Crepuscolo americano nell’ultimo romanzo di Paul Auster

Crepuscolo americano

Paul Auster non pubblicava un romanzo dal 2010. Poi si è barricato in casa ed ecco il nuovo libro. Titolo: “4 3 2 1”. Tema: la giovinezza. Nostalgia? “Forse. Negli anni ’60 c’erano scontri. Ma anche speranza. Oggi non ne vedo. Trump? Un demente”.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 6 ottobre 2017, alle pp. 14-18, è pubblicato un articolo di Riccardo Staglianò che commenta l’uscita nelle librerie italiane dell’ultimo romanzo di Paul Auster (Newark, Usa, 1947), “4 3 2 1” (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella, pp. 939, € 25).

 

Potremmo chiamarle “Variazioni Auster”. C’è un giovane uomo, Archie Ferguson, che come lui è nato nel New Jersey un certo giorno del 1947. E ci sono quattro possibili vite che da quella medesima matrice si biforcano. Come nel giardino dei sentieri di Borges. Ferguson 1, non riuscendo a campare da poeta, farà il giornalista. Ferguson 2 morirà ragazzo, stecchito da un fulmine. Anche Ferguson 3 uscirà precocemente dalla scena, dopo aver messo il punto finale al libro “Come Stanlio e Ollio mi hanno salvato la vita”. Ferguson 4 sarà l’Highlander del quartetto, quello che scriverà “4 3 2 1”, il libro con lo stesso titolo dell’ultimo, monumentale, complesso romanzo di Auster, autore della “Trilogia di New York” e di vari capolavori tradotti in oltre quaranta lingue. L’unica altra costante nelle loro esistenze parallele è la presenza di Amy Schneidermann, ora come amante, ora come cugina acquisita oppure come sorellastra. “L’indispensabile altro che abitava nella sua pelle”, commenta il narratore. Nonostante le numerosissime concordanze, anche nel bel salotto di casa sua, su una poltroncina di velluto color sabbia, l’autore giura che “non si tratta di un libro autobiografico”. Quelli erano “Diario d’inverno” e “Notizie dall’interno”, i due titoli precedenti, che hanno dissodato il terreno per questo. “Era la prima volta che affrontavo sul serio il tema della mia fanciullezza e mi sono reso conto che era un terreno fertile. E che forse meritava la pena di costruirci sopra delle fiction”. Un romanzo sulla giovinezza, quell’età malleabile in cui ogni scultura di sé, non importa quanto intricata e ambiziosa, è ancora possibile.

Oltre novecento pagine, un chilo e mezzo sulla bilancia secondo la pesa di qualche materialistico recensore, il libro è il più lungo della sua ultracinquantennale carriera. Composto in poco più di tre anni, sotto il pungolo dell’insistente paranoia che gli provocava la circostanza di averlo iniziato a 66, l’età in cui suo padre era morto all’improvviso mentre faceva l’amore con la compagna. “Mi sono chiuso in casa dalla mattina alla sera. Ho cancellato viaggi, presentazioni, letture pubbliche. Vedevo Siri per colazione e a sera” dice alludendo alla moglie, la scrittrice Siri Hustvedt, e indicando verso i piani di sopra di questa palazzina di pietra marrone che sembra appena strappata da un dépliant per la valorizzazione turistica di Brooklyn dove si è trasferito 40 anni fa perché non poteva permettersi Manhattan. E che ora, se la quotazione di una casa pochi civici più in là è di qualche insegnamento, potrebbe tranquillamente superare i cinque milioni di dollari di valore.

