Entriamo nella testa di un aguzzino nazista, omosessuale e incestuoso…

Nazismo. Il romanzo “Le Benevole” dello scrittore americano Jonathan Littel ci fa entrare nella testa di un aguzzino di Hitler.

Per la prima volta un romanzo usa come io narrante un carnefice delle SS per nulla pentito. In Francia è stato uno shock.

 

Questo articolo, di Marco Cicala, è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 5 ottobre 2017, alle pp. 118-123. Posso riportare utilmente il parere sul libro di Claude Lanzmann, direttore della rivista “Les Temps Modernes” e autore di un documentario, “Shoah”, che gli ha preso undici anni di lavorazione, uscito in Francia nel 1985. Dice Lanzmann: “Max Aue è un Ss degli “Einsatzgruppen”, i commandos speciali che seguivano le avanzate della Wehrmacht e nelle retroguardie rastrellavano tutti gli ebrei e li abbattevano. E’ quella che hanno chiamato la “Shoah con le pallottole” per distinguerla dalla “Shoah col gas”. Ebbene, lavorando al film io ho incontrato tutti i reduci degli Einsatzgruppen, ma nessuno ha accettato di farsi riprendere, di parlare. Ho usato la camera nascosta, però mi hanno scoperto e spaccato la faccia. Sono finito all’ospedale. Il personaggio di Max è perciò finto. Non esiste. Ma riempie a suo modo un vuoto storico. Certo, con gli strumenti della letteratura. Sebbene, sul piano della ricostruzione, il libro sia di un’esattezza incredibile. E’ la storia, quella dei libri che lo scrittore ha studiato, a diventare la memoria del personaggio narrante (…) In certi momenti il libro prende una piega veramente folle. Max attraversa la guerra in lungo e in largo. Incontra Himmler, prende il tè con la signora Eichmann, sfiora addirittura il Fuhrer. E’ un romanzo formidabile ma difficile, durissimo. Non so quanti, dopo averlo finito, sarebbero disposti a rileggerlo una seconda volta”.

                                                                       Gennaro  Cucciniello

 

Scattante, Jonathan Littel fa strada lungo i venerandi corridoi di Gallimard. Alla fine approdiamo nell’ala “nobile” dell’edificio, quella in cui abitava –e in parte ancora abita- la dinastia degli editori. Lui si muove come fosse a casa sua. Può permetterselo. Con 730mila copie vendute (e senza alcun passaggio in tv: solo giornali, radio e qualche dibattito in scuole ed università) è diventato il ragazzo d’oro della Maison. Quasi uno di famiglia. Sconcertante, a tratti insostenibile confessione di un aguzzino nazista, il suo romanzo “Les Bienveillantes” è stato lo tsunami letterario della scorsa stagione. Ha vinto il Goncourt e il Gran Prix de l’Académie francaise. Ha acceso dotte querelles, suscitato polemiche e parecchie invidie. Gli storici ne sono rimasti sedotti oppure irritati. Intanto, nelle librerie si assisteva a un’inconsueta corsa all’accaparramento. Per far fronte alle ordinazioni, Gallimard ristampava a regime stakhanovista, ogni 48 ore. A un certo punto è persino finita la carta e hanno dovuto saccheggiare quella destinata agli Harry Potter.

Mica male. Considerato che si tratta praticamente di un libro d’esordio. Oltretutto grosso, 900 e rotte pagine. E che –dall’Ucraina al Caucaso, dalla Crimea a Stalingrado, passando per la Parigi occupata e la Berlino del Reich agonizzante- ci racconta, senza economia di turpi dettagli, lo sterminio ebraico e tutti gli altri. Visti con gli occhi di un ex Ss, un massacratore complesso, insieme banale ed eccentrico, tormentato ma per niente pentito.

