Giacomo Leopardi, “O graziosa luna…” (1819)

Giacomo Leopardi, “Alla luna” (1819, 1820)

 

Questo è un lavoro scritto nel dicembre 1987 da uno studente del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Ist. Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che un ragazzo di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero.

Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Soprattutto non deve dominarci la paura delle difficoltà: bisogna accettare culturalmente l’idea che un ostacolo va affrontato e superato. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.

Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello 

 

O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l’anno, sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari.                               5

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, ché travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova                                   10

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose,                                               15

ancor che triste, e che l’affanno duri!

 

Metro: endecasillabi sciolti.

Versi 1-5. O leggiadra cara luna, io mi ricordo che ora si compie un anno, e io su questa collinetta (forse il monte Tabor, presso Recanati, lo stesso dell’”Infinito”) venivo di solito, pieno d’angoscia, a contemplarti: e tu stavi sospesa allora su quel bosco, come fai ora, che tutto lo rischiari.

Il testo “Alla luna” occupa negli autografi il primo posto fra gli idilli e contiene un tema fondamentale della poesia leopardiana, quello della “rimembranza”, io mi rammento (v. 1), preparandone lo sviluppo sul piano della riflessione (il ricordo come fonte di piacere, anche quando oggetto del ricordo sono fatti o situazioni dolorose). Si possono citare, perciò, vari passi dello “Zibaldone”, dedicati alla “rimembranza”, per poterli confrontare con la poesia. “E son piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene (sebbene) la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l’accresca, come nella morte de’ nostri cari, il ricordarsi del passato ec”. E l’autore chiarisce poi: “la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica” (pp. 1987-88, 25 ottobre 1821).

Corrispondenze tematiche e foniche strutturano il componimento in una forma conclusa e circolare. Assonanze e consonanze, e allitterazioni, tra parole in fine di verso (rimirarti –v. 3- rischiari –v. 5); parole-chiave (io venia e tu pendevi, vv. 3-4); bellissima successione di sospensioni (gli enjambements ai vv. 1, 2, 4) e di silenzi (la pausa al v. 3 dopo “rimirarti”); endecasillabi accavallati tra un verso e l’altro (io mi rammento / che, or volge l’anno); ricorrenze di suoni (volge-colle, pendevi-selva, fai-rischiari). “Or volge l’anno” della stesura definitiva sostituisce la più precisa, ma meno poetica, “or volge un anno”, della prima stesura e rende quell’effetto di “indefinito” che per Leopardi è essenziale al linguaggio poetico. Infine, notiamo già l’intervento efficacissimo degli aggettivi dimostrativi, che poi sarà ripreso nell’Infinito: “questo colle, quella selva”, vv. 2 e 4, che danno concretezza reale e una precisa collocazione spaziale, facendo scattare la rivelazione del ricordo. Scriverà Contini che “questo tipo di emozione commemorativa sarà a sua volta teorizzato da Proust come “intermittence du coeur”, intermittenza del cuore”.

Ci sono varie reminiscenze letterarie: nel v. 2, Petrarca, Rime, LXII, 9, “Or volge, Signor mio, l’undicesimo anno”, ma anche Virgilio, Georgiche, II, 402, “volvitur annus”. E nel primo verso, Dante, nel significato antico del vocabolo, “O animal grazioso e benigno”, Inferno, c. V.

La critica ha già osservato che l’anno 1819 è forse l’anno più critico della giovinezza leopardiana: la fuga progettata e le varie lettere a P. Giordani testimoniano dell’aggravamento della salute e dell’incupimento disperato del giovane poeta. In una lettera le lacrime e la pietà sono invocate come unico conforto alla tristezza umana: “Oh cara anima, o “sola infandos miserata labores” di questo sventurato, credi forse che io sia commosso della pietà che mi dimostri, perché l’è rivolta sopra di me? Ora io ne son tocco, perché non vedo altra vita che le lacrime e la pietà, e se qualche volta io mi trovo alquanto più confortato, allora ho forza di piangere e piango perché sono più lieto, e piango la miseria degli uomini e la nullità delle cose (…) Perché l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambo le mani questi ultimi avanzi, e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dove io sperava e sognava la felicità, e sperando la godevo; ed è passato, né tornerà mai più, certo mai più” (17 dicembre 1819).

 

Versi 6-12. Ma alla mia vista il tuo volto appariva offuscato e incerto a causa del pianto che nasceva nei miei occhi, poiché angosciata tormentata era la mia vita, ed è tale tuttora, né è cambiata, o luna mia diletta. Tuttavia (nonostante il contenuto negativo del ricordo) mi piace il ricordare  e il contare la durata del mio dolore.

Il ricordo, perciò, anche se doloroso, è dolce perché riempie il nostro animo, facendo rivivere un’esperienza passata divenuta parte di noi e trasfigurandola, collocandola in una distanza di tempo per cui essa si conserva e nello stesso tempo si fa indefinita. C’è un dato che ci incuriosisce: l’angoscia di Giacomo è indeterminata, nulla ci viene detto sulla causa che la provoca. Questo, però, favorisce la partecipazione e l’immedesimazione di noi lettori. Parlando al fratello Carlo della sua decisione di fuggire dalla casa paterna così Giacomo scriveva nella fine di luglio del 1819: “Due cagioni mi hanno determinato immediatamente, la noia orribile derivata dall’impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese, ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente immaginare (forse il suo corpo malato, che non gli consentiva giochi e relazioni e sfoghi convenienti alla sua età); e questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell’idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna. Sta’ bene, mio caro, e, a riguardo mio, stà lieto, che io fo quello che dovea fare da molto tempo, e che solo mi può condurre ad una vita se non contenta, almeno più riposata. Laonde se m’ami, ti devi rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d’essere pienamente infelice, sarei soddisfatto, perché sai che la mediocrità non è per noi”.

