Trattative tra il Duca del Gesso, il Principe di Migliano e Championnet per l’armistizio.

9 gennaio. Mercoledì. “Il generale Duhesme ha lasciato Sulmona. Poche insurrezioni sono state così formidabili. Quando questi Napoletani formano plotoni regolari, sono nulli; armati in banditi, fanatici, essi diventano terribili” (gen. Thiébault). “Insuperabili combattenti individuali per forza coraggio ferocia e tenacia, i più temibili d’Europa nelle guerriglie, sebbene i più facili a smarrirsi come truppe regolari” (Johnston-Croce).

10 gennaio. Giovedì. Sparanise (Caserta). L’armistizio viene firmato dai rappresentanti del Vicario Pignatelli e da Arcambal per i francesi. In realtà entrambi i firmatari non erano autorizzati a farlo: Pignatelli, al quale il re non aveva dato questo potere; Championnet, perché in Francia la legge attribuiva al solo Direttorio il diritto di trattare e firmare atti internazionali.

11 gennaio. Venerdì. Napoli. Il Vicario Pignatelli informa “la Città” della firma dell’armistizio. Il popolo, inquieto, comincia a mobilitarsi.

La città di Capua è consegnata ai francesi.

12 gennaio. Sabato. Napoli. Il Vicario Pignatelli chiede ai napoletani di pagare due milioni e mezzo di ducati ai francesi. L’acuto ed amaro giudizio del Cuoco.“Il popolo lesse affisso per la città l’armistizio conchiuso tra il generale francese e il vicario Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto del regno che giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino all’imboccatura dell’Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di franchi. Non mai vicario alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi; la prudenza gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da nuove inutili sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi era neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il re erasi messo in mano degli inglesi lo metteva nella dura necessità di perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia” (Cuoco, p. 79).

“Vivere allegro di nobili e civili per la speranza del vicino accomodamento coi francesi; giacobinismo troppo sfacciato e tronfio” (Marinelli, p. 103). Quelli che il Marinelli definiva col termine di “giacobinismo”, ossia l’opinione pubblica e i circoli fautori del rinnovamento rivoluzionario, apparivano allora all’esterno ancora come un mondo compatto, indistinto, tutto unito nello sforzo di sovversione dell’antico regime.

 Una provocazione: il nemico era alle porte e nel mercato scarseggiava la farina”. (Marinelli, ibidem). “Non si trattava di uno dei soliti inasprimenti di prezzo, dovuti ad ingorda speculazione, vigile sempre e pronta, ma era effetto dell’impossibilità di macinare tutto il grano occorrente per il consumo. I Francesi avevano occupato il territorio bagnato dal Regi Lagni. Occupare la foce del Lagni significava affamare la capitale. Si combinano in quella pressoché tutte le correnti di acqua, che vi giungono, e potendosi colà in un tratto troncarne il corso per intero, questa rimane priva di acque destinate ad animare la macina dei mulini” (Rodolico, p. 103).

“La voce dell’occupazione di Capua ha posto il popolo in allarme; cosicché si è cominciata la gente quieta a chiudere in casa; e quei del Mercato, Lavinaio e d’altri luoghi popolosi della città si sono riuniti in truppa e posti in imboscata nei contorni di Capodichino” (De Nicola). La mobilitazione popolare comincia dunque, ed in modo spontaneo, la sera del 12, senza alcun saccheggio.

13 gennaio. Domenica. Napoli. Arrivano i commissari francesi per riscuotere la prima rata del contributo.

I lazzari disarmano i soldati al ponte della Maddalena. “La sera, all’Annunziata, la milizia civile fu sopraffatta; il 14 i lazzari di Conciaria disarmavano i soldati, il popolo si rifornì di armi. In tutta questa rivolta non si è fatta alcuna violenza né commesso eccessi contro beni e persone; c’è il timore di essere sacrificati ai francesi senza difesa” (De Nicola).

14 gennaio. Lunedì. Napoli. “Questa mattina si è sospeso il Tribunale a causa del rumore fatto dai carcerati l’altro ieri, volendo sforzare le carceri ed uscirsene, gridando, per quanto si dice: viva Francia, viva l’Assemblea. La milizia urbana fece fuoco, ed i carcerati corrisposero da dentro con colpi di piccoli pistoncini e cannoncini. Questa mattina dunque il Tribunale è stato chiuso, per essersi cacciati i carcerati e trasportati a Sant’Elmo” (De Nicola, p. 26). Il Vicario Pignatelli ordina di scarcerare un centinaio di “rei di Stato” del 1794 (colpevoli di una congiura giacobina repressa nel sangue) dalle carceri della Vicaria: tra di essi ci sono Nicola Fasulo, Eleonora De Fonseca Pimentel e Cesare Paribelli, futuri protagonisti della Repubblica.

