Belli. Sonetti. “Li cavajeri”, 21 aprile 1834

Belli. Sonetti. “Li cavajeri”, 21 aprile 1834

 

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

                   Li cavajeri                  21 aprile 1834

 

E a voi da bravi! Cavajeri jeri,

Cavajer oggi, e cavajer domani!

E ssempre cavajeri: e li sovrani

Nun zanno antro che ffà che cavajeri.                             4

 

Preti, ladri, uffizziali, cammerieri,

Tutti co le crocette a li pastrani.

E oramai si le chiedeno li cani,

Dico che je le dànno volentieri.                                           8

 

S’incavajerà mo qualunque vizzio:

Vojo ride però, co ttanto sguazzo

De cavajeri, ar giorno der giudizzio.                               11

 

Quanno che Gesucristo, arzanno er braccio,

Dirà: “Siggnori cavajer der cazzo,

Ricacàte ste croce, e a l’infernaccio”.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                      I cavalieri

E andiamo avanti così! Cavalieri ieri, cavaliere oggi e cavaliere domani! E sempre cavalieri: e i sovrani non sanno altro che fare cavalieri. Preti, ladri, ufficiali, camerieri, tutti con le crocette agli abiti. E ormai se queste croci le chiedono i cani, io dico che gliele danno volentieri. S’incavalierà adesso (si daranno la croce e l’onorificenza di cavaliere) qualsiasi vizio: voglio ridere però, con tutto questo profluvio di cavalieri, nel giorno del Giudizio. Quando il Cristo, alzando il braccio, dirà: “Signori cavalieri del cazzo, restituite queste croci, e all’infernaccio”.

Analisi.

Un sonetto di Carlo Porta, “E che? Signori miei? Che vi credete”, un duro attacco personale, era rimasto nei limiti di una satira del malcostume politico-nobiliare della società lombarda. Questo sonetto belliano, invece, parte dalle crocette del cavalierato “per costruire un grandioso grottesco satirico che convoca una folla sterminata di gente indegna, appartenente a varie classi e strati sociali (Preti, ladri, uffizziali, cammerieri, v. 5) cui li Sovrani (v. 3) dispensano, con colpevole disinvoltura e complicità, onorificenze immeritate, a sostegno perpetuo di una razza di privilegiati ipocriti e disonesti, che nel giorno del giudizio universale saranno condannati a ricacà le croci e a sprofondare nell’infernaccio: il peggiorativo di inferno nasce, nel v. 14, in continuità con la tensione rabbiosa dei volgarissimi cazzo e ricacàte (vv. 13-14), trasferiti, con geniale icasticità e verisimiglianza psicologica, dalla parlata del plebeo arrabbiato a quello di Gesù Cristo” (Gibellini, cit, III, p. 2733). Il popolano di Belli crede in un Cristo che giudica e castiga chi ha sfruttato la povera gente, acceso dallo sdegno come quando cacciò i mercanti dal tempio.

Altri critici hanno richiamato il gesto del Cristo giudice di Michelangelo nella cappella Sistina, le pagine dell’oratoria sacra del Seicento, il gesto minaccioso di Padre Cristoforo contro don Rodrigo nel capitolo VI dei “Promessi Sposi”. Ma mi piace concludere con il giudizio finissimo del Vigolo che parla di una “orchestrazione fonica, anzi polifonica, delle rime, delle sillabe in allitterazione con giochi di voce quasi da mottetto o madrigale; per poi addentrarsi in una finissima auscultazione delle sonorità studiate: “Cavajjeri jeri, cavajjer’oggi, e ccavajjer domani! E ssempre cavajjeri”… Il sonetto sembra generarsi dal suono del vocabolo “cavajjeri” che cresce e ripullula continuamente da se stesso; e si noti la ripresa delle terzine, accentuata su quel bellissimo “S’incavajjèrà” e la proclamazione finale: “Ssiggnori cavajjer” con l’apocope e l’intercalare fallico di rinforzo. Col titolo il vocabolo “cavajjer” è ripetuto nove volte senza che ciò generi monotonia, anzi ogni volta con diverso e nuovo valore” (Gibellini, ibidem).

 

Il giorno prima, il 20 aprile 1834, Belli aveva scritto:

 

                                      La cantonata der forestiere

 

Lei crederà, milordo, che la gente

Che già ha ppijato pasqua, o che la pija,

Sii tutta gente che ss’ariconcija

De core co Dio padre onnipotente.                                    4

 

Eppuro la faccenna va artrimente,

E ne stamo lontani mille mija.

Qua, appena li bijetti sò in famija,

Servo, sor Dio: nun ze ne fa ppiù gnente.                        8

 

La fia fotte, la madre je tiè mano,

La serva rubba, l’usuraglio strozza,

E l’impiegato buggera er zovrano.                                   11

 

La medéma onestà, l’istessa stima,

Le solit’arte pe marcià in carrozza:

Tutto inzomma arimane com’e pprima.                         14

                                     

L’inganno del forestiero

Lei crederà, milord, che la gente che si è comunicata a Pasqua, secondo il precetto della Chiesa, o che lo farà, sia tutta gente che si riconcilia con tutto il cuore con Dio padre onnipotente. Eppure le cose vanno altrimenti, e stiamo lontanissimi mille miglia dalla verità. Qui, in questa città, appena i biglietti sono in famiglia (sono i biglietti che si ricevono nell’atto della comunione di Pasqua, che poi sono raccolti dal parroco per conoscere chi abbia o no soddisfatto al precetto), arrivederci, signor Dio: non se ne fa più niente. La figlia fa sesso, la madre la favorisce, la serva ruba, l’usuraio fa lo strozzino, e l’impiegato imbroglia il sovrano. La medesima onestà, la stessa onorabilità (tutta esteriore), le solite arti d’imbroglio per andare in carrozza: tutto insomma rimane come prima.

 

              Gennaro  Cucciniello