“Dersu Uzala” di Akira Kurosawa. Un’interpretazione.
Il testo è stato estrapolato da un fascicolo di 56 pagine, scritto dagli studenti di due classi prime, ragazzi di 14 anni, del Liceo Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, pubblicato in forma di quaderno nella primavera del 1994 e custodito nella biblioteca dell’istituto. Vi si dimostrano, accanto alle inevitabili incertezze del primo approccio di lettura di un testo visivo, originalità e lucidità di analisi, acutezza e sistematicità nell’organizzazione dei dati, una pazienza ammirevole nel ripetere più volte al video-registratore l’indagine sui più diversi aspetti della sequenza e nel fissarne sulla carta le coordinate più significative (associando le abilità legate alla cultura del libro a quelle derivate dalla cultura dello schermo).
Il cinema è l’arte che consente di integrare al meglio l’indagine bibliografica, iconica, musicale, tecnica. Le descrizioni d’ambiente, i paesaggi, i costumi, lo scavo psicologico dei personaggi e delle folle, i movimenti di massa, la stessa tecnica del montaggio offrono ai giovani studenti stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella dimensione quotidiana (fantastica e insieme materialmente elementare) di un fatto e di un’epoca. Questa esperienza di lettura, smontaggio e interpretazione di un testo audiovisivo ha fatto parte di un progetto più ampio di “Letture testuali e con-testuali” (poesia, novella, romanzo, cinema, saggistica, giornalismo, politica, pubblicità, canzoni), attuato in un arco di cinque anni, dal 1993 al 1998, che ha puntato semplicemente ad avvicinare gli studenti ad un uso più attento e critico anche della civiltà delle immagini. Li si è voluti stimolare ad arricchire il loro lessico, con una quotidiana e paziente pratica di lettura, di ascolto, di visione, per contrastare un’espressività orale e scritta sempre più povera e banalizzata. Si è voluto suggerire un metodo di analisi, di concentrazione, di interrogazione di se stessi, di discussione e confidenza con gli altri (che dura da secoli e che oggi, forse, si sta perdendo). Di più, coltivando la fatica dell’interpretazione, lentamente costruiranno la pratica di un continuo approssimarsi alla verità, di una sua messa in discussione, di una necessaria dimensione sociale del pensiero, di una coltivazione di sé (già Leopardi e Gramsci dicevano che lo studio “è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”).
prof. Gennaro Cucciniello
Kurosawa aveva letto la vicenda di Dersu in due libri nei quali un topografo russo, Vladimir Arseniev, aveva narrato la cronaca di alcune spedizioni nella Siberia orientale, ai confini con la Manciuria cinese. Gli accadimenti ricordati risalgono al 1902 e al 1907 e sono densi di imprevisti. Un cacciatore vive solitario nella taiga e stringe amicizia con Arseniev, Dersu Uzala appunto, un uomo antico, di poche parole e saggio.
Nel film Dersu è un essere che ha fatto dei boschi la sua casa. Disgrazie ed afflizioni (la famiglia è morta di peste) lo hanno espulso dalla società e la foresta gli ha restituito pace. Dersu si aggira per tortuosi sentieri che gli sono familiari, legge le orme, fiuta l’aria, interroga le stelle e i venti, parla alle piante e agli animali, battibecca con i borbottanti tizzoni dei fuochi, dorme su giacigli improvvisati, si ripara in rudimentali capanni, arranca incurvato dal peso di uno zaino che custodisce le sue poche cose, a sera fuma la pipa e non si separa mai dal fucile. E’ un animista, Dersu, e attribuisce al mondo naturale prerogative umane e porta per le bestie un rispetto quasi religioso. Arseniev, nel film il capitano russo, ne è prima incuriosito e poi incantato e i due uomini si legano l’uno all’altro con uno di quei patti silenziosi di amicizia eterna. Dersu salva Arseniev dalla morte per congelamento e il capitano, per gratitudine, lo invita a trasferirsi nella sua casa. Dersu non accetta, gli amici si separano.
Si rincontrano 5 anni dopo. Il cacciatore è ancora in gamba e la sua felicità è immensa nel riabbracciare il capitano e nell’accompagnarlo in un’altra ricognizione, funestata da sanguinari predoni cinesi e minacciata dalle consuete insidie. La tigre Amba si avvicina alla pattuglia dei russi, Dersu la scongiura di allontanarsi e un colpo è esploso dal suo fucile: la mira non è stata infallibile e il tiratore se ne inquieta ma ancora di più lo attrista la sicura fine della fiera. Dersu si incupisce, l’episodio è per lui un presagio di morte perché è convinto che Amba si vendicherà, mandandogli altre tigri a punirlo. In più, la vista cala di giorno in giorno a Dersu, che, sentendosi indifeso e impotente, segue Arseniev in città.