Il popolo, con l’aiuto dei soldati stessi, s’impadronì dei castelli; aprì le carceri, gettando nella città circa seimila malfattori. Sembra che ci fosse lo zampino anche di alcuni patrioti, per liberare alcuni dei loro”. “Frati e preti con abiti sacri, nelle piazze e nelle chiese accendevano con la parola, chiamata di Dio, il furore civile. Vista la Casa dei Borboni fuggita, il vicario cacciato e il Senato della città dettar leggi senza il nome del re, essi andavano tra la plebe suscitando gli antichi affetti; rammentavano il detto della regina: ”solamente il popolo esser fedele, tutti i gentiluomini del regno giacobini”; spargevano quindi sospetti sopra Moliterno, Roccaromana, gli Eletti, i nobili; consigliavano tumulti, spoglio di case ed eccidi. Così rideste le sopite furie, i popolani, la vegnente notte, atterrate le forche erette nelle piazze come ammonimento, sconoscendo l’autorità di Roccaromana e di Moliterno, crearono capi due del popolo, nominati, uno il Paggio, piccolo mercatante di farina, l’altro il Pazzo, cognome datogli per giovanili sfrontatezze, servo di vinaio, entrambi audaci e dissoluti ” (P. Colletta, p. 287).

“Erano giunti nel porto e sbarcavano i reggimenti borbonici che al comando dei generali Damas e Naselli erano stati mandati a Livorno al principio della spedizione per Roma. I soldati si lasciarono facilmente disarmare, alcuni di essi fecero causa comune col popolo, altri si dispersero per la città, contenti della libertà ottenuta e della possibilità di pescare nel torbido” (Rodolico, p. 104).

Forza, Lenòr, coraggio”. Bisogna correre per le strade intorno la Vicarìa, nel tumulto che ribolle. Le gambe disavvezze non reggono, l’aria aperta le fa girare il capo. Gennaro Serra e Manthoné la trascinano. “Dobbiamo far presto. Napoli è in mano ai lazzari”. Gli occhi storditi colgono immagini allucinate. Lazzari armati di fucili, piroccole, spadoni, con chepì dell’esercito, giberne, spalline d’oro legate ai camiciotti. Nuovo grido risuona: “Viva la Santa Fede!”. All’angolo di Santa Caterina è necessario fermarsi: lazzari armati di fucili, in compagnia di soldati fuggitivi, preti protervi, sorvegliano la strada, bloccando, nella folla, le persone sospette. Li comandano un lazzaro scalzo, con giamberga corta, berretto a calza bianco, ed un torvo ufficiale sbottonato, senza tricorno né parrucca. “Marena’, addo’ jammo?”. Lei si sente svenire, chiude gli occhi. Sente la voce di Gennaro, dapprima velata di incertezza, poi disperatamente forte, decisa. Meu Deus, fa’ che il suo napoletano non appaia forzato. “Fujmmo, capita’. Aggio juto a piglia’ moglièrema dint’a la Vicarìa”. Ufficiale e lazzaro la osservano. E’ pallidissima, respira appena, appesa alle braccia di Gennaro e Manthonè. “Pare ca mo’ more” osserva il lazzaro. Strilla: “Menie’! ‘No sorso d’acqua”. Un ragazzo con tricorno militare reca una giarretta di coccio. “Falla vèvere, marena’” raccomanda il lazzaro, con sincera preoccupazione. “Accossì se ripiglia. Addo’ è arriva’?”. “Ncoppa a li Quartiere”. “Cèveze! E chesta la fai muri’ pe’ la via. Fèrmate e falla arriposa’”. L’ufficiale è più sospettoso. Sta scrutando Gennaro da parecchio, infine chiede: “Dove stavi imbarcato, marena’?”. La voce di Gennaro ha un tremito. “Ncoppa a lo “Sannito”, capita’. Hanno appicciato la nave, mo’ vado pe’ terra”. “E moglierete perché stava nella Vicarìa?”. “Contrabbando e mariulizio, capita’. Ccà, si non te muovi, te puzzi da la santa famme” (Striano, pp. 282-3). “Gennaro Serra di Cassano e Manthonè trascinano Eleonora Pimentel per strade allucinate, nel fumo. Molte botteghe mostrano segni di saccheggio: sui muri denudati chiazze degli stigli rimossi, spruzzi di salsa, d’olio, in terra acre pestume d’olive, salamoia, sugna. Tutti i palazzi sono chiusi ma alcuni mostrano avanzi d’usci carbonizzati: il fuoco ha annerito portali, stemmi, i grandi spegni torcia dalle gole aperte. In terra resti dell’”arricchimento”: carte, fiocchi di bambagia, scrigni, cipria, in vari punti dei morti. Accoltellati, bruciati, teste rotte. Sui gradoni del Conte di Mola un mucchio, coperto a malapena con una mantella grigia: ne affiorano scarpini alla moda in pelle bianca e, da un cespo di merletti, la mano rattrappita d’un uomo. E cadaveri di bottegai, cocchieri, lazzari. Uno, al cantone di Baglivo Uries, mezzo nudo, tagliato dal collo alla pancia. I veri padroni di tutto paiono i ragazzi. A migliaia, scalzi, agghindati in fogge straordinarie, spingono carrettini carichi di masserizie, vettovaglie, s’arrampicano sulle pennate per ficcarsi dentro le finestre, spaccano vetri a sassate. Mangiano, bevono da enormi bottiglioni, cantano, scavalcano i morti, li spogliano, s’inseguono. Per Toledo vapora curioso schiamazzare, diverso da quello variopinto e cordiale d’ogni giorno. E’ un berciare cupo, stizzito, forse fastidioso a quelli stessi che lo producono. Se ne sfogano con subitanei scatti d’isteria. Un gruppo punta pistole e fucili contro il cielo, contro un lenzuolo, un balconcino, e spara, una salva dopo l’altra, fra urla di solitudine rabbiosa. “Viva la Santa Fede. Viva lo re”. Le chiese spalancate. Sui gradini di S. Ferdinando ride felice il parroco, cotta ricamata, ostensorio. Lo agita. Un gruppo di lazzari si ferma. Mettono ginocchio in terra, cavano i berretti, il prete benedice” (Striano, 284-5).