Un romanzo ponderoso, con una combinatoria non immediata, se non fosse per la cristallina scrittura di Auster che dà il suo meglio nel tratteggiare come i diversi personaggi reagiscono alle ordinarie catastrofi –incendi di negozi in cui si è investito tutto, fratelli che truffano fratelli, l’adorata fidanzata che bacia un altro: la vita, in poche parole- che si parano loro davanti. Ricordo ad Auster che, anche nella sua produzione precedente, sopravvissuti (Il libro delle illusioni) o convalescenti (La notte dell’oracolo) sono spesso al centro della sua poetica. “Scopriamo davvero chi siamo quando ci troviamo con le spalle al muro”, dice, “è l’avversità che ci rivela la nostra identità”. Quanto alla malattia, è entrato in una fase anagrafica che coincide con un assedio di bollettini medici infausti: “Quest’estate uno dei miei amici più cari mi ha confessato di avere un cancro molto aggressivo. Non piangevo così tanto da quando ero bambino”. Per quanto lo riguarda se la cava bene, con una discrepanza che tuttavia si fa sempre più lancinante tra la testa e il fisico: “No, non aspettatevi da me il vecchio nonno che dia consigli su come stare al mondo. Imparo ogni giorno. Però, come dice un altro amico, se dopo i sessant’anni ti svegli senza avere neanche un dolorino può voler dire solo una cosa: che sei morto”. Dunque, più lento ma non meno desiderante, fa passeggiate, legge, vede di preferenza vecchi film e ascolta musica, dalla classica all’indie rock della figlia Sophie, che da lui ha preso senz’altro gli occhi magnetici. Il paradosso che ha imparato ad apprezzare è che ogni giorno strappato alla morte è un giorno più prezioso, “più felice di quanto mi rendessi conto prima”.

Se non fosse per quella minacciosa cappa che incombe sugli americani e il resto del mondo. “Come dite in italiano, pazzo? Ecco, non c’è un termine migliore per descrivere Trump. Siri, che tra le altre cose tiene lezioni a studenti di psichiatria, preferisce “narcisista maligno”. Sia quel che sia, è un vero pericolo. E io, come tutte le persone che conosco, faccio fatica a immaginare quali possano essere le sue prossime mosse”.

“4 3 2 1” è essenzialmente ambientato negli anni ’60, compresi gli scontri per i diritti civili e il ’68. “La nostalgia per la gioventù c’entrerà senz’altro, ma nonostante le divisioni e l’ostilità, allora nutrivo speranza. Adesso non molta. Anche Nixon era razzista ma, in politica interna, era più a sinistra di Clinton. Fondò l’Epa, l’agenzia per l’ambiente, che Trump sta facendo a pezzi. E il National Endowment for the Arts. Il presidente attuale invece ha messo all’Istruzione una che odia la scuola pubblica e in altri dicasteri chiave persone che hanno dichiarato di volerli cancellare: Con la sua ideologia antiscientifica e antirazionale vuole smantellare la società come l’abbiamo conosciuta sino a oggi”.

Tutto si può dire di quest’uomo tranne che non sappia calibrare le parole. Ma non è più il momento della moderazione. Per guidare la resistenza degli intellettuali si era reso disponibile per la presidenza del Pen Club, dove più volte avevano cercato di reclutarlo in passato, ma poi qualcosa è andato storto e non vuole parlarne. Si limita a constatare: “In America gli scrittori sono politicamente invisibili. Ma se qualcuno mi chiedesse un paio di leggi da fare presto per frenare il declino del nostro Paese, un paio di idee le avrei. Rivolte alle prossime generazioni. Intanto degli asili pubblici, come li avete in Europa. Poi un radicale aumento delle paghe degli insegnanti, diciamo al livello degli avvocati. Un’assistenza sanitaria inclusiva. E il ritorno all’istruzione universitaria gratuita, almeno nei college statali”. Due punti sono in comune con Bernie Sanders, il candidato democratico sconfitto alle primarie da Hillary Clinton. “Vero, ma il problema di Bernie è di avere solo quattro idee. Lo stimo come senatore, ma non l’ho sostenuto come presidente. Sa poco del resto del mondo e comunque il partito lo avrebbe fatto a pezzi: non dimenticate che è ebreo, e socialista per di più”. Però nell’estate 2016 contro Trump vinceva sei volte su sei, contro le due volte su sei della Clinton. Acqua passata.