Due vocativi paralleli (O graziosa luna, v. 1 e O mia diletta luna, v. 10) danno una nota di allocuzione affettuosa, di confidente e giovanile abbandono; parole-chiave (angoscia, v. 3, pianto, v. 6, dolore, v. 12; io mi rammento, v. 1, la ricordanza, il noverar, v. 11; il tuo volto apparia ed era mia vita, vv. 8-9) confermano la struttura conclusa e compatta del testo. Le avversative dei versi 6, Ma, e 10, E pur, sottolineano il legame e insieme la distanza fra passato e presente; E pur ci fa scoprire e sentire quasi l’improvvisa dolcezza del ricordare. Ritornano naturalmente le ricorrenze foniche (rammento-pianto, vv. 1, 6; travagliosa-giova, vv. 8, 10).

Il ritmo dei versi è dolce e armonioso, spezzato solo nei vv. 9 e 10, nel momento di maggior tensione del discorso. Ritornano gli endecasillabi accavallati di enjambement discorsivi, non drammatici: alle mie luci / il tuo volto apparia, vv. 6-7; né cangia stile,/ o mia diletta luna, vv. 9-10.

Continuano gli echi letterari: Petrarca, Trionfo della morte, I, 135, “come Fortuna va cangiando stile”, e lo stesso nelle Rime, CXIX, 24, “e ‘l rimembrar mi giova”. Ma queste reminiscenze, care e familiari in Leopardi, non sono elementi esterni e freddi ma si armonizzano con altre espressioni preziose e “pellegrine”, quali “nebuloso, tremulo, noverar l’etate”.

La vita di Leopardi si ripete sempre uguale a se stessa così come si ripete il corso della luna. E l’astro, interlocutrice in questo idillio e figura centrale di altri celebri canti, rientra nella categoria delle immagini vaghe e indefinite: “non solo perché la sua luce soffusa rende il paesaggio misterioso, ma anche perché il suo volto, attraverso il filtro delle lacrime, giunge alla vista del poeta nebuloso e tremulo (v. 6); così velato il volto della luna appare ancora più caro, di una intimità e dolcezza maggiore, stimolando così la fantasia e suscitando idee indefinite”.

 

Versi 12-16. Oh, come si presenta gradito, nel tempo della giovinezza, quando ancora la speranza ha un corso lungo davanti a sé (si ha un lungo futuro) e la memoria lo ha breve alle spalle (quando le speranze gioiose prevalgono sui ricordi dolorosi), il ricordo delle cose passate, benché infelici e benché il dolore duri tuttora.

Sottolinea la critica che “alla radice di questo idillio, come dell’Infinito, sono l’esperienza e l’idea di come “giovi” ciò che accresce la nostra vitalità potenziando le nostre sensazioni, e di come tale accrescimento sia soprattutto legato all’immaginazione, e non al possesso attraverso i sensi di oggetti reali e presenti: questi infatti non possono appagare un desiderio di piacere per sua natura infinito nella durata e nell’estensione”. Attenti, però, perché i vv. 13-14, trascritti dall’autore su una copia dell’ultima edizione a stampa dei “Canti” (1835), limitano la dolcezza del “rimembrar delle passate cose”, v. 15, agli anni della giovinezza quando “ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso”, vv. 13-14. C’è qui la riflessione amara “del poeta ormai maturo, che da una parte torna con affetto sul se stesso di un tempo, dall’altra, però, abbandonate ormai tutte le illusioni, non trova più nel ricordo in quanto tale una fonte di consolazione e di nuova poesia”.

Ci sono ancora le assonanze e consonanze tra parole in fine di verso: luci-lungo-duri, vv. 7, 13, 16; occorre-corso-cose, vv. 12, 14, 15. L’endecasillabo accavallato: “delle passate cose,/ ancor che triste”, vv. 15-16. Le ricorrenze foniche: vita-stile, v. 9; dolore-occorre, v. 12.

Il 25 ottobre 1821 questo scriveva Leopardi nello “Zibaldone”: Per la copia e la vivezza ecc. delle rimembranze sono piacevolissime e poeticissime tutte le immagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, pitture, imitazioni o realtà ecc.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età sono più vive che quelle di qualunque altra età. E sono piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze di immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose o spaventose ecc. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando ben la cagione del dolore non sia passata e quando pure la ricordanza lo cagioni o l’accresca, come nella morte dei nostri cari, il ricordarsi del passato, ecc…” (I, 25 ottobre 1821, pag. 1244).

E’ questa una delle poesie di Leopardi più popolari, anche per la semplicità del dettato, che fa pensare alla poesia spontanea e ingenua degli antichi, ricca di scene naturali suggestive (i notturni illuminati dalla luna, per esempio). Vorrei concludere che la rappresentazione si concentra sul colloquio con la “diletta luna”, confidente privilegiata o addirittura unica del poeta, sia al passato che al presente, evocando il motivo della solitudine (cfr. col successivo Canto notturno del pastore dell’Asia). “Così la situazione sentimentale dell’angoscia, già di per sé indefinita, trascolora in un’ancora più vaga e sfumata, quasi indefinibile, commistione di affanno e di consolazione”.

 

 

                                                        Giuseppe  S.