Lorenzo Lotto, “Presentazione di Gesù al Tempio”, 1555, Loreto, Museo diocesano

Lorenzo Lotto, “Presentazione di Gesù al Tempio”, 1555. Loreto, Museo diocesano.

Il luogo.

Le ultime tele di Lorenzo Lotto sono conservate in una sala, a lui dedicata, del Museo del Palazzo Apostolico di Loreto. L’edificio, iniziato dal Bramante a fine ‘400 con un grande cantiere dove erano stati chiamati architetti e scultori di rilievo, fu continuato da Giuliano da Maiano, Baccio Pontelli e Antonio da Sangallo il Giovane nel ‘500 e vide –nel ‘700- l’intervento di Vanvitelli.

L’opera.

Gli studiosi sono concordi nel riconoscere questa come l’ultima opera autografa, rimasta incompiuta forse per la malattia e per la morte, eseguita da Lorenzo negli anni in cui viveva ritirato e isolato nel convento lauretano annesso al Santuario della Santa Casa. Il Vasari, nelle “Vite”, ci informa che questa tela, la “Presentazione di Gesù al tempio”, faceva parte di un ciclo destinato all’abside della basilica e dedicato agli episodi dell’infanzia e della giovinezza di Cristo. Della serie erano parte anche un’Adorazione dei Magi e un Battesimo di Gesù, insieme a un’Adorazione del Bambino (che ricalca un analogo soggetto, oggi al Louvre), a Cristo e l’adultera (opera vista dal Vasari nel coro lauretano undici anni dopo la morte di Lotto), a Il sacrificio di Melchisedec (ripresa fedele di una tarsia per S. Maria Maggiore di Bergamo), a L’arcangelo Michele e Lucifero (ultima opera del ciclo, interessantissima perché l’angelo ribelle è raffigurato come un bellissimo efebo, contraltare dell’arcangelo vittorioso, quasi vittima incolpevole di un destino misterioso e beffardo). Tutti i quadri sono conservati a Loreto.

Partiamo dal testo biblico. Il solo Vangelo canonico che parla di questo episodio è quello di Luca, 2, 21-39. “E quando furon compiuti i giorni della loro purificazione secondo la legge di Mosè, portarono il bambino in Gerusalemme per presentarlo al Signore, com’è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà chiamato santo al Signore, e per offrire il sacrificio di cui parla la legge del Signore, di un paio di tortore o di due giovani piccioni. Ed ecco, v’era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; e quest’uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d’Israele; e lo Spirito Santo era sopra lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non vedrebbe la morte prima d’aver veduto il Cristo del Signore. Ed egli, mosso dallo Spirito, venne nel tempio; e come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, se lo prese anch’egli nelle braccia, e benedisse Iddio e disse: Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; poiché gli occhi miei han veduto la tua salvezza, che hai preparata dinnanzi a tutti i popoli per esser luce da illuminar le genti, e gloria del tuo popolo Israele. E il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevan di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, madre di lui: Ecco, questi è posto a caduta ed a rialzamento di molti in Israele, e per segno a cui si contradirà (e a te stessa una spada trapasserà l’anima), affinché i pensieri di molti cuori sieno rivelati. V’era anche Anna, profetessa, figliuola di Fanuel, della tribù di Aser, la quale era molto attempata. Dopo esser vissuta col marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova ed avea raggiunto gli ottantaquattro anni. Ella non si partiva mai dal tempio, servendo a Dio notte e giorno con digiuni ed orazioni. Sopraggiunta in quell’istessa ora, lodava anch’ella Iddio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme. E come ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città”.  

La composizione dell’opera, posta convenzionalmente negli anni successivi al 1552, è complessa e vede la sovrapposizione di due piani: quello inferiore è dedicato allo sviluppo della storia evangelica, il superiore rappresenta la contemporaneità cinquecentesca. Così si evidenzia uno spazio di sintesi tra il tempio ebraico di Salomone e il santuario mariano di Loreto. In alto si vede una sala vuota costruita prospetticamente; un’alta tribuna sostiene un coro presbiteriale di architettura quattrocentesca lungo le cui pareti s’intravedono gli stalli dei sacerdoti; a destra si delinea la figura di un vecchio: è considerato l’ultimo autoritratto del grande pittore. L’anziano personaggio barbuto che entra nel coro è il Lotto settantacinquenne, seguito dall’ombra della sua esistenza turbata dalle inquietudini religiose. In basso l’episodio rappresentato è quello in cui sette settimane dopo la sua nascita Giuseppe e Maria portano Gesù al tempio, presentandolo al sommo sacerdote. L’organizzazione spaziale, con le figure piccole disposte a gruppetti, ricorda le pitture lottesche di Trescore e gli schemi utilizzati per alcune delle tarsie di Bergamo, di cui l’artista conservava ancora gelosamente i disegni. Non c’è apparente comunicazione tra le due fasce del dipinto che, invece, -secondo me- dialogano con commovente intensità.

