Cronologia della repubblica giacobina napoletana. Tredicesima puntata. 21-28 marzo 1799. “La Repubblica non ha un programma politico preciso e unitario. Ruffo saccheggia crudelmente Crotone. Le stragi di Pasqua in Puglia”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Tredicesima puntata. 21-28 marzo 1799. “Le divisioni tra i patrioti repubblicani. Si avverte la mancanza di un programma politico preciso e unitario. Il cardinale Ruffo prende e saccheggia crudelmente Crotone. Il ministro francese Talleyrand umilia la Delegazione napoletana. Le stragi di Pasqua in Puglia”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

21 Marzo. Giovedì. Napoli. “Le funzioni sacre del corrente giovedì Santo si sono fatte con la solita solennità, ma con niuna pompa, ed i Santi Sepolcri non hanno avuto manco la terza parte del solito splendore, anzi la maggior parte delle Chiese non hanno manco parato l’altare, essendosi contentate di mettere il monumento nudo sull’altare con lumi anche scarsi e niente più. La Chiesa di Donna Regina, solita a fare grande macchina, non ha fatto che piccola macchinetta con poca cera. Per le strade grande concorso di pennacchi civici ed uniformi d’ogni specie, poche si possono dire le persone che vestono senza distintivo” (De Nicola, p. 106).

22 Marzo. Venerdì. Napoli. “Le sacre funzioni hanno seguitato a farsi con quiete, soltanto ieri quanto oggi si son affrettate, e chiuse le chiese più per tempo di quello che per l’addietro solevasi. Grande moto vi è nel Provisorio: vi si era formato un partito che volevano comporre il Direttorio e mandare gli altri a spasso. Si era risoluta la mutazione di tutti quattro o cinque ministri, cioè, Conforti, Mastellone, Arcambal, Rotondo e Fasulo; ma si è anco sospesa. Si aspetta però che venga il commissario Saliceti con due altri per organizzare il Politico di Napoli. Staremo a vedere (…) La grande cabala di taluni del Provisorio che vorrebbero erigersi in despoti, ha per primo mobile il celebre Carlo Laubert, secondato da Bisceglia, Rotunno, Parimbelli, e qualche altro, ed è bilanciata dal partito dei buoni Republicani, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Forges Davanzati, e qualche altro. Questi si cooperarono col Direttorio perché di là vengano disposizioni, e stanno formando un partito di Guardia Civica dei sentimenti medesimi per bilanciare la potenza del partito d’opposizione. Entra di mezzo a questi due partiti, un terzo che ne stanno formando tre aristocratici, Luigi Medici, Colobrano ex principe, S. Angelo ex principe. Questi aspirano a mettersi alla testa degli affari, e formare un governo aristocratico, vi è però chi gli veglia. Povera mia patria, chi sa quando si vedrà tranquilla” (De Nicola, pp. 106-7).

