“La casa dei doganieri” di E. Montale. Un’ipotesi di lettura.
Questo è un lavoro scritto nel marzo 1988 da uno studente del quinto anno del Liceo Scientifico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che un ragazzo di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta di “Le occasioni”, naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.
prof. Gennaro Cucciniello
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto. 5
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna 10
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola 15
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…). 20
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Schema metrico: su indicazione di Lonardi ho ritenuto più utile riportare la trascrizione del testo raggruppando i versi secondo l’ordine suggerito dalle rime: cinque quartine, delle quali la prima rimata ABBA, la seconda cDCD, la terza EEFF, la quarta GHGH (con rime alternate come nella seconda), la quinta IBII (con l’infrazione di una quasi rima), una coppia monorima baciata in chiusura, LL. Altrimenti la struttura riportata tradizionalmente è di due strofe di cinque versi e due di sei alternate, per lo più endecasillabi e versi ipermetri (composti dall’unione di due versi più brevi) e un settenario.
Verso 1. La situazione descritta è chiara in apparenza: Montale è tornato, a distanza di anni, a visitare questa casa, un luogo che gli suscita il ricordo di una sera trascorsa con una donna amata. Ma il tempo è passato, la donna è lontana e il ricordo stesso tende a sbiadire nella mente del poeta. Il poeta stesso ci informa, in una dichiarazione a Giulio Nascimbeni, che la donna alla quale il “tu” si riferisce era una villeggiante conosciuta in un’estate a Monterosso e morta giovane. “Per quel poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo; morì giovane e non ci fu nulla tra noi”. Il ricordo è impossibile, quindi, perché la ragazza è morta. Anche Leopardi in “A Silvia” si rivolge ad una fanciulla morta ma con un rovesciamento di segno: “Silvia, rimembri ancora…”. Però la realtà biografica è forse diversa da quella poetica: Annetta è stata identificata da M. Forti e G. Zampa con quasi assoluta certezza in Anna degli Uberti, figlia di un ammiraglio romano nata nel 1904 e che fino al 1924 trascorse regolarmente le vacanze estive a Monterosso. La casa dei doganieri, con tutta probabilità è il luogo dove si ipotizza sia avvenuto il lontano incontro (interessante è il contrasto tra la denominazione precisa ed insolita e la sua indeterminatezza): qualcosa ci sarebbe da ricordare, qualcosa è avvenuto, almeno secondo il nostro poeta. Già s’intravede il contrasto doloroso tra il poeta che ancora conserva il ricordo della persona cara, anche dei luoghi che hanno visto il rapporto fra i due, e la smemoratezza di lei che ha distrutto ogni traccia del passato. Si ripete, come già in “Cigola la carrucola del pozzo”, il tentativo fallito di rievocare stabilmente un’immagine ormai inghiottita dal tempo. Inoltre, il “tu non ricordi” si ripeterà ai versi 10 e 21, sempre in capoverso e si accompagnerà a tante connotazioni negative; così si scandisce con desolata fermezza l’impossibilità di un recupero della memoria che non sia labile e imperfetto. E’ interessante, però, anche un altro effetto di quel “Tu non ricordi”, se lo riferiamo a noi lettori: abbiamo l’impressione di venire immediatamente tratti per le spalle e costretti a guardare il rialzo a strapiombo sulla scogliera insieme a lui.
Verso 2: la casa è isolata, in un paesaggio che trasmette un senso quasi cupo di paura; una casa doganale, una situazione di frontiera, una natura aspra e verticale (un andar su, il rialzo, un guardar giù spaventato, lo strapiombo). Ci si rende subito conto con angoscia che si tratta di un recupero unilaterale, che l’altro termine dell’incontro, l’altra persona, è estranea a quello che ci accade. Quello che fu l’incontro di un giorno non si può ripetere. Noterei ancora che nei primi due versi c’è una netta prevalenza di parole trisillabe o quadrisillabe che allungano la dizione, anche se gli accenti sono tutti piani.
Verso 3: il tempo è trascorso, la memoria della donna angosciosamente più non ricorda, si annebbia e tutto si trasferisce sulle cose. Ora la casa sente il peso della solitudine e della desolazione. Noi brutalmente potremmo replicare: ebbene, che c’è di nuovo? Questa è una storia semplice di due persone che si sono incontrate una sera in una vecchia casa abbandonata e poi se ne sono andate verso altre esperienze. Ma cominciano ad intravedersi alcune ambiguità: mi piace, ad esempio, l’assonanza “casa-desolata”; col correlativo oggettivo il poeta ha trasferito i suoi sentimenti sulla fisicità del manufatto. La rima “scogliera-sera” inquadra con precisione, ma senza incanto, il tema dello spazio-tempo.