Ora “Le Benevole” arriva in Italia e, per l’occasione, l’autore si dispensa cortesemente da un impegno preso con se stesso, quello di non dare più interviste. “Tutto quanto avevo da dire sul libro l’ho detto. Adesso non vi resta che leggervelo”, scherza Littel, completo grigio e orecchino al lobo sinistro, 40 anni mercoledì prossimo. Su Terzo Reich e dintorni sa tutto. Ha letto tutto. E’ loquace ma solo su questioni rigorosamente attinenti al romanzo. Ama dribblare le domande sul privato citando una battuta di Margaret Atwood: “Interessarsi alla vita di uno scrittore perché ci piacciono i suoi libri è come interessarsi alla vita di un’anatra perché ci piace il “foie gras”. Comunque è nato a New York, da famiglia ebraico-russa riparata negli Usa a fine ‘800. Ha studiato in Francia e in America. Vive a Barcellona con moglie e due bambini. E’ figlio del giornalista e scrittore di spionaggio Robert Littel.

Pochi giorni fa, in  Francia, il mensile Le Magazine Littéraire scriveva: fino a ieri “Le Benevole” era il romanzo che bisognava assolutamente avere sul comodino. Oggi chi chiediamo dove sistemarlo in biblioteca: tra i classici del Ventesimo secolo o tra quei bestseller magari folgoranti ma effimeri?”. In Italia la domanda è prematura. E d’altronde Littel sembra guardare ormai con compassato distacco al polverone sollevato dal libro. “I commenti di storici e critici mi interessano meno di quelli dei sopravvissuti. E tutti i reduci della Shoah che hanno letto il romanzo hanno detto: “Sì, era così. E’ andata così”.

Chiave del libro è Max Aue, l’io narrante. Nazista obbediente, omosessuale lacerato, forse matricida, di sicuro amante della sorella gemella e probabilmente padre dei suoi due figli. Troppo per un sol uomo, ha obiettato qualcuno.

Per la costruzione del personaggio non ho scelto il codice narrativo del realismo ottocentesco, ma una dimensione onirica, forse psicoanalitica. Seppur rivisitato, il quadro strutturante del romanzo è quello della tragedia antica.

“Le Benevole” del titolo sono le Erinni della vendetta che, in Eschilo, diventano le clementi Eumenidi. Lei ha detto che decisiva è stata la lettura dell’”Orestea”.

Ma senza dimenticare Sofocle ed Euripide. Il matricidio, l’amore tra fratelli, la follia e gli omicidi che ne conseguono… Nessuno trova bizzarri questi elementi nei tragici greci. Io li ho ripresi, estremizzandoli.

Nel bellissimo capitolo di apertura Max si rivolge ai lettori chiamandoli –chiamandoci- “Fratelli umani”. “Sono un uomo come voi” ripete. Tipo ordinario. Eppure eccentrico. Aguzzino ma dandy melomane e letterato. Anche questa è una contraddizione voluta?

Certamente. Max, all’inizio, si chiede cosa sarebbe stato di lui se non ci fosse stata la guerra. Forse sarebbe stato un banale nevrotico come tanti altri. Quanto al nazista letterato, non si tratta di un cliché: ce n’erano nei lager che ascoltavano Bach o leggevano le liriche di Heine. Per elaborare il mio personaggio, non potevo prendere a modello un Eichmann. Burocrate senza spessore. Totalmente integrato nel sistema. A me serviva un protagonista più lucido, distaccato, riflessivo. Max è perciò dentro e fuori l’ingranaggio.

Grazie a una memoria millimetrica, inverosimile, sovrumana, può raccontarsi in un flash-back lungo 900 pagine. Mentre secondo una frase di Bataille che lei ricorda spesso: “I carnefici sono privi di parola. E quando parlano lo fanno con le parole dello Stato”.

In realtà gli aguzzini parlano. E anche parecchio. Ma tutto ciò che dicono è piatto, inerte. Non si guardano mai dal di fuori. Il rapporto con se stessi resta primitivo, inarticolato. Si pensi alle memorie di Rudolf Hoss. A tutte le volte che parla delle proprie turbe o dell’omosessualità nei lager: lo fa sempre con sguardo da ragioniere, come se quelle cose non lo riguardassero.

Così, quando gli storici provano ad afferrare motivazioni e funzionamento mentale dei carnefici finiscono per trovarsi davanti a un muro.

In testimonianze, atti processuali, memoriali ci sono informazioni dettagliate ma aride. Tipo: il giorno X mi trovavo nel posto Y e abbiamo ucciso tot persone. Nient’altro a cui aggrapparsi. Lo storico può soltanto formulare ipotesi sulle motivazioni possibili. Non ha il diritto di immaginare. Il romanziere sì.