L’analisi storica ci consente di inquadrare meglio e di capire la situazione dei patrioti napoletani, andando al di là dello sguardo cronachistico. Riporto una prima valutazione. “Il De Nicola in un celebre e discusso brano distingue tra i “giacobini” tre gruppi. Il primo (che oggi potremmo dire dei radicali) lo indica col nome dei “despoti” e ne designa i rappresentanti in Lauberg, Bisceglia, Rotundo e Paribelli. Rappresentano invece il centro moderato quelli che egli chiama “i buoni repubblicani”: Pagano, Ciaja, Davanzati. Da ultimo stanno gli aristocratici: Medici, Carafa duca di Colubrano e Imperiali principe di S. Angelo. Di fronte a questo frazionamento può essere corretta l’identificazione unitaria fatta da Benedetto Croce dei giacobini napoletani con la minoranza intellettuale della popolazione. Non si può infatti non tener conto del fatto, ad esempio, che il Lauberg si era formato politicamente, dopo una brevissima esperienza napoletana, in Francia; che il Paribelli era, addirittura, di Sondrio, anche se poi aveva fatto la sua esperienza politica unicamente nel Napoletano. Ma comunque emerge chiara una conclusione: manca nei giacobini napoletani del ’99 un programma politico preciso. E’ forse più esatto dire che attraverso discussioni e compromessi i promotori della nuova repubblica cercano soltanto di mantenere in vita e rinsaldare il governo provvisorio. Solo Lauberg era il vero giacobino napoletano, almeno nel senso che egli solo visse veramente, in Francia, l’esperienza giacobina. Il tentativo di rinnovare a Napoli quella politica lo pose in contrasto netto con i moderati, specie nell’aspra battaglia per l’abolizione della feudalità e, successivamente, nella formazione del governo imposto da Abrial. E veniamo ai “giacobini aristocratici”: la presenza di Medici (reggente della Vicaria, che all’epoca della scoperta della congiura del 1794 condannò a morte i primi martiri napoletani), insieme con quella del principe di Colubrano, che era stato uno dei protagonisti del tentativo di instaurare, subito dopo la fuga del re, una repubblica aristocratica, non lascia luogo a dubbi. Siamo di fronte a un gruppo la cui dottrina asseriva: “L’aristocrazia, la madre delle generose azioni e dell’eroismo, è dunque tanto essenziale alla monarchia moderata che senza aristocrazia non può sussistere monarchico reggimento…”. Chiarite così le posizioni estreme, rimane da ricordare la posizione dei “buoni repubblicani”. E’ questa la definizione più difficile perché anche costoro non sono affatto un gruppo omogeneo e non di tutti possiamo individuare con esattezza il pensiero politico. Si va infatti dall’astrattezza di Pagano che, senza ascoltare le voci di coloro che chiedevano piccole cose, ma concrete e reali, elabora una delle più complesse Costituzioni dell’Italia giacobina, alle istanze sociali che affiorano nelle poesie di Ciaja e nei pensieri del Russo, per giungere fino all’umanitarismo del Cirillo, all’intransigenza di Manthoné e al giansenismo del Conforti. Questi moderati sono aiutati dai francesi che (dopo l’eliminazione di Lauberg, e di Championnet, che sulle orme di Bonaparte minacciava di esautorare il Direttorio) in questo periodo con Abrial e MacDonald sostengono una linea dichiaratamente moderata” (Battaglini, pp. 20-2).