15 gennaio. Martedì. Napoli. “Perché il Vicario volle frappor del tempo tra la cessione e il possesso della città, e lasciar libero lo sfogo all’odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo frenare? Volea la guerra civile, l’anarchia? Tali erano gli ordini della regina? Il popolo si credette tradito dal Vicario, dalla “Città”, dai generali, dai soldati, da tutti” (Cuoco, p. 80). “La prima luce palesò i nuovi pericoli che subito si avverarono, imperciocché torme numerose di lazzari andarono contro i francesi; altre sguernivano delle artiglierie i castelli e gli arsenali; ed altre più feroci correvano la città rubando e uccidendo” (Colletta, p. 287) . “Durante la giornata il popolo aprì le carceri, gettando nella città circa seimila malfattori. La colpa di quel deplorevole atto non fu tutta del popolo, ma anche di alcuni patrioti; essi per liberare dalle prigioni alcuni dei loro, si travestirono da lazzari, e istigarono il popolo ad accrescere le loro forze con tanti bravi plebei che languivano nelle catene, vittime della tirannia reale e dei ministri” (Rodolico, p. 105).

“La mossa del popolo si è sempre più accresciuta. Si sono impossessati di tutte le castella, hanno forzata la darsena e l’arsenale, donde hanno estratte le armi per armarsi. Si son vedute le colonne popolari con bandiera spiegata e tamburro battente, gridare per le piazze: viva il Re. Sacerdoti con crocefisso, circondati dal popolo, giravano sedando. Si dice che abbiano chiesto al principe di Moliterno di mettersi alla loro testa per marciare contro i francesi. Per la città si sono chiuse tutte le botteghe e i palazzi delle case, le sole botteghe di commestibili stanno aperte, perché i popolari le hanno assicurato di non temere. In tutta questa rivolta non si è inteso essersi fatta alcuna violenza, né commesso alcuno eccesso contro i beni e le persone; tutto l’orgasmo è nato dal timore di non essere sacrificati ai francesi senza difesa, dubitando dell’armistizio” (De Nicola, p. 27).