Gli cito un po’ di grandi scrittori newyorchesi che il “Venerdì” ha intervistato nell’ultimo anno. Di Don DeLillo, che condivide con lui la routine anacronistica di scrivere a macchina (anzi: Auster scrive con la stilografica, poi ribatte tutto cin un’Olympia del ’74 di cui ha fatto scorte di nastri che probabilmente gli sopravviveranno), si limita a notare che ci ha parlato al telefono il giorno prima. Di Tom Wolfe, forse l’unico newyorchese che abbia votato Trump, e del bon vivant Jay McInerney non dice niente. “Non faccio commenti sugli altri scrittori” si schermisce uno che non teme di dare del “demente” o del “disturbato” al quarantacinquesimo inquilino della Casa Bianca. “L’unico vivente di cui mi sento di parlare è mia moglie, la persona più intelligente che abbia mai conosciuto, con cui ho l’immensa fortuna di vivere”. Centellina solo due raccomandazioni letterarie. La prima riguarda Fran Ross, autrice afroamericana morta a cinquant’anni, di cui un paio d’anni fa hanno ripubblicato “Oreo”, “uno dei libri più intelligenti che abbia mai letto, in cui ho riso a ciascuna pagina. Possibile che nessuno l’abbia ancora tradotto in Italia?”. L’altra è su Stephen Crane –altro figlio del New Jersey come Allen Ginsberg, William Carlos Williams o Philip Roth- che nella sua brevissima esistenza scrisse “il bellissimo “Il segno rosso del coraggio” e l’ancora più sconcertante poesia “Nel deserto”. Fu il primo modernista americano e, in punto di morte, si premurò di scrivere a un’associazione che si occupava di scrittori affinché aiutassero un suo giovane amico che economicamente se la passava male. Rispondeva al nome di Joseph Conrad”. Si sbilancia di più solo con i registi, che pure sono stati brevemente suoi colleghi, nonostante la nota predilezione per i vecchi film che guarda sul divano con la moglie: “Trovo che Aki Kaurismaki sia un grande e per poco non sono riuscito a incontrarlo in Finlandia. Poi Pedro Almodòvar, un maestro assoluto di tutti i vari ingredienti del cinema. Poi Jarmusch e Wenders, ma sono amici. Mi piacciono i fratelli Cohen, Mike Leigh e John Boorman, quello di “Point Blank”.

Da tempo immemorabile si è imposto la politica di non leggere le recensioni. “Se sono belle alzi le spalle e le dimentichi in un attimo. Se sono brutte, una frase cattiva ti si può impigliare nella memoria: perché dovrei farmi questo? Ci pensa l’editore a farmi un riassunto che mi è più che sufficiente”. In un ampio coro di complimenti, tra gli antipatizzanti figura il “New Yorker”: “Si estende in maniera incontrollata, ripetitivo, a tratti splendido e altrettante volte esasperante… 4 3 2 1 non è mai davvero noioso, ma si avvicina al tedio troppo spesso”. Anche in passato non erano stati teneri, vecchie ruggini? “Mi detestano da sempre. Non ho alcuna idea del perché” ammette, scrollando le spalle.

In “Uomo nel buio”, un romanzo del 2008, il protagonista immaginava una guerra civile, con New York e gli Stati della costa ovest che insieme proclamavano la secessione dal resto del Paese. Oggi, a origliare le conversazioni per le strade di Manhattan, potremmo non essere tanto lontani. Auster scuote la testa, nient’affatto contento di essere stato superato a sinistra dalla cronaca. E’ un maestro della “meccanica della realtà”, un indagatore provetto delle conseguenze del caso, termine cui però preferisce “l’inatteso, con meno riverberi filosofici. Le cose accadono senza che le abbiamo previste e bisogna far loro spazio invece di meravigliarsi”. Trump tuttavia sta mettendo a dura prova la sua capacità di accomodare l’imponderabile. Il romanzo doveva chiamarsi con il nome del protagonista, Ferguson (al capostipite della famiglia, ebreo polacco, consigliano di dichiarare all’Immigrazione un nome americano ma lui al dunque non ricorda quale fosse e riesce solo a dire, in yiddish, “Ikh hob fargessen”, “Ho dimenticato”, da cui il nuovo cognome). Poi dopo gli scontri razziali nella cittadina di Ferguson, in Missouri, è stato cambiato nel più algebrico 4 3 2 1. I tempi duri non obliterano i sogni. Anzi. Niente da dichiarare, sul fronte dei desideri? “Sì, anche se è una cosa totalmente al di fuori del mio controllo. Mi piacerebbe diventare nonno. Adoro i bambini. Mi farebbe felice”. I suoi figli hanno 30 e 40 anni. Entrambi ancora perfettamente in asse per produrre il potenziale destinatario della dedica del prossimo romanzo.

 

    Riccardo Staglianò