E c’è una seconda valutazione. “Da subito si era cominciato a discutere la legge per l’abolizione della feudalità. Se questa legge (come quella sui fedecommessi) fosse stata emanata subito in termini chiari e radicali e se fosse stata applicata, o per lo meno solennemente proclamata nelle province, nei giorni stessi nei quali veniva in esse instaurato il regime repubblicano, cioè nella prima metà di febbraio, forse il fenomeno dell’insorgenza sarebbe stato troncato e le masse contadine avrebbero potuto essere attratte alla rivoluzione e alla Repubblica. Ma questo non avvenne, perché la legge sulla feudalità, proposta nel primo governo provvisorio in una prima redazione da Giuseppe Albanese il 19 febbraio, fu approvata definitivamente solo il 25 aprile, dopo la venuta dell’Abrial, quando ormai era troppo tardi per guadagnare alla Repubblica le masse contadine insorte. La discussione della legge determinò una divisione tra i patrioti. Infatti, mentre tutti erano d’accordo sull’abolizione senza indennizzo dei diritti personali, implicanti servitù di persone  e di lavoro, due correnti si formarono sul problema dei diritti reali, cioè riguardo al possesso dei demani feudali e quindi riguardo alle prestazioni a questi connesse, come le decime e il terratico. Alcuni membri del Provvisorio (Albanese, Cestari, Lauberg, Paribelli) sostenevano che tutti i demani feudali dovevano spettare alla nazione ( e quindi ai comuni), senza indennizzo per i baroni: i feudi, secondo loro, erano il risultato di usurpazioni, quindi contro i baroni valeva il principio: “adversus fures aeterna auctoritas” (contro i ladri l’eterna autorità dello Stato); inoltre affermavano che sarebbe stato pericoloso per la Repubblica dare ai baroni una potenza economica e quindi politica, come quella che avrebbero ottenuto da una legge che si fosse limitata a svincolare i feudi dall’adoa e dalla devoluzione al sovrano trasformandoli in semplici proprietà allodiali. Altri invece, come il Pagano, sostenevano che, siccome i feudi erano vendibili, tutti quei baroni che avessero potuto dimostrare di aver comperato i loro feudi dovevano essere considerati possessori in buona fede; perciò proponevano di sospendere per un certo periodo la corresponsione ai baroni di ogni prestazione e di nominare una commissione, dinanzi alla quale i baroni, entro tre mesi, avrebbero dovuto dimostrare la legittimità dei loro possessi feudali; dopo di che i beni legittimamente riconosciuti ai baroni sarebbero stati sciolti da ogni vincolo e sarebbero divenuti allodiali, soggetti soltanto alle imposizioni ordinarie; infine, in cambio della rinunzia della Nazione ad ogni diritto di devoluzione, i baroni avrebbero dovuto pagare un compenso in danaro o in terre. Con questo sistema, che avrebbe determinato certamente numerosissime contestazioni e sarebbe stato di lunga e difficile applicazione, probabilmente moltissimi baroni sarebbero divenuti pieni proprietari dei loro feudi. Questa tesi moderata non riuscì a prevalere, poiché la legge poi approvata in aprile sarà relativamente radicale: essa infatti abolirà ogni istituzione e diritto feudale, assegnerà ai comuni i demani feudali e stabilirà che “le altre terre per l’innanzi dette feudali, e gli edifici posseduti dagli ex baroni restavano loro liberi, siccome ogni altra proprietà allodiale di qualunque cittadino”. Ma in pratica, poiché questa legge fu approvata quando ormai era troppo tardi e la Repubblica si avviava alla sua tragica fine, l’eversione della feudalità allora non fu attuata. Si può quindi affermare che gli scrupoli dei moderati e più ancora la resistenza dei baroni, che influirono sul MacDonald, perché rimandasse la sanzione della legge, impedirono che la Repubblica napoletana compisse questa fondamentale riforma. Questo fatto del resto derivava dal carattere del movimento patriottico di Napoli, nel quale gli spunti giacobini, tipici di un certo numero di esuli, non riuscirono a prevalere, ma furono anzi subito annullati, nel breve periodo di governo del movimento stesso, un po’ dall’influenza dei francesi e un po’ dalle suggestioni della stessa base sociale, borghese-terriera ed aristocratica, del gruppo dirigente della Repubblica napoletana” (Candeloro, pp. 258-60).  

Crotone (Calabria). Presa e saccheggiata dal card. Ruffo.Cotrone, città debolmente chiusa, con piccola cittadella sul mare Jonio, era difesa da’ cittadini e da soli trentadue francesi, che venendo d’Egitto si erano là riparati dalla tempesta; ma comunque animoso il presidio, scarso di armi, di munizioni e di vettovaglie, assalito da molte migliaia di Borboniani, dopo le prime resistenze dimandò patti di resa, rifiutati dal cardinale, che, non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. Cosicché, dopo alcune ore di combattimento ineguale, perché da una parte piccolo stuolo e sconfortato, dall’altra numero immenso e preda ricca e certa, Cotrone fu debellata con strage dei cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite. Durò lo scompiglio due giorni; e nella mattina che seguì, alzato nel campo altare magnifico e Croce ornata, dopo la messa che un prete, guerriero della Santa Fede, celebrò, il cardinale, vestito riccamente di porpora, lodò le gesta dei due giorni scorsi, assolvé le colpe nel calore della pugna commesse, e col braccio in alto disegnando la Croce benedisse le schiere. Dipoi, lasciato presidio nella cittadella, ed a’ dispersi abitanti (avanzi miseri della strage) nessun governo e non altre regole che la memoria e lo spavento dei patiti disastri, si partì per Catanzaro, altra città di parte francese” (ma Catanzaro è già caduta l’8 marzo per tradimento, ndr) (Colletta, pp. 325-6).

Barletta (Puglia). “Non si è fatta la processione votiva e per la mancanza della cera, stante Andria assediata, e per non esporla all’irrisione e scostumatezza della truppa. Per lo stesso motivo non si è fatta la processione della Croce questa sera” (Scipione Elefante, in Pedio, p. 383).

