Giacomo Leopardi, “A se stesso”. Ipotesi di lettura.

Giacomo Leopardi, “A se stesso”, 1835. Ipotesi di lettura.

 

Questo è un lavoro scritto nel marzo del 1993 da una mia studentessa del quinto anno del Liceo Linguistico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre in un compito in classe e ripreso poi per un’elaborazione a casa. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi.

Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.

Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

 

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

Or poserai per sempre,

stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,

ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

in noi di cari inganni,

non che la speme, il desiderio è spento.                                          5

Posa per sempre. Assai

palpitasti. Non val cosa nessuna

i moti tuoi, né di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.                                              10

T’acqueta omai. Dispera

l’ultima volta. Al gener nostro il fato

non donò che il morire. Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera,                                               15

e l’infinita vanità del tutto.

 

Il testo si presenta come un’alternanza di versi endecasillabi e settenari secondo questo schema: i primi due gruppi, di cinque versi ciascuno, sono costituiti da settenario di apertura – endecasillabo – endecasillabo