Nella scena non c’è solennità. A sinistra c’è il gruppo con la Madonna e il Bambino, disposto lateralmente; Giuseppe, invece, con la tunica rosa è posto a destra; il vecchio sacerdote Simeone può finalmente ricevere tra le braccia Gesù; è con lui – dall’altra parte dell’altare – la vecchissima profetessa Anna, che riconobbe nel Bambino il Redentore annunciato dalle Scritture. La Madonna presenta a Simeone il figlio di Dio: il gesto è espressione della natura divina di Gesù. La profetessa Anna indica verso il basso, in direzione dei piedi che sostengono l’altare: e ciò dovrebbe ricordare la natura umana e mortale di Gesù. I sacerdoti sono tre, disposti l’uno dietro l’altro nella stessa identica posizione. Sembrano procedere l’uno dall’altro, rappresentazione di uno stesso personaggio visto in tre distinte fasce d’età. Il vecchio Simeone rappresenta il tempo dell’Antico Testamento speso nell’attesa del Messia; segue un rabbino di mezza età con il libro della Torah chiamato a rappresentare la religione ebraica; chiude un giovane chierico e la critica riconosce nei tre l’espressione ultima di un impianto teologico di cui si riconosce la matrice dal monoteismo giudaico. Tutti dimostrano una trepidazione accorata dinanzi alla rivelazione della divinità: ciò sta a significare la radicale povertà della condizione umana salvata soltanto, in un’umile rassegnazione, dall’intervento della grazia divina. I tre sacerdoti compaiono dietro un altare quadrato la cui tovaglia bianchissima lascia scoperti quattro piedi umani usati per sostenere la sacra mensa.

L’immagine è rarefatta, i colori sono smorzati, le figure abbozzate e quasi disarticolate; nei gesti commossi di Maria e del sacerdote si coglie il pathos tipico della pittura lottesca. Ma cosa significano quei quattro piedi umani, così sconcertanti, sotto l’altare? Alcuni critici si limitano a suggerire un estremo tocco di originalità inventiva, una sua tipica caratteristica; altri, più avvertiti, richiamano un passo del profeta Isaia che parla del piede come veicolo di rivelazione. “L’altare, perciò, sarebbe il corpo stesso del Cristo, il luogo verso cui converge la dimensione del sacro, spazio di contatto tra cielo e terra”. C’è un precario formarsi delle figure nello spazio, provvisori personaggi nel fluire del tempo, avanzi d’umanità cui resta soltanto ormai la preghiera. Questa pittura incerta e tremolante, nell’incredibile stesura a macchie di colore coagulate su pochi toni bassi e smorzati, nella luce sconsolata di un notturno incipiente, costituisce senz’altro una delle pagine più struggenti e moderne di Lotto, in un mondo reso fatiscente, già contemplato con gli occhi della morte. Questo quadro finale, che con pochi tocchi stremati e malcerti apre sul Goya della Quinta del Sordo, “è un delirio di luce e di cenere” secondo Flavio Caroli.

L’autore.

In gioventù Lotto era stato affascinato, in un suo soggiorno a Roma favorito dal Bramante, da molti aspetti del mondo figurativo romano ma poi non aveva voluto decisamente omologarsi ad esso, non si era appiattito sul classicismo archeologizzante ma aveva cercato una propria nuova identità. Capace come pochi di rivelare le pieghe più riposte dell’animo umano e di rendere con intensità poetica e arguzia narrativa ogni manifestazione -anche la più umile- della realtà di ogni giorno, Lotto era per sua natura estraneo a quella celebrazione idealizzante che è fatalmente connaturata ai centri del potere. E l’aveva trovata, questa sua nuova identità, non solo in originali soluzioni di stile e di forma ma anche e soprattutto nell’impegno di esprimere e trasmettere attraverso la pittura i sentimenti e i valori religiosi, troppo spesso relegati in secondo piano dagli artisti e dai committenti rispetto agli interessi estetici e culturali. Questo aveva significato il suo abbandono dei prestigiosi cantieri vaticani (coevi ai lavori di Raffaello e Michelangelo) e la sua scelta per le provinciali committenze marchigiane e bergamasche. Lotto era vicino agli ambienti della Riforma religiosa, interessato alle dottrine d’oltralpe ma in rapporto dialettico con esse, impegnato a rielaborare il repertorio iconografico religioso al fine di creare immagini che esprimessero, attualizzandoli, i principi fondamentali della religione cattolica in una prospettiva che rientrava nel movimento rinnovatore della Chiesa. Nell’agosto del 1550 Lorenzo organizza ad Ancona una lotteria, mette cioè “al lotto e venture” (ha 70 anni, è un esule ramingo, senza riconoscimenti artistici ed ha ancora voglia di fare giochi di parole sul suo nome) 46 dipinti, tra i quali i 30 cartoni colorati per le tarsie bergamasche dei quali era gelosissimo. Vuole racimolare qualche soldo e alleggerirsi di un bagaglio pesante e ormai inutile. Il fallimento è totale: vende solo 7 quadri e ne ricava 39 scudi invece dei 400 ottimisticamente preventivati. Nella disperata sua solitudine umana e nel suo destino d’artista c’è la tragedia coscientemente accettata di un uomo rimasto fedele alle sue idee e alla sua natura in aperto contrasto col corso cortigiano  e conformista della cultura contemporanea.