23 marzo. Sabato. Napoli. “Il suono delle campane e lo sparo dei mortaretti ha rallegrato la città questa mattina, il basso popolo specialmente ha mostrata dell’allegrezza. La scarsezza è stata grande ne’ generi di animali vaccini e pecorini, per cui è mancata la carne, né si è veduto quell’apparato che negli anni precedenti indicava l’abbondanza della nostra città, anco il sale si è veduto scarso. L’assisa della carne si aspettava altissima, ma poi è uscita a grana 19, prezzo che non si puol dire caro, attesa la mancanza degli animali vaccini, tra pel gran consumo fattone dall’esercito, e tra per essere intercettato il commercio tra la capitale e le provincie. Un esempio di democrazia diretta. Questa mattina si sono presentati al Provisorio alcuni cittadini ed hanno fatta passare l’ambasciata in nome di una deputazione di 8m. patriotti. Alla risposta che il Provisorio era occupato in serii affari, hanno essi fatto strepito, dicendo: che quello pel quale essi venivano era l’affare più serio che meritasse l’occupazione del Governo; sono stati così introdotti. Fattosi innanzi, ha preso uno di essi la parola, ed ha detto, molto meravigliarsi come il Provisorio al sentire una deputazione di 8m. cittadini avesse fatto rispondere essere in altro occupato, e come si negasse udienza a chiunque de’ cittadini si presentasse per affari della Repubblica. Il rappresentante Pagano ha immediatamente ripigliato: “Cittadini, è stata mal intesa l’ambasciata vostra fattaci innanzi, e parlate con libertà”. A questa scusa ha cominciato il suo discorso il deputato dicendo: che erano là essi a chiedere al Provisorio che si togliessero dal Governo alcuni dei membri che lo componevano. Pagano ha subito soggiunto: Bravi cittadini dite pure, e dite con franchezza, e se avete motivi di querela contro di me spiegateli pure, che io son pronto a calare da questo luogo. Animati così, ha esposto la deputazione che la loro querela per ora era contro Nicola Fasulo, Prosdocimo Rotondo, e Giuseppe Paribelli, i quali non meritavano sedere nel Provisorio, e malversavano le rendite e l’amministrazione della Repubblica, che aversi i processi di tali imputazioni, e consigliavano quei cittadini a dimettersi volontariamente dal Governo, se non volevano subire la pena che la loro condotta avea meritata. Pagano ha risposto che avessero posto in carta la loro domanda e presentata al Generale. Il deputato ha replicato essere pronti a farlo, ma facevano sapere al Provvisorio, ch’essi non volevano essere menati in parola, e che dal Generale e dal Provisorio aspettavano che si dasse sfogo alla loro domanda, in caso contrario essere già pronta la deputazione per Parigi, ch’essi avevano giurato non solo l’avversione al Tiranno, ma a chiunque si spiegasse oppressore della patria, e che a costo del loro sangue avrebbero sostenuto un tanto impegno” (De Nicola, pp. 108-9). –Rotondo stampò in sua difesa una “Rimostranza al publico”, ndr-

Avigliano (Basilicata). “Nel Sabato Santo si ritiravano da Napoli D. Girolamo Gagliardi e D. Girolamo Vaccaro, portando con loro il fuorgiudicato D. Vaccaro Michelangelo, vestito all’uso francese colla coppola in testa. Nel Vespro di Pasqua della Resurrezione, stando radunati nella Chiesa Matrice la maggior parte degli uomini e donne Aviglianesi, salirono sul pulpito il Padre Tommaso Gagliardi e l’anzidetto D. Michelangelo Vaccaro, facendo un dopo l’altro due prediche per confermare maggiormente gli animi dei cittadini verso il Governo Rivoluzionario. Gli promisero che la mattina seguente sarebbero andati loro di persona a donargli il possesso di tutte le difese appartenenti al Principe Doria e, difatti, nel primo giorno dopo Pasqua si unirono in piazza circa 600 cittadini, armati di schioppi, accette, zappe e pali di legni. Andiedero in tutte le Difese baronali di Montemarcone, Montalto, Ischia, le Padule ed altre, commettendo gli stessi devastamenti della difesa denominata S. Angelo e nel castello di Lagopesole, oltre i maltrattamenti inferiti a quell’Erario, Magn. Francesco Sarra, ruppero l’impresa che stava sul portone di detto Castello e si presero molta roba appartenente all’Erario. Di questa maniera, siccome li repubblicani fecero vedere di mandare in effetto la loro promessa, così il popolo Aviglianese non gli fu mica ingrato, per essersi in tutto e per tutto determinato voler sostenere la democrazia” (Pedio, pp. 763-4).

