David Grossman legge oggi Primo Levi

David Grossman legge oggi Primo Levi

A settant’anni dalla pubblicazione lo scrittore israeliano David Grossman (1954) parla di “Se questo è un uomo”. “Questo libro ci indica un modo non solo di osservare la vita, ma di viverla”.

 

Nel Supplemento “Robinson” del quotidiano “La Repubblica” di domenica 5 novembre 2017, alle pp. 14-6, è pubblicato un articolo di David Grossman che commenta il settantesimo anniversario della pubblicazione del libro di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, De Silva, Torino, 1947. Il libro era stato rifiutato da Einaudi e da Comunità. Se ne stamparono duemila e cinquecento copie, se ne vendettero forse mille, mille e cinquecento, tutte a Torino e in Piemonte. Fu un flop nonostante le buone recensioni di Arrigo Cajumi nella “Stampa” del 26 novembre 1947 e di Italo Calvino nell’”Unità” del 6 maggio 1948.

Il 5 maggio 1986 Primo Levi incontra a Pesaro gli studenti delle scuole superiori. Un docente, Paolo Teobaldi, fu testimone e ricorda: “Il silenzio era irreale quando ha parlato di Auschwitz e quando ha svelato ai ragazzi come ha voluto scrivere “Se questo è un uomo”: “Non mi ero posto nessuna tesi, nemmeno quella della bestialità degli oppressori. Mi sono posto dei limiti istintivi: raccontare nel modo più obiettivo possibile, senza sbavature e senza accuse, le cose che avevo visto e provato. Ero parte lesa, non giudice. Il linguaggio sbiadisce e naufraga nelle esperienze estreme: una cosa è la fame di chi salta un pasto, altra la fame di un lager”. “Cosa pensa dei giovani d’oggi” gli domandò una studentessa. Levi alzò lo sguardo alla platea e sorrise: “Penso che siano più fortunati perché vivono in un mondo almeno temporaneamente in pace e perché hanno accesso alla cultura. La contropartita è la difficoltà nel trovare lavoro. Scrivendo “La chiave a stella” mi sono reso conto di essere stato troppo ottimista, è stata facile la mia affermazione sul valore salvatorio del lavoro. Alcuni lettori mi hanno risposto: il lavoro salva ma trovamelo”. L’11 aprile 1987 Primo Levi si uccise.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Le opere di Primo Levi mi accompagnano da quando ho letto per la prima volta “Il sistema periodico”. Mentre leggevo sentivo che, pagina dopo pagina, il libro di questo autore, di quest’uomo, analogamente ad altri tre o quattro, mi indicava un modo unico e particolare non solo di osservare la vita, ma di viverla.

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni fatte di recente nel rileggere “Se questo è un uomo”, il primo libro di Levi, in cui racconta dei quasi dodici mesi trascorsi nel campo di sterminio di Auschwitz. Si potrebbe parlare ore e giorni di quest’opera, del turbamento che suscita nel lettore proprio a causa dello stile sobrio e limpido dello scrittore anche quando descrive gli orrori più terribili mai patiti da esseri umani, il processo di distruzione e della perdita di ogni sembianza umana non solo da parte dei nazisti e dei loro sottoposti ma anche delle vittime. Ma poiché il tempo non basterebbe, ho scelto di parlare dell’unico, cruciale, contatto umano, che Levi ebbe ad Auschwitz con un uomo di nome Lorenzo.

“La storia della mia relazione con Lorenzo”, scrive Primo Levi, “è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.

In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina e mi fece avere la risposta. Per tutto questo non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso”. E prosegue Levi:

Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo “Kazett”, neutro singolare”.

Leggo la descrizione di Primo Levi su come le guardie, i kapos e i civili vedevano i detenuti ebrei, e su come il semplice operaio Lorenzo vedeva lui, e penso a quanto è grande la forza dello sguardo, a quanto è cruciale il modo in cui osserviamo una persona. Una persona che potrebbe essere il nostro partner, un nostro figlio, un collega, un vicino, chiunque abbia una certa rilevanza nella nostra vita e, naturalmente, anche un perfetto sconosciuto, e talvolta persino un nemico.

Un semplice operaio italiano di nome Lorenzo guardò Primo Levi come si guarda un uomo. Si rifiutò di ignorare la sua umanità, di collaborare con coloro che la volevano cancellare e, così facendo, gli salvò la vita, niente di meno. Quanto semplice e grande fu quel suo comportamento.

