Belli. Sonetti. Tempo e Natura. “La stagionaccia”, 1 febbraio 1833

Belli. Tempo e Natura. “La staggionaccia”, 1 febbraio 1833

 

E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano  (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.

A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e, se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia (v. il sonetto “er lupo manaro” del 15 gennaio 1833). Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza. “La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

 

 

                                      “La staggionaccia”     1 febbraio 1833

 

Zitto, don Fabbio mio, pe carità!

Se chiameno staggione queste qui?

State chiuse, un callaccio da crepà:

State uperte, un ventaccio da morì.                                          4

 

Fora, ve viè la fanga inzino qua:

Drento, è una vita che ve fa ammuffì.

Ringrazziamo la Santa Tirnità

Ch’è un Zanto grosso: e c’antro s’ha da dì?                              8

 

Ne la giornata quarche cosa fo:

Ciò la novena der bambin Gesù…

Ricamo… e ttiro via com’Iddio vò.                                            11

 

Ma ssi la sera nun vienissi tu

A ffà quer fatto e arillegramme un po’,

Don Fabbio mio, nun ne potrebbe ppiù.                                   14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

 

                                      La stagione cattiva

Zitto, don Fabio mio, per carità! Si chiamano stagioni queste qui? Se state a finestre chiuse un caldo da morire, se state a finestre aperte un ventaccio da crepare. Fuori, c’è un mare di fango: dentro, c’è una vita da ammuffire. Ringraziamo la Santa Trinità che è un Santo importante: e che altro c’è da dire? Durante il giorno qualche cosa io faccio: ho la novena del Bambin Gesù… Ricamo… e tiro via come Dio vuole. Ma se la sera non venissi tu a fare quel fatto e a rallegrarmi un pochino, io non ne potrei proprio più.

 

Le quartine. Parla una popolana, forse vedova, forse zitellona. E i primi otto versi sono dedicati a descrivere le caratteristiche di una stagione meteorologica particolarmente cattiva. Gli elementi esterni sono “un ventaccio da morì” (v. 4) e “la fanga inzino qua” (v. 5) a cui fanno da contrasto il “callaccio da crepà” (v. 3) in stanze piccole e malsane, e “drento, una vita che ve fa ammuffì” (v. 6), logica conclusione di un’esistenza solitaria, povera e monotona. Il dato che va sottolineato è la scelta, da parte del Belli, di chiudere i versi, tutti e quattordici, con la rima tronca e con una punteggiatura spezzata: punti esclamativi, interrogativi, due punti, virgole, punti di sospensione.

Le terzine. Ora il racconto distilla fatterelli di vita quotidiana, banali, ripetitivi, il ricamo, la novena in chiesa, qualche altra bagattella, cosette di nessun conto. Fino a dare per scontata la felice conclusione sessuale, ingentilita perfino dall’enjambement (vv. 12-13), “ma ssi la sera nun vienissi tu / a ffà quer fatto”; in simmetria con l’altro enjambement (vv. 7-8), “ringrazziamo la Santa Tirnità / ch’è un Zanto grosso”. Quello che emerge è la positiva contraddittorietà della vita umana, il suo essere un coacervo di ambiguità e ambivalenze.  

 

Nello stesso giorno Belli scrive un sonetto che denuncia l’avidità dei preti romani.

 

Li dritti de li curati dritti

 

Indov’èlli sti preti santarelli

Che nun métteno a ttaja li cristiani?

Indov’èlli sti parrichi granelli

Che nun zanno spojà li parrocchiani?                                      4

 

Indov’èlli, per dio, dimme, indov’èlli,

Si ssò ttutti ppiù cani de li cani?

Guarda er curato mio dell’Orfanelli

Che ce divora a ttutti sani sani!                                                 8

 

Senti un po’ questa, e nun rimane statico.

Quanno morze mi’ padre d’un bubbone,

Vorze fasse pagà croce e viatico.                                              11

 

Io lo dico da me che ssò un cojone

E de ste forche qui boja mar-pratico,

Ma chi ha ppagato mai la commugnone?!                               14

 

                   Le competenze dei preti furbi e scrocconi

Dove sono questi preti santarelli che non sottopongono a tassa i cristiani? Dove sono questi parroci semplici che non sanno spogliare i parrocchiani? Dove sono, per dio, dimmi, dove sono, se sono tutti più cani dei cani? Guarda il curato mio della chiesa di Santa Maria in Aquiro nei pressi di Montecitorio (Belli avverte che questa nota è inventata) che ci divora tutti sani sani! Senti un po’ questa e non rimanere estatico e immobile. Quando morì mio padre per un bubbone, sto prete volle farsi pagare il diritto di trasporto nel funerale (la croce e il santo viatico). Io lo dico da me che sono un coglione e di queste forche sono un boia mal pratico (non conosco bene ciò di cui parlo) ma chi ha pagato mai la comunione?

 

                                                        Gennaro  Cucciniello