Una borghesia frastagliata e divisa. “Nelle province solo alcune municipalità riuscirono a sostenersi più a lungo, là dove, come in Basilicata, le invasioni di terre che seguirono quasi ovunque l’instaurazione della Repubblica, vennero favorite anziché represse. Altrove, la divergenza di obiettivi tra “giacobini” e masse contadine, e il peso dell’occupazione militare col suo strascico di confische e requisizioni, portarono all’aperta rivolta anche quei settori della popolazione che avevano inizialmente accolto il mutamento di regime con un atteggiamento di attesa più o meno fiduciosa. Molto più eversivi dovevano apparire ai contadini i provvedimenti presi dal card. Ruffo, che finanziavano la controrivoluzione col sequestro di quei beni feudali che le leggi repubblicane non riuscirono ad intaccare. Il paternalismo regio che in questo modo il Ruffo contrapponeva alla politica giacobina poté fondarsi inoltre sul ruolo decisivo svolto nella propaganda e nell’azione controrivoluzionaria dalla Chiesa, che recuperava anzi una nuova posizione rispetto al potere regio, passando dalla posizione “di protetta a quella di protettrice del regime” (Galasso). Ma proprio per la gravità dei problemi che si trovò ad affrontare, la Repubblica portò “all’acceleramento e al compimento del processo di maturazione della borghesia terriera e provinciale che, scossa violentemente dall’insurrezione contadina, fu costretta a riflettere sui mezzi migliori di difendere i propri interessi minacciati dalla controrivoluzione popolare e dall’incerta azione del governo restaurato nei primi anni dell’Ottocento. La borghesia meridionale acquistò allora quella coscienza di classe che ancora le mancava e la cui assenza aveva contribuito a determinare il fallimento dell’esperimento repubblicano” (Villani). L’insegnamento più drammatico che emerse da questa sua prima grande esperienza politica fu infatti quello dell’enorme divario, come avrebbe scritto Cuoco, fra i “due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima” in cui si divideva la nazione napoletana. Su questa nuova consapevolezza di un problema che non era peraltro stato assente nella riflessione settecentesca, maturarono una coscienza politica, ed un’articolazione del dibattito politico, moderni” (Rao, pp. 138-9).

Andria (Puglia). “In questo fatale giorno fu la città assalita da poderoso esercito di francesi e patriotti, ai quali se ne fece valida resistenza colla morte di quasi tremila di essi nemici, e poiché non si poté più resistere pel numero molto esteso dei medesimi, miseramente fu la città per ogni dove invasa in guisa che soffrì saccheggio, incendio e stragi e venne finalmente soggiogata essendosi per opera di quei barbari usurpatori piantato l’infame, chimerico albore della libertà” (dalla relazione del sindaco, 18 marzo 1800, in Pedio, p. 392).