 Sì che un servo della nobile casa Filomarino, accusando in mercato i suoi padroni, mena i lazzari nel palagio, ed incatena nelle proprie stanze il duca della Torre, e il fratello Clemente, quegli noto per poetico ingegno, questi per matematiche dottrine; la casa, ricca di arredi, è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l’edifizio bruciava, i due miseri prigioni, trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioia di popolo spietato e feroce. Altre stragi seguirono; si sciolse atterrito il Senato della città; gli onesti si ripararono nelle case; non si udiva voce se non plebea, né comando se non di plebe” (Colletta, 287). “La notte scorsa il popolo, avendo inteso che si aspettavano i Francesi al Teatro, si è armato ed è andato girando la città, arrestando le carrozze per vedere se contenessero quelli; il Teatro si è chiuso, e tutta la città è stata in agitazione (De Nicola, p. 26).

La capitale del Regno era ormai in preda all’anarchia e all’insurrezione di un popolo che si vedeva abbandonato dal re e dal suo Vicario di fronte all’avanzata di un esercito che la propaganda monarchica e clericale da anni descriveva come mostruoso e crudele. “I patrioti giacobini, ricostituitisi attorno al Comitato Centrale riunito presso la casa di Fasulo, prendono contatto con Championnet e con gli esuli al seguito delle armate francesi (Lauberg, Russo, Baffi, Vitaliani e Francesco Pignatelli di Strongoli). Ma proprio quando l’ingresso dei francesi a Napoli sembra ormai cosa fatta e ineluttabile, ecco scatenarsi l’orgoglio popolare dei lazzari, protagonisti solitari di una violentissima reazione contro tutti: nobili, francesi e patrioti” (Sani, pp. 13-14).

Ssst!, fanno tutti. Hanno ragione, Lauberg sta spiegando che bisogna creare un Comitato rivoluzionario, con molteplici compiti. Primo: impedire, fino alla venuta dei Francesi, la formazione d’un governo composto dai nobili dei Seggi, i quali offrirebbero la corona a un Borbone di Spagna, o vorrebbero una repubblica aristocratica. Secondo: prender contatto col generale Championnet, invitarlo a trattar bene la popolazione, per non screditare la Repubblica nascente. Terzo: compiere qualche azione armata, affinché non appaia che Napoli sia stata liberata soltanto dai Francesi. Quarto: preparare una bozza di Costituzione. Quinto: progettare e realizzare gli organi di stampa e propaganda della repubblica. Sesto: definire le linee politiche. Problemi da chiarire: il rapporto coi Francesi, quello coi lazzari, con le province, con soldati e ufficiali dell’ex-esercito dell’ex-re. Lauberg sembra stia per terminare. Salta su Delfico, esclamando: “E settimo, ma primo per importanza! L’economia della Repubblica! Bisogna immediatamente stabilire dove e come trovare le risorse per far vivere lo Stato repubblicano! Cittadini, per favore, restiamo coi piedi per terra”. “Va bene” annuisce Lauberg, un po’ mortificato. “Settimo: la questione economica” (Striano, p. 289). –Striano è stato impreciso: Delfico, nominato poi tra i 25 del Governo Provvisorio, non riuscirà mai ad arrivare a Napoli dall’Abruzzo, ndr-

“L’esercito francese si avvicinava. La tradizione familiare dei Serra di Cassano custodisce la memoria di un solenne giuramento, nel grande Salone degli Specchi del palazzo del Monte di Dio, fatto dai Serra e da altri giacobini, tra cui Ettore Carafa. Tutti avrebbero dato la vita pur di restituire Napoli alla libertà” (P. Gargano, p. 15).

L’iniziativa autonoma del generale Championnet spiazza il Direttorio. “Il Direttorio che governava la Francia fu preso alla sprovvista dall’annuncio delle vittorie contro i Borboni e dall’avanzata delle sue armate nel Regno. Non si voleva creare nel Napoletano una repubblica autonoma ma solo occupare il territorio per trarne quante più ricchezze fosse stato possibile (…) Championnet, di poco più anziano di Napoleone, trovatosi a capo delle armate nell’Italia centro-meridionale, volle imitare il còrso e credette possibile porre il Direttorio di fronte al fatto compiuto: approfittando dell’insipienza dei borbonici, conquistare l’Italia del sud e creare in quella zona una repubblica che garantisse la continuità con quelle organizzate al nord e al centro dell’Italia. Il primo urto tra lui e il commissario Faypoult (“i commissari presso le armate” erano stati creati all’epoca della Convenzione e dovevano fissare la linea politica delle operazioni) avvenne proprio in questo campo: la Francia voleva trarre da Napoli soprattutto denaro; creando una repubblica autonoma, Championnet rese se non impossibile certo più difficoltosa la confisca” (Battaglini, pp. 26-27).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
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