E. Scola, “Una giornata particolare”. Storia di solitudine e di amicizia

Ettore Scola, “Una giornata particolare”. Una storia di solitudine e di amicizia.

 

In questo film la staticità dell’ambientazione sfocia nel Kammerspiel, isolando in primissimo piano due personaggi psicologicamente alla deriva.

Collocando nel 1938 questa storia di solitudine e di amicizia, di emarginazione e di solidarietà, il regista ha voluto amplificare la portata delle contraddizioni enunciate. Infatti, proprio il fascismo –con i suoi miti della virilità e della donna procreatrice, angelo del focolare- rende addirittura paradigmatico il contrasto fra il vissuto e la storia, i sentimenti e le convenzioni, le ragioni dell’individuo (uomo o donna che sia) e quelle della politica. Ma la “profondità prospettica” non concerne tanto la collocazione storica, pur accurata, quanto la capacità –tutta stilistica- di aprire i fondali del Kammerspiel in un film che ne rispetta essenzialmente gli assunti. Il dramma –o “commedia tragica”, secondo la definizione di Scola- è “a porte chiuse”, nell’incontro-scontro-confronto di due entità esistenziali alla deriva, ma il respiro narrativo è tale da chiamare in causa ciò che sta “fuori” e che vediamo/sentiamo esclusivamente per via mediale (il cinegiornale d’apertura, la radiocronaca della “grande parata”). Il dato esterno, contestuale, è storicamente collocato nello spazio e nel tempo –il fascismo come forma “limite” di una società repressiva- e informa notevolmente di sé l’evolversi della vicenda. Non però al punto di volerla (o doverla) storicizzare, lasciando ai personaggi il compito di spiegare se stessi.

Di qui un senso di “contemporaneità” –termine assai caro al regista- profondamente calato nella verosimiglianza del dato storico e tuttavia capace di trascenderne le coordinate, offrendosi a letture e interpretazioni non necessariamente o meramente contingenti. E’ quella che Lino Micciché, in una recensione al film, ha chiamato la “irrealistica paradossalità” dell’invenzione narrativa operata dal regista, la quale non “chiude” su quello che il critico chiama “l’arbitrario condensato dell’alterità fascista” ma si apre a qualcosa di più: “E’ un film sull’ufficialità e sulla privacy, sulla donna e sulla diversità, sulla famiglia e sulla solitudine, sul consenso di massa e sull’alienazione individuale, sulla libertà e sul Dominio” (“Avanti”, 20 maggio 1977). E’ chiaro che per “irrealistica paradossalità” il critico intende –in negativo- anche talune smagliature narrative: “i diversi testi della retorica fascista mescolati tra loro, l’irrealtà di una figura di casalinga anni ’30 così improvvisamente disponibile, l’improbabilità di un prelevamento di un confinato a conclusione di una giornata siffatta ecc”.

Ma che dire allora dell’improvvisa disponibilità eterosessuale del protagonista? Ciò che più sembra stare a cuore al regista risiede nel costringere la quotidianità apparentemente più banale ad entrare nel perimetro di una situazione-limite dove quella banalità si spiega in tutta la sua complessità, originando comportamenti imprevedibili e imprevisti. Ma –a ben guardare- l’imprevedibile e l’imprevisto sono soltanto supposti dai “ruoli” a cui due “reietti” vengono relegati dal sistema sociale: l’isolamento ghettizzante del “diverso”, l’adesione della donna a modelli di obbediente funzionalità estranei o addirittura contrari al suo sentire. Latente o manifesta, dolorosa o mascherata, la rassegnazione ai “ruoli” e ai diversi destini (l’impossibilità di lavorare e il confino per lui, il dovere di lavorare e la reclusione domestica per lei) è l’elemento che entra in crisi nel corso di questa giornata così particolare. E poco importa che il buio della notte restituisca i personaggi alla tirannia di quei ruoli e modelli: la trasgressione c’è stata e resterà, quantomeno nella memoria di chi l’ha vissuta.