Barletta. “I francesi hanno assalito Andria e, dopo la resistenza di tre ore, si dice per tradimento d’uno dei dipendenti della casa del Duca, fu aperta la porta e scalata da tre parti, precise dalla Legione Carafa. Si è dato il sacco, massacrata la gente ed incendiata. Non hanno mancato gli Andresani di molto coraggio, e tuttoché la città fosse stata assalita e presa, per tutta volta come passavano i francesi sbandati, erano fucilati dalle finestre, coverti di acqua bollente, malmenati col fuoco vivo che loro si gettava addosso. La gente ausiliaria ed insorti di altri paesi, vedute le cose a mal partito, se ne fuggirono. Degli Andresani ne sono morti non pochi, ma dei francesi assai più. La direttissima pioggia ha impedito il progresso delle fiamme. Nell’invasione e presa di questa Città non vi è stato quartiere per nessuno; sinanco le monache saccheggiate e violate (…) Arrivati i soldati francesi a Barletta hanno cominciato a vender subito le robe saccheggiate, consistenti in oro, argento, vestimenti, biancheria ed altro, osservandosi un disprezzo per i vasi sacri, vedendosi bevere nelle bettole il vino nei Calici e nelle Pisside. Delle reliquie dei Santi non se ne fa conto, e tra quelle si è dispersa la Sacra Spina di N.S. Gesù Cristo ed il cranio di S. Riccardo, che era nella statua d’argento del santo. Orrendo pure a vedersi addosso d’un soldato l’abito riccamente ricamato d’oro della Madonna Santissima del Carmine per ripararsi dalla pioggia e andarlo vendendo” (Pedio, pp. 384-5).

Bosco del Saccione (Abruzzo). “In questa guerra Francesi e Patrioti consideravano i combattenti delle masse quali briganti, fuori da ogni legge; gli altri consideravano i Francesi nemici di Dio, del Re e del loro paese. Gli orrori di saccheggi, d’incendi, di massacri fatti dai Francesi non sono meno terribili degli orrori commessi dalle masse. Il 23 marzo duecento arrestati erano deportati dal territorio di Chieti a Napoli per essere processati. Troppo lunga la via con quell’impaccio per le milizie francesi: quei duecento furono qui massacrati” (Rodolico, p. 58).

Il ministro francese Talleyrand umilia la Delegazione napoletana. Parigi. “La Deputazione della Repubblica Napoletana, arrivata nella capitale francese, il giorno prima aveva dato avviso al Talleyrand, ministro degli affari esteri, del suo arrivo, pregandolo di fissare il giorno in cui avrebbe potuto presentare le credenziali. Il 23, il Talleyrand la invitò a passare da lui di mattina; e, andata, le disse di tornare alle ore tre per sentire la risposta del Direttorio. E alle tre la risposta, che essa trovò, fu questa: “Il Direttorio francese ringrazia la Repubblica napoletana; ma non crede di dovere ricevere per ora la sua Deputazione, non essendo essa repubblica ancora tranquilla. Vi dice che torniate subito a Napoli, essendo voi persone di cui la vostra nazione ha bisogno e fa alto conto, prova ne sia che vi ha mandato qui. Vi fa sapere, inoltre, che a Napoli c’è un Commissario civile del Direttorio, al quale potrete comunicare i vostri sentimenti”. I Deputati, sbalorditi, chiesero il passaporto per un corriere, che intendevano spedire al governo della Repubblica napoletana al fine di comunicarle la risposta del Direttorio; ma il Talleyrand rifiutò, e ribattette che avrebbe mandato i passaporti per tutti i componenti della Deputazione, e che fossero subito partiti. Chi desiderasse conoscere il dietro scena dell’insuccesso, ossia le ragioni di quel trattamento indecoroso, troverebbe probabilmente qualche lume nella corrispondenza che il generale MacDonald teneva col ministro della Guerra e col Direttorio; ma già la menzione del Commissario civile, in bocca del Talleyrand, è più che sufficiente per spiegare tutto” (Croce, “La rivoluzione del ’99”, 316-7).