Verso 4: anche qui la rima “pensieri-doganieri” stabilisce uno stretto legame tra il luogo e la persona che l’ha umanizzato se pur per brevi momenti. I pensieri della donna erano irrequieti come uno sciame di insetti, sempre in movimento, frenetici, aggrovigliati. Di contro si immagina l’uomo come soggiogato, incantato spettatore dell’esibizionismo (petulante?) di lei. Il tempo verbale ora è al passato remoto, suggerisce il confronto tra due momenti, due diverse fasi psicologiche, un presente e un passato.
Verso 5: l’irrequietezza si è fermata, forse per un istante si è posata. Sul perché l’abbia fatto permane il mistero. L’ossimoro, “sostò-irrequieto”, vuole forse suggerirci l’idea che la donna era alla ricerca di qualcosa, perennemente insoddisfatta.
Verso 6: il Libeccio è un vento di sud-ovest che soffia con violenza. Aumenta il senso di desolazione della casa abbandonata: gli anni che sono passati hanno visto una natura ripetitiva e pungente, un logoramento crescente del fabbricato creato dall’uomo. L’assonanza “scogliera-sera-sferza” aggiunge un elemento inquietante al quadro: il sibilo del vento, il buio, l’isolamento, lo squallore.
Verso 7: è possibile una prima interpretazione, la risata non è più lieta e squillante perché la donna è morta, quel suono resta solo nel ricordo e nel rimpianto del poeta. Ma anche: la donna ha vissuto ben altre esperienze, è stata provata dalla vita e dal dolore. E’ interessante al proposito la rima “irrequieto-non lieto”: proprio l’ansia di ricerca potrebbe aver causato delusioni terribili. A conferma c’è proprio l’insistenza quasi ossessiva sulla deprivazione del presente: “tu non ricordi, non lieto” e che poi continuerà con il “non torna” (v.9).
Versi 8 e 9: la bussola rotta non indica più il nord e quindi non può orientarci secondo una direzione precisa; il calcolo dei punti segnati sulle facce dei dadi (sommando quelli delle facce opposte si ottiene sempre sette) non dà più il risultato giusto. Cosa vogliono dirci le due immagini? Non è più possibile orientarsi in questa vita né fare previsioni sul futuro. La bussola, che guida metaforicamente il timone della vita, ora gira impazzita, preda del caos; ogni progetto, ogni ipotesi, ogni azzardo esistenziale è diventato incerto e improbabile nel suo esito (questo significa il calcolo dei dadi). Il tempo passa e noi constatiamo che le speranze che avevamo costruito non si sono avverate: così si è fatta precaria ogni convinzione già posseduta e siamo preda di un’angoscia inconsolabile.
Versi 10-11: la ripresa del motivo che ha aperto la poesia sottolinea l’amarezza dell’osservatore che è solo a ricordare. Una diversa esperienza di vita, oppure (se la donna è morta) la sua condizione al di là della vita impedisce la memoria (bellissima è la rima baciata: non torna-frastorna: non si possono fare previsioni sul futuro). Il filo della memoria (che ancora lega il poeta alla donna) si avvolge nel gomitolo svolgendosi dalla matassa: come è impossibile seguire il filo avvolto nel gomitolo così non si può preservare il passato nel nostro ricordo. L’impressione è che tutto si raggomitoli, si aggrovigli. E’ insanabile il contrasto tra ricordo e dimenticanza. Egli, il poeta, è rimasto legato all’ambiente, torna nei luoghi familiari, rivede o rievoca gesti e oggetti, la donna invece non c’è più. Ora a tenerli uniti non c’è più neanche il filo della memoria comune. E’ inutile richiamare alla memoria la figura che ci fu compagna, ella è ormai travolta da un altro tempo, da altre esperienze, ha cancellato in sé ogni traccia del passato.
Versi 12-14: di quel filo il poeta si ostina a trattenere un’estremità. Barberi Squarotti sottolinea che l’immagine del filo sia suggerita dal mito di Teseo e Arianna. Affinché l’eroe ateniese non si perdesse nel labirinto e potesse tornare indietro dopo aver ucciso il Minotauro, Arianna gli diede un gomitolo di filo da portare con sé e svolgere via via mentre ella ne teneva un capo all’uscita. Però la situazione reale è rovesciata: il nostro protagonista trattiene il filo ma dall’altra parte non c’è più nessuno, nessuna Arianna. Non è possibile trovare una via di scampo nel labirinto della vita, neppure aggrappandosi al passato e ai ricordi. La casa, punto di partenza del ricordo, s’allontana nel tempo passato, il ricordo diventa irraggiungibile. La banderuola, collocata in cima al tetto per indicare la direzione del vento, non segna più una direzione fissa, gira su se stessa, arrugginita: è il ripetersi monotono delle vicende della vita. La casa era desolata, la banderuola è affumicata, il tempo passa senza alcuna pietà per i ricordi.