Penso alla forza di uno sguardo benevolo nella vita di una persona. Non solo nelle circostanze di follia estrema di Auschwitz ma nella vita normale, di tutti i giorni. E questo mi porta a ripensare a una donna che ho conosciuto, la quale, quando chiese all’uomo di cui era innamorata di sposarla, gli promise che lo avrebbe sempre guardato con occhi benevoli: “gli occhi di un testimone pieno d’amore”, gli disse. E l’uomo pensò che mai in vita sua gli avevano detto qualcosa di tanto bello. Ho l’impressione che chi ha il privilegio di avere un testimone amorevole nella propria vita, o anche “solo” un testimone che cerca il bene dentro di noi per farlo emergere, ha buone possibilità di diventare una persona migliore, forse anche un po’ più felice. Se abbiamo il privilegio di avere qualcuno nella nostra vita che ci guarda con occhi pieni d’amore ecco che quello sguardo ci dice che forse in noi c’è qualcosa di meglio di quel che pensavamo. Di quel che osavamo credere. Un testimone amorevole ci può anche mostrare come ritornare sulla giusta via nel caso ce ne fossimo discostati, o ci fossimo un po’ persi, e, senza muovere rimproveri o accuse, ci può ricordare l’”Io” dal quale ci siamo allontanati e il fatto che ci siamo abituati a condurre un’esistenza parallela a quella che potremmo, o vorremmo vivere.

Lorenzo, un semplice operaio italiano, insistette a guardare Primo Levi con gli occhi di un uomo, e si ritrovò davanti un uomo. Non un Muselmann privo di identità, non un morto che camminava con un numero tatuato sul braccio al posto del nome e del cognome. Lorenzo si rifiutò di assecondare la pretesa dei sovrani-tiranni di vedere i prigionieri secondo il loro punto di vista. Guardò Primo Levi come si guarda un uomo e, così facendo, stravolse la natura della situazione in cui si trovavano. Nel momento in cui occhi benevoli, che credono in noi, ci suggeriscono una possibilità di tipo diverso, celata persino a noi perché repressa da altri, da noi stessi, o dalle circostanze avverse della vita, una possibilità nella quale non osiamo più sperare e che forse abbiamo completamente dimenticato, ci sono più probabilità che questa possibilità si trasformi in realtà. E noi abbiamo più probabilità di riscatto. Nei Salmi 27, 12 è scritto: “Non darmi in balia dei miei nemici, perché sono sorti contro di me falsi testimoni”. Come è bello questo versetto. Dice semplicemente: non lasciare che io veda me stesso come mi vedono i miei nemici perché loro mi guardano con occhi di testimoni falsi, ostili.

Stranamente, infatti, e non di rado, noi stessi ci associamo a uno sguardo ostile, critico, destabilizzante e rovinoso nei nostri confronti. Uno sguardo che possiede un terribile potere distruttivo: quello di mettere in dubbio noi stessi e tutto ciò che siamo.

E Primo Levi scrive anche di questo, della collaborazione fra vittime e tiranni nel processo di annichilimento. “I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Haftlinge schiavi e indifferenziati, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna”. Quando leggiamo questa descrizione la nostra ammirazione per il coraggio di un operaio italiano, di un uomo, e per la sua eroica rivolta contro la macchina di sterminio e di annientamento messa a punto dai nazisti, aumenta. E si potrebbe proiettare lo spirito di rivolta di quell’operaio nella realtà della nostra epoca che, ovviamente, è del tutto diversa da quella creata dai nazisti, rivendicando così il nostro diritto a una libertà di sguardo, a un’ottica del tutto personale nei confronti degli esseri umani, sia in ambito personale che pubblico.

Eppure, benché al giorno d’oggi uno dei modi più ovvi di esercitare la nostra libertà sia quello di formulare la realtà secondo i nostri criteri e non in base a cliché e a rappresentazioni vuote e manipolatrici che governanti, politici, comandanti di eserciti o i mezzi di comunicazione di massa, (che sono l’elemento principale e dominante nel determinare il mondo in cui viviamo) ci propongono, molti di noi rinunciano a questa libertà con entusiasmo sospetto.