24 Marzo. Domenica di Pasqua. Molfetta (Puglia). “I gruppi sociali nelle Puglie alla fine del ‘700 erano nella loro composizione e distribuzione alquanto diversi che nelle altre regioni: qui eravi una borghesia, formata da negozianti di derrate agrarie (l’olio era una ricca risorsa economica), da proprietari di depositi e di navi mercantili. I massari, fittavoli di tenute e piccoli proprietari di terreni a coltura intensiva, che facevano coltivare da lavoranti a giornata, costituivano un ceto abbastanza agiato, vicino e spesso fuso con quello dei galantuomini. Nelle città costiere era sviluppato un artigianato dovuto alle industrie agrarie e alle navali; e tra gli artigiani erano numerosi i carpentieri ed i bottai. Nei tumulti popolari costoro propendono più verso i galantuomini che non verso il popolo minuto. Nel “Diario” del Berarducci è detto: “Dal popolaccio si dava il nome di giacobini a tutta la gente colta; agli ecclesiastici di ambo i ceti (regolare e secolare) e per lo più agli artieri”. Accennando a Molfetta lo stesso cronista dice dell’arresto che in questo giorno si voleva fare da parte del popolo dei galantuomini “e degli artieri come sospetti di giacobinismo” (Rodolico, pp. 208-9).

Barletta. “Si è pieno l’Ospedale di molti feriti francesi e, per mancanza di luogo, si è ridotto a tale il Monistero dei Padri Celestini, togliendosi letti alle monache e monaci con la biancheria, coverte, camicie e pannolini per sfilaccie pe’ feriti e mali acquistati nel commercio con le meretrici. Ieri sera per ordine del Generale Broussier s’illuminò la città per la presa di Andria. Si è celebrata molto male la Santa Pasqua!” (Pedio, p. 385).

Mileto (Calabria). La città è occupata dal card. Ruffo.

25 Marzo. Lunedì in Albis. Napoli. Viene pubblicata la legge abolitiva dei feudi.

Rivista militare in città dell’esercito francese e della Guardia Nazionale.

Molfetta (Puglia). All’alba si svolge un’assemblea per decidere se arrendersi ai Francesi. Tumulti e disordini per tutta la giornata.

Barletta. “Questa sera per le lagnanze del Generale ed Ufficiali si è dovuto dare un festino nella Galleria De Leone, come la più grande, ad ogni ceto di persone. Allo stesso sono intervenuti il Generale e tutti gli Ufficiali con le loro mogli, nobili, civili, Notai, Speziali, Medici, Chirurgi, pratici con le loro mogli. Numerosa Orchestra, tra i sonatori alcuni delle bande militari. Si è ballato molto e molti complimenti di dolci, biscotti e rosoli. Gli Ufficiali si lagnavano che non si vedeva dell’aristocrazia. Ci sono stati molti tavolini di gioco d’azzardo, bassetta, commercio etc. Molti hanno gustato questo festino a guisa di medicina eterogenea all’uso antico. Che tempi!! Tutto è mischiato col timore e col terrore” (Pedio, p. 385).

26 Marzo. Martedì. Napoli. “Il Monitore” riporta la notizia della prossima pubblicazione della Costituzione.

I generi di prima necessità, a riserba del solo pane, vanno carissimi e la carne vaccina manca giornalmente. Siamo esposti di rimanere affamati essendo chiuso il commercio interno ed intercettato l’esterno” (De Nicola, p. 111).

Ruvo (Puglia). “Dopo la disgrazia della Città di Andria, in questa Pubblica Piazza nuovamente con solennità fu eretto l’albore della libertà, ed indi il giorno 15 del mese di Maggio parimenti col concorso dell’intera popolazione fu svelto e bruggiato” (Pedio, p. 426).

Palermo. Il Re scrive al card. Ruffo: “solo mi rincresce la troppa dolcezza che usate verso coloro che si sono resi ribelli, e più particolarmente verso coloro che servivano antecedentemente, ed erano impiegati nel servizio”. E non accoglie l’invito più volte fattogli dal cardinale di porsi a capo dell’esercito che avanzava per la riconquista del regno” (Serrao, p. 203).

Palermo. La regina scrive a Ruffo: “Anche i Russi stessi cercheremmo di portarli per mare sino a Napoli, per evitare i magazzini, consumi di viveri, e risparmiare tutte le angarie ai nostri popoli. Ora va fra oggi o domani il convoglio grande e numeroso di Inglesi a mettere il blocco avanti Napoli; ci vanno quattro vascelli inglesi, fregate, bombarde, trasporti, vascelli portoghesi e dei nostri bastimenti, fregate e corvette per far vedere la nostra bandiera. Questi pensano di ancorarsi a Procida, prendere anche quell’isola e le adiacenti per avere dove ancorare con sicurezza, indi bloccare strettamente Napoli, e con tagliarle i viveri e il commercio ridurla più facilmente all’ubbidienza” (Croce, p. 90).