Versi 15-16: c’è il disperato tentativo dell’autore di non cedere alla dimenticanza, egli si ostina a ricordare anche se l’avversativa “ma”, che subito segue, svela la vanità di far rivivere il passato. Però affiorano delle incongruenze: fino ad ora è stato l’uomo che si è ostinato a tenere fede ai ricordi mentre la donna era irrequieta, ora è la donna che resta sola (ma è probabile che il non respirare nel buio alluda alla sua realtà di morte).
Versi 17-18: sull’orizzonte che sembra allontanarsi brilla ad intermittenza la luce di una nave. In quel “rara la luce della petroliera” si avverte l’eco di un verso leopardiano, “rara traluce la notturna lampa” (“La sera del dì di festa”). Prima si era perso ogni stabile punto di riferimento (“s’era allontanata la casa” del v. 13, simbolo di un’irraggiungibile sicura stabilità), c’era l’idea di una follia che sembrava essersi impadronita delle cose. Ora questa “luce rara”, enigmatica, allusiva, che brilla a tratti nel buio dell’orizzonte, suggerisce qualcosa? La possibilità di una fuga? E’ possibile il ritorno del passato? La rima (“scogliera, v. 2 / sera, v. 3 / petroliera, v. 18) solletica un legame intrigante tra lo spazio, il tempo, la via di fuga?
Versi 19-20: il varco, un passaggio quasi sempre difficile a superarsi (v. Dante, Paradiso, XXVII, 82-83). “Nella poesia montaliana è la possibilità di evadere dalla prigionia della condizione esistenziale, di trovare una salvezza dal ripetersi eguale delle vicende e dall’inganno delle vane apparenze. Ad una domanda rivoltagli da S. Guarnieri il poeta rispose precisando che il varco è all’orizzonte, non nella casa” (così in un commento antologico). Alla domanda si risponde negativamente: il varco è irraggiungibile. Si riforma in continuazione l’onda del mare che s’infrange impetuosa sul rialzo roccioso e scosceso della costa. L’immagine naturalistica ripropone l’idea dell’inesorabile immobilità del destino della vita, del ripetersi sempre uguale dei giorni. E’ vero che il tempo della natura è ciclico, persistente, ripetitivo, mentre quello dell’uomo sembra lineare, progressivo, logorabile però. Ma è veramente così? R. Ceserani suggerisce una strada diversa: c’è uno spazio circoscritto, la casa, dal cui interno il soggetto guarda all’esterno; questo tema –la separazione e contrapposizione tra il noto e l’ignoto- ha radici arcaiche nella cultura occidentale ma per il poeta moderno il mondo noto ha tratti negativi mentre il varco verso l’ignoto si presenta quasi come una via di salvezza: infatti è una luce, sia pur intermittente. Quindi questo passaggio toccherebbe il problema controverso della metafisica di Montale, che resta comunque contrassegnata dal vuoto, dall’assenza dei contenuti.
Versi 21-22: la conclusione è desolata, è sicuro ormai che la donna non ricordi più nulla, Arianna ha perso il filo, il labirinto si è richiuso. L’enjambement bellissimo dà evidenza alla particolarità di questa sera in contrasto a quella ricordata nella prima strofa. Questa dimenticanza è definitiva. Montale, in una lettera privata del 19 giugno 1971 indirizzata ad A. Leone, scriverà: “La casa dei doganieri fu distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non poté mai vederla; andò verso la morte ma io lo seppi molti anni dopo. Io restai e resto ancora. Non so chi abbia fatto scelta migliore. Ma verosimilmente non vi fu scelta”. Se dunque l’andare corrisponde al morire e il restare al rimanere in vita, se ne deduce che il poeta non sa chi sia veramente a morire, se chi va oltrepassando il varco della morte fisica o chi resta vivo ma prigioniero della condizione esistenziale immobile, senza trovare il varco. Qui c’è tutto lo smarrimento e il disagio di Montale di fronte ad una realtà sempre più incomprensibile, soprattutto per un intellettuale degli anni Trenta del Novecento: isolamento esistenziale, perdita di certezze e di speranze, insensatezza del vivere.
Giuseppe B.