Scola ha avuto più volte il modo di manifestare tutto il suo dissenso a proposito di quei registi che, senza essere Fellini, avvertono il bisogno di raccontarci la “loro” vita, quasi che lo spettatore nona spetti altro. E contro l’autobiografismo si muovono in genere i suoi film, con poche motivate eccezioni. Per questo film la memoria vale soprattutto sul piano visivo. Ha ben poca importanza che alla via dei Fori Imperiali ci fosse quel giorno anche Scola, vestito da “figlio della lupa”. Hanno importanza i “colori” di quel ricordo, perché, trasferiti nel décor del film, ne divengono una componente essenziale, grazie naturalmente anche al lavoro “luministico” di Pasqualino De Santis e alle soluzioni scenografiche dell’inseparabile Lucio Ricceri: “Già in partenza tutto quello che riguardava l’ambientazione e tutti i capi di vestiario erano stati decolorati. Poi girammo con un filtro speciale, e quindi decolorammo ancora in stampa. Insomma, fu una sottrazione progressiva dei colori, fino quasi a farli scomparire, a farli diventare bianco e nero. Una volta arrivati a questo punto, si cominciarono ad aggiungere i colori per fare risaltare magari in tutta una scena soltanto un rosa in qualche punto. E questo non fu soltanto per fare assomigliare maggiormente la fotografia ai pezzi di documentario con cui avevo aperto il film, ma perché i ricordi miei, della casa in cui abitavo a Piazza Vittorio a quell’epoca, sono in quella tonalità. Il colore della Roma di quei tempi (…) nel mio ricordo è un non colore, neanche tanto grigio ma un po’ chiuso, un po’ spesso, come quello di una nebbia dentro le stanze, che poi al film è servito come lieve simbolo –anche se io i simbolismi li amo poco- di chiusura, di prigione; anche lì di esclusione” (in Franca Faldini & Goffredo Fofi, “Il cinema italiano d’oggi. 1970-1984”).

Smorti colori dell’Italia fascista e di una “Roma conformista e squallida, apparentemente defunta, in realtà ancora angosciosamente viva” (Alberto Moravia, “L’Espresso”, 2 ottobre 1977): l’aderenza delle tecniche alla natura del claustrofobico racconto è sintomatica della pienezza espressiva che, in sordina, il regista ha strada facendo maturato. Non più soltanto il “mestiere”. Quest’ultimo cenno vale evidentemente anche per gli interpreti, chiamati a ribaltare gli stereotipi a cui devono gran parte della loro popolarità. Latin lover per eccellenza del cinema italiano, sia pure per il tramite delle ambiguità narcisistiche dei personaggi felliniani, Mastroianni è un Gabriele sofferto e credibile, mentre Sophia Loren –che aveva manifestato più di una perplessità alla vigilia- si cala nel personaggio di Antonietta, inizialmente diffidente per poi aderirvi con naturalezza: lo stesso percorso psicologico, a ben guardare, che caratterizza il personaggio nel suo rapporto con Gabriele. “Non crediamo alla pietà, sentimento raramente autentico, specie in un regista di solito acre come Scola; crediamo piuttosto nel contrasto esistenziale e nella sfida sessuale che solo possono spiegare e giustificare il rapporto tra l’omosessuale e la donna. Sophia e Marcello rivaleggiano in bravura, tene dosi ambedue su accenti sommessi ma a due livelli diversi: la Loren alla maniera neorealistica e dialettale, Mastroianni alla maniera psicologica e mimetica” (Moravia, art. cit.). Più che di una vera e propria “sfida sessuale”, è forse il caso di parlare di un coraggio ritrovato nell’affrontare l’alterità della vita. Per cui l’eventuale agonismo consisterebbe nel dimostrare al partner –il discorso vale per entrambi i personaggi- che non si è sempre quel che le regole impongono di essere. Regole della commedia (e del successo) comprese.

                                                       

                                                        Roberto Ellero

L’articolo è tratto dal saggio, “Ettore Scola”, l’Unità/Il Castoro, 11 dicembre 1995, pp. 64-68.