27 Marzo. Mercoledì. Abruzzo. “Da una località imprecisata Melchiorre Delfico scrive in una lettera ai colleghi del Governo Provvisorio: “Voi ci avete non solo abbandonati, ma quel che è peggio, obbliati. Da due Dipartimenti primogeniti vi mancano le nuove e nulla avete fatto per sapere se esistevano (…) Dovevate sapere che io non potevo muovermi, senza mettere a pericolo la mia vita” (Sani, p. 35).

Crotone (Calabria). Giunge in città Don Francesco Ruffo, fratello del cardinale, che viene nominato Ispettore Generale degli affari di guerra e finanza.

28 Marzo. Giovedì. Napoli. Giunge in città Abrial, incaricato dal Direttorio francese di riorganizzare il Governo della Repubblica napoletana.

“Nuovi rumori sono stati al Provisorio per la rimozione dei tre, Fasulo, Rotondo e Paribelli; ma sono sforzi inutili, perché il partito dei cittadini che vorrebbero il bene della patria è timido, perché sa di non aver la forza da poter resistere al Generale francese da cui vengono protetti coloro; intanto ne gemiamo tutti nell’oppressione, ed un’orda di birboni è alla testa del Governo” (De Nicola, 115).

“In una lettera inviata in questo giorno dal Governo provvisorio al MacDonald si afferma il significato e il peso che la legge sull’abolizione della feudalità avrebbe dovuto avere: essa sarebbe servita a “dissiper les insurrections comme le soleil fait fuire les nuages, et attacher le peuple à la révolution d’une manière solide”. Ma questo sarebbe dovuto avvenire senza intaccare il principio fondamentale del diritto di proprietà. “Le respect des propriétés est la base du gouvernement républicain et c’est lui qui détermine notre décision sur l’objet important des fiefs”. In realtà, anche entro questo invalicabile limite esisteva per i legislatori una notevole possibilità di manovra: essi avrebbero potuto colpire più o meno duramente i baroni non soltanto nelle loro prerogative ma anche, su un piano più immediato, nella loro forza economica (…) Le conseguenze di tale atteggiamento furono certamente gravi, ma il giudizio negativo non va portato tanto sui limiti della legge quanto sull’ottimismo con cui i patrioti consideravano la situazione interna ed internazionale. Essi, infatti, fecero una legge eversiva della feudalità che sarebbe stata molto utile in un periodo di pacifico sviluppo della società napoletana, ma non lo fu nella situazione estremamente grave in cui si trovava la Repubblica. D’altra parte, la stessa evoluzione che si ebbe all’interno del gruppo giacobino durante il periodo in cui fu discussa la legge non fu il riflesso di mutamenti effettivi nei rapporti di forza tra moderati e radicali, non fu effetto di una radicalizzazione della situazione politico-sociale, ma fu piuttosto il risultato di una discussione di vertice, a cui parteciparono ristretti gruppi di repubblicani. Di qui anche l’incomprensione con cui da parte dell’opinione pubblica si guardò all’attività dei giacobini, espressa in modo assai efficace dal celebre passo del De Nicola. Ma, pur con i limiti dovuti alla sua moderazione, la legge ebbe una certa efficacia nei luoghi dove fu possibile applicarla (e si trattò delle province in cui non si era prodotta una grave frattura tra borghesi e contadini)” (Lepre, pp. 81-2).

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento. 1700-1815”, Milano, Feltrinelli, 1978
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • B. Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1926
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • A. Lepre, “Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento”, Editori Riuniti, Roma, 1969
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974
  • A. M. Rao, Il Regno di Napoli nel ‘700”, Guida, Napoli, 1983
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale. 1798-1801”, 1926
  • V. Sani, “La Repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • Serrao De Gregori, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese contro i Francesi”, Firenze, 1934, v. I