La sua ricerca intellettuale solitaria ed emarginata era stata vinta in modo definitivo a Venezia dal trionfo di Tiziano; anche nelle Marche era stato escluso dalla committenza degli ambienti artistici più colti e potenti. La stessa Loreto era ormai diventata un caposaldo in territorio adriatico della cultura romanizzante. Nell’aprile del 1548 Pietro Aretino, scrittore di rara malignità, servile amico di Tiziano, gli indirizza una lettera aperta che nel mondo culturale veneziano segna l’emarginazione irreparabile del nostro autore: “O Lotto, come la bontà buono e come la vertù vertuoso, Tiziano sin d’Augusta e in mezo di tutti i favori del mondo vi saluta e abbraccia”; (…) Lotto riconosca la superiorità altrui; tuttavia lo essere superato nel mestiere del dipingere, non si accosta punto al non vedersi agguagliare ne l’offizio della religione. Talché il cielo vi restorarà d’una gloria che passa de lo mondo la laude”. Parole non solo ironiche ma spietate e crudeli: sono la frustata sarcastica dell’uomo di successo, a cavallo delle ideologie dominanti, nei confronti di un rivale che aveva voluto seguire concezioni perdenti e minoritarie. E Lotto commenta: “Quando uno, doi e tre dice al vivo esser morto, deve l’homo aver gran rispetto di vivere e dubitare di non essere; sicché io mi sottometto facilmente per esser corretto, per danno che me fusse, et vergogna”. Questo è un appunto del pittore nel suo “Libro dei conti”, libro che Flavio Caroli definisce, con le Lettere al fratello Theo” di V. Van Gogh, la testimonianza più sconvolgente dell’animo di un artista, un diario –sia detto per inciso- in cui non compare mai il nome di Tiziano.

Nel 1552 Lotto si trasferisce da Ancona a Loreto dove il governatore del santuario gli assicura vitto, alloggio e bottega. Quasi tutti i suoi amici, a Venezia, vengono in questi anni inquisiti per eresia; ed egli, “cattolico riformatore”, ma osservante, vuole tagliare i ponti con un gioco più grande di lui. Nel 1554 decide (“per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia”) di farsi monaco laico della Santa Casa. Con questo atto di oblazione perpetua dimostra in modo inequivocabile la sua obbediente accettazione della fede cattolica. In quello stesso anno il Vergerio, già vescovo di Capodistria e passato poi alla Riforma,  denunciava come “superstitione et idolatria” il culto della Santa Casa di Loreto, inserendolo tra le tante “feccie et ribalderie le quali imbrattano et dishonorano la santa fede catholica”. E’ illuminante, mi sembra, l’analisi di Berenson sul nostro pittore: “Egli aveva di mira l’anima umana in un’epoca in cui essa veniva rapidamente sacrificata al conformismo, egli era intimamente evangelico in un paese che un cattolicesimo vuoto e autoritario stringeva sempre più nella sua morsa”. Lorenzo fino alla sua morte parteciperà regolarmente alla vita religiosa della comunità monastica lauretana, dipingendo non solo quadri per la chiesa ma anche –con grande umiltà- le tavolette con i numeri da appendere sopra i letti dei pellegrini. Il grande pittore non ci vede più bene ma continua a lavorare: da Venezia si fa spedire colori, pennelli e tre paia d’occhiali. Non si sa nulla né della sua morte né delle sue esequie. C’è solo una citazione anonima della burocrazia amministrativa del monastero: si incassano tre fiorini e cinque bolognini “per la vendita di un matarazzetto già di Lorenzo Lotto”. Quindi il nostro grande pittore deve essere morto prima del luglio 1557, data di questa notazione. Dei suoi trenta meravigliosi cartoni per le tarsie di Bergamo, che Lorenzo aveva portato sempre con sé nella sua vita errabonda, non si è saputo più nulla: scomparvero per sempre nella Casa consacrata a Maria, la Madonna che egli aveva tante volte rappresentato nell’umiltà domestica dell’annuncio,  nel trionfo angelico, nel dolore, nell’abbandono.

Cosa voglio dire, per ultimo, ai miei lettori? Se guardi un dipinto, se leggi una poesia, se scorri le pagine di un giornale, scopri il modo in cui un altro percepisce il mondo. Così possiamo imparare a capire il prossimo, a entrare nella testa degli altri per capire come ci vedono.

Gennaro Cucciniello