Eva ci ha portati in Paradiso?

Vuoi vedere che Eva ci ha portati in Paradiso?

Causa di ogni male ma anche archetipo del divino: una teologa rilegge il ruolo della prima donna nel racconto biblico della creazione. E anche il serpente, sicuri che fosse cattivo?

 

Ne “Il Venerdì di Repubblica” del 9 luglio 2021, alle pp. 104-105, è pubblicato questo interessantissimo articolo di Giulia Villoresi.

 

C’era un giardino di delizie, irrigato da fiumi e punteggiato da alberi da frutto. Qui regnava Adamo, l’uomo primigenio, maschio di vitruviana perfezione fatto a immagine e somiglianza di Dio. Solo due crepe nella sua esistenza paradisiaca: il divieto di mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, e una solitudine che rendeva vuota persino la bellezza dell’Eden. Per alleviare questa solitudine Dio creò le bestie. Ma non era abbastanza, quindi fece la donna da una costola d’Adamo. La donna, ingannata dal serpente, convinse Adamo a mangiare dall’albero proibito. Così uomo e donna persero la vita eterna ed entrarono nel cielo della natura: nascita, fatica, dolore e morte.

Questa è la versione ufficiale del nostro mito delle origini, di cui l’Occidente cristiano ha tramandato una sola morale: con la donna, copia imperfetta dello stampo originario, ha inizio il peccato, “e per causa tutta sua moriamo” (dal libro del Siracide). In realtà, commentatori e teologi sospettano da tempo che questa storia, nelle intenzioni del Narratore, avesse un significato diverso. Il primo uomo non era maschio, ma maschio e femmina, creatura indifferenziata e poi scissa, come nel mito di Platone, nella coppia primigenia. E cogliendo la mela, Eva ci ha svegliato da un sonno senza sogni, un’eternità senza palpiti, per metterci nelle condizioni –un giorno- di vivere l’Eden in piena coscienza. A questo e ai molti significati rimossi della creazione è dedicato “Eva, la prima donna” di Cristina Simonelli, teologa e docente universitaria, che con questo saggio prova a salvare Eva dalla sua piatta univocità. Perché, spiega, “si devono sempre temere le storie uniche: anche quando sono belle –e non è detto che lo siano- perdere la loro molteplicità causa disagio e può persino generare mostri”.

Per una lettura più accurata, cominciamo dalle parole. Il primo capitolo della Genesi dice che Dio creò “l’adam a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò”. Adam viene da adama, la terra: il termine indica l’umano terrestre e terroso che qui rappresenta chiaramente l’umanità intera. Ma l’anticipazione di quello che diventerà un nome proprio è insidiosa, ed ecco che l’adam si trasforma senza troppa difficoltà in Adamo in persona. Che dunque diventa, nella sua individualità maschile, il primo, l’unico a potersi fregiare del titolo di immagine di Dio (non c’è bisogno di andare lontano: nelle Lettere ai Corinzi Paolo afferma che immagine e gloria di Dio è l’uomo maschio, aner, mentre la donna è gloria dell’uomo). In questa interpretazione l’individuo a cui Dio toglie una costola (o fianco, o metà) è già lui: Adamo.

Viene fatta la donna. Senonché, sulla scena arriva un serpente. Il suo ruolo, e le parole usate per descriverlo, sono della massima importanza per l’interpretazione di ciò che seguirà: l’animale (comunemente un simbolo di sapienza abissale) viene presentato come arum, che nella nostra traduzione diventa astuto, ma che in greco è phronimotatos, “il più dotato di phronesis”, quella stessa dote che i poemi omerici attribuiscono a Ulisse e che Aristotele loda come “la virtù che consente di scegliere la cosa migliore”. In latino si può rendere con prudentia, coraggioso discernimento: tanto è vero che nel Vangelo di Matteo –“siate dunque phronimoi come i serpenti”- l’aggettivo è tradotto proprio così, prudenti, cioè capaci di valutare. Dunque, il serpente che suggerisce alla donna di mangiare dall’albero della conoscenza è arum. E la coppia, appena mangiato il frutto, si accorge di essere erum: non potendo restituire il gioco di parole, i traduttori greci hanno usato gymnoi, uomo e donna si accorgono di essere nudi. La parola però non rende la vicinanza estrema tra l’intelligenza del serpente e la condizione di chi ha mangiato dall’albero della conoscenza.

Tra i due è stata la donna, a ragione o a torto, a stabilire che fosse desiderabile mangiare quel frutto. Soltanto ora, dopo la cacciata dall’Eden, apprendiamo il suo nome: “L’uomo chiamò sua moglie Eva perché fu la madre di tutti i viventi”. In questa frase non sembra esserci alcuna logica: che relazione c’è tra il nome Eva e il suo essere madre di tutti? In effetti, il nome che siamo abituati a restituire come Eva è HWH, che corredato di vocali diventa Hava, nome legato al verbo essere, alla vita stessa. Ma c’è di più: lasciato nella sua forza consonantica (come è d’obbligo per un testo ebraico), manca di un solo yod per essere uguale al tetragramma YHWH: il nome di Dio.

Causa di tutti i mali ma allo stesso tempo archetipo del divino: così ci appare Eva, al netto delle giustificazioni teologiche del patriarcato. Con lei ha luogo la differenziazione dell’umano, e dunque “la possibilità della relazione”. La sessualità, la dimensione erotica, l’amore: il materno. Dalla sua trasgressione, che è desiderio di conoscenza, nasce la forma tipicamente umana di abitare il mondo, un mondo “che è bello e problematico, luminoso e sbagliato allo stesso tempo”. Offrendo il frutto, Eva ha svegliato l’essere umano (anzi l’uomo, a voler essere puntigliosi) da uno stato di ebetudine infantile per gettarlo nella storia, da dove egli, faticosamente, tornerà nel giardino di Dio. E stavolta per goderne davvero. “Chi infatti sensatamente vorrebbe una innocenza ignorante, che dia il nome alle cose e alle persone senza conoscerne il mistero, che ignori le nascite e la gioia, l’amore e il dolore, le risate e le lacrime”? domanda Simonelli. Quella non sarebbe la condizione di un giardino di delizie, ma un’eternità senza palpiti, un sonno senza sogni. Perché, come dicevano i greci, sono difficili solo le cose belle.

 

                                                        Giulia Villoresi