Ma non dobbiamo guardare con occhi benevoli soltanto i singoli, gli individui, ma anche i gruppi. Ricordo, per esempio, i primi reportage televisivi sulle ondate di profughi in fuga dalla Siria verso l’Europa (e chi può ricordarli meglio di voi in Italia?). Le riprese mostravano quasi esclusivamente una folla enorme, senza volto, senza nome. Uno sciame umano in movimento (ricorro di proposito a una descrizione tanto impersonale e disumana) che creava un senso di piena, di inondazione, di invasione e anche, certamente, di minaccia per chi subiva l’invasione. A tratti, qua e là, spuntavano esseri umani. Forse, più di ogni altro, ricordiamo il piccolo Aylan Kurdi, il cui corpo giaceva sulla spiaggia con la guancia appoggiata alla sabbia come su un cuscino. Inorridimmo tutti a quella vista ma ben presto il nostro sguardo di telespettatori tornò a essere vitreo. Forse è proprio quando il cuore si commuove davanti alla sofferenza e all’infelicità che ci affrettiamo a chiuderci in noi stessi, a volgere lo sguardo altrove?

E’ difficile superare l’umanissima tentazione di sbirciare la ferita di un altro. Lanciarle solo un’occhiata, senza esporsi, senza guardarla veramente, in modo da non sentirci obbligati a fare qualcosa per il ferito, ad agire in modo concreto. La maggior parte dei mass media si basa su questo sguardo fugace, su questo occhieggiare quasi pornografico, senza alcun impegno né disponibilità da parte nostra ad assumerci responsabilità verso la sofferenza di cui siamo testimoni, limitandoci a una sbirciatina che stimola il nostro istinto sensazionalistico, la nostra smania di melodramma. Ma un profugo, uno sfollato, ha bisogno di uno sguardo completamente diverso: diretto, profondo, benevolo, che gli restituisca dignità, pienezza, integrità umana. Solo se riusciremo a osservarlo in questo modo, a estrapolare dai cliché mediatici del “rifugiato”, del “profugo”, della “povera vittima”, il viso dell’uomo che era prima che la sua vita si ribaltasse, comincerà per lui un vero processo di guarigione e di riabilitazione. E se anche altri guarderanno i profughi in questo modo, si innescherà un’azione più ampia e concreta da parte della società e dello Stato. Senza uno sguardo umano, mirato, consapevole e rivelatore (anche di sé stesso) non esiste infatti alcuna vera azione sociale né politica.

Talvolta i nostri occhi si soffermeranno su un semplice momento umano: il contatto tra una madre e un figlio, l’immagine di un giovane che sorregge l’anziano padre o di una coppia che, malgrado lo sgomento, mostra un istinto di protezione reciproco, serba una goccia di intimità e di amore nel mondo alieno e incomprensibile nel quale si ritrova improvvisamente catapultata.

Uno sguardo consapevolmente e deliberatamente alla ricerca di piccole manifestazioni umane richiede, ovviamente, uno sforzo di coscienza, di volontà, ma ha il potere di creare la realtà: ecco, mentre guardate alla televisione un altro prevedibile servizio sull’ennesimo gruppo di profughi approdati alle coste italiane a bordo di un barcone fatiscente, osservate un uomo in particolare, sconvolto e sofferente. Uno come ne avete visti tanti, a migliaia, al punto di divenire trasparente. Immaginatelo in un momento diverso della vita, com’era solo fino a poche settimane fa, a casa sua, libero, con una routine, una famiglia, amici, una professione. Immaginate la musica, i cibi che amava, magari una sua modesta passione per qualcosa. Immaginate i suoi segreti, la sua intimità, qualche debolezza, qualche virtù. Un essere umano. Niente di più, ma certamente niente di meno. E ancora una cosa: l’uomo a cui rivolgerete questo sguardo sarà il primo a “guarire” dallo stato di “rifugiato”. Il primo a liberarsi dalla paralisi mentale che lo attanaglia e a cominciare a ricostruire la propria vita. E questo, in fin dei conti, è nell’interesse di tutti i Paesi che accolgono profughi. Dateci condizioni di vita decenti –ci dicono senza parole i rifugiati di tutto il mondo, gli sfollati, i poveri, gli affamati, i bambini senza istruzione, i miserabili. Accordateci condizioni di vita sicure, dignitose. Oppure guardateci, nient’altro. Insistete a vedere visi umani nella massa indistinta di coloro che sono stati sradicati e trascinati arbitrariamente via dalle loro case. Fateci questo dono, siate generosi, e avremo la possibilità di recuperare ciò che abbiamo perso.

Di tutto questo parla Primo Levi nel suo libro “Se questo è un uomo”, e in tutte le sue opere. E, ancor più, parla di tutto questo con il suo modo d’essere. “Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita”, (scrive Primo Levi nel suo libro), “fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo io debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi”.

 

                                                        David  Grossman

 

(traduzione di Alessandra Shomroni)