Una comoda abitazione lo accoglie, il bambino di Arseniev non si stanca di ascoltare i suoi racconti, in famiglia lo trattano come se fosse un parente. Ma Dersu non è felice, s’arrabbia perché il consumo dell’acqua e della legna avviene in cambio di denaro, non capisce perché nella città sia proibito sparare in aria e costruire capanne sulla strada, gli sembra d’essere prigioniero malgrado l’affetto di tutti. Il topografo non lo tratterrà e, salutandolo, gli regala un fucile di precisione. Sarà quest’arma a stuzzicare l’avidità di un ladro che, per impadronirsene, uccide Dersu. Il cadavere non sarebbe identificabile se la polizia non rinvenisse addosso al corpo di Dersu un biglietto da visita del capitano, che accorre sul luogo del delitto appena in tempo per assistere alla tumulazione dell’amico in una fossa di cui scomparirà ogni traccia, annullata dalle costruzioni in corso.
“Dersu Uzala” è un film ricco di paesaggi maestosi e di spazi infiniti, scandito dai mutamenti del clima e delle stagioni. Neve e gelo, calore tropicale e vegetazione lussureggiante lo commentano con un respiro solenne. La natura è protagonista nella sua comunicazione con gli esseri umani, di cui Dersu è un esemplare raro in quanto per istinto ed esperienza non infrange un equilibrio che il progresso altera ogniqualvolta è inquinato dalla rapacità degli speculatori.
Agli occhi di Dersu la terra è un organismo vivente di cui egli si sente parte. Dell’esistenza di questo sacro legame biologico Dersu ha una percezione fisica (il miracolo del film è di riuscire a trasmetterci questa percezione in immagini di una purezza, di un’emozione straordinarie). Nella sua visione animistica la nebbia è realmente “la terra che suda”, il gelo “la riserva della vita”, il sole “l’omo più importante, perché senza di lui tutto morirebbe”. Tutto vive, tutto ha un’anima. Una sera Dersu non mangia, prega, canta per addolcire la fame e il dolore di sua moglie e dei suoi figli morti di peste. Anche il bastone da cacciatore, “quest’omo che mi ha accompagnato tanti anni”, come dice Dersu. Quando Arseniev lo pianterà sulla sua tomba come una croce, avremo l’impressione che il bastone vegli il padrone come un cane, un compagno fedele. Reggendosi a lui, lo spirito di Dersu potrà tornare a vagare per la foresta, come l’aquila “che vola alto sulla montagna” (dice la canzone cosacca, posta da Kurosawa alla fine del film).
Il grande organismo vivente della natura ha le sue leggi. Dersu le osserva religiosamente perché sa che contraddirle sarebbe un suicidio. Cacciatore per necessità, Dersu spara ad una sola specie di animali. “Se si uccidono tutti, di cosa ci nutriremo?”. La logica illogica del consumismo, del profitto, dello spreco, gli è totalmente estranea. Quando per allenarsi i soldati di Arseniev appendono una bottiglietta ad una fune e la prendono a bersaglio Dersu li rimprovera: “Perché distruggere una bottiglia?”. Venuto il suo turno recide con un colpo netto di fucile la corda e si mette la bottiglietta nello zaino.
Anche la figura del capitano è importante. Arseniev impersona la modernità, il XX° secolo e l’abitudine agli strumenti tecnologici: la macchina fotografica e il fonografo lo classificano come un individuo fra i più emancipati, d’altronde è un geografo, un tecnico della cartografia. Eppure è abbastanza riflessivo per meditare sul solitario cacciatore e su ciò che rappresenta: il passato, un’armonia che rischia di decomporsi, la difficoltà di adeguarsi alla marcia della storia e alla modificazione dei rapporti primordiali con la natura, una riserva di valori che sarà sconvolta dal presente.
Lo schermo largo del cinema si apre ad orizzonti sconfinati, a sommesse avventure di viaggio, a sequenze di intensa drammaticità (la tempesta di neve che si abbatte su Dersu e Arseniev smarriti sul lago ghiacciato), ma si accorcia anche per scavare nel profondo dell’anima. La faccia-il corpo di Dersu, indimenticabili, vivificati da un anziano attore di teatro –Maxim Munzuk-, sono splendidi per la naturalezza e il calore ed anche per la serena malinconia.
Nel film boscaglie, fiumi e radure vibrano di echi fatati ma non privi di incantazione sono anche gli occasionali incontri della squadra russa con i rari abitanti della foresta. La scoperta di un vecchio cinese, ritiratosi nella taiga per fuggire l’ingratitudine e l’egoismo dei parenti e della moglie e chiusosi nel silenzio, è uno dei frammenti più belli e malinconici del film.
Mino Argentieri, in “Rinascita”, 1977, n. 5, p. 34