Lei ha lavorato nell’umanitario, dalla Bosnia alla Cecenia. “Senza quell’esperienza”, ha detto, “non avrei mai scritto il libro”. In che senso?

Beh, il contatto diretto con certi bastardi in ex Jugoslavia o nel Caucaso è stato istruttivo.

Nel romanzo c’è una frase esemplare per spiegare il vincolo dell’obbedienza nazista: “Agisci sempre in modo che se il Fuhrer conoscesse la tua azione l’approverebbe”.

E’ vera. Venne pronunciata nel 1934 da un funzionario prussiano del ministero dell’Agricoltura. A citarla è Ian Kershaw nella sua biografia di Hitler. Io condivido le sue tesi. Trovo che siano la sintesi più convincente per spiegare la dinamica del regime.

Vale a dire?

Un meccanismo che vede Hitler molto lontano, in disparte. Il Fuhrer fornisce ai sottoposti indicazioni assai vaghe, criptiche. E tutti fanno a gara per indovinare il suo ermetico volere. Quanto più ci si approssima al segreto intendimento di Hitler tanto più si sale nella sua stima e nella gerarchia. Per questo ci si litiga la gestione della “Questione ebraica”. Perché si sa che è uno dei problemi più sentiti dal Fuhrer. Si scatena così un’intensa competizione fra apparati burocratici.

Lei però insiste sul nesso tra guerra e sterminio.

Il genocidio non è pensabile senza la guerra. Dissociare la Shoah dalla guerra porta a destoricizzarla. E’ una delle tendenze attuali, specie in America. Che le due cose fossero connesse era anche la percezione all’epoca dei fatti. Al processo di Norimberga, sui 32mila documenti dell’accusa, solo tremila riguardano lo sterminio degli ebrei. Per quanto strano possa sembrarci oggi, l’Olocausto era ritenuto uno dei tanti crimini hitleriani. Anche dagli archivi tedeschi risulta che il genocidio era un capitolo, certo pesante, del management nazista nella gestione delle popolazioni.

Nel penultimo capitolo, Max lamenta il lassismo degli Italiani nell’applicazione delle leggi razziali. E la sorella ribatte: “E’ la prova che sono gente sana. Apprezzano davvero la vita. Li capisco: hanno un bel paese, il sole, mangiano bene e le loro donne sono belle”. Simpatico quadretto.

(Risata). Sì, volutamente stereotipato. Ma fino a un certo punto. Prima del settembre 1943, l’Italia rimane sostanzialmente refrattaria ad impegnarsi nello sterminio. Non mi riferisco a coloro che nascondevano gli ebrei, ma alla burocrazia. Come sappiamo, tutto cambia quando i tedeschi assumono il controllo e si avvia una collaborazione più stretta coi fascisti. Detto questo, non ho difficoltà a dire che l’ostruzionismo al genocidio sia dovuto anche al rapporto che gli italiani hanno con la vita.

Lei ha detto di detestare la lettura che registi tipo Visconti o Cavani hanno dato del nazismo. Perché?

In parte ho rivisto il mio giudizio. La caduta degli dei o Portiere di notte hanno certo inaugurato la moda nefasta del nazismo porno-kitsch. Però, seppur con l’estetica del tempo, avevano intuito la relazione sostanziale che esiste tra nazismo e potenza sessuale. E’ un legame molto misterioso che bisogna continuare a indagare.

E “Salò” di Pasolini?

Altra storia. La forza del film risiede nel fatto che Pasolini elimina il registro della seduzione, del glamour, del piacere. Riduce tutto alla crudezza elementare di potere-sesso-morte. Un film coerente. Tutto quel che ha fatto Pasolini ci colpisce per l’assoluto rigore.

Torniamo a Max. Nazista francofono e francofilo. Dopo la guerra s’è fatto una rispettabilità: vicino Calais ha messo su famiglia e un’industria di merletti. Lei aveva anche la Francia nel mirino…

Sicuramente. La Francia non ha ancora fatto i conti col proprio passato. I tedeschi se ne sono fatti carico meglio dei francesi.

 

                                                                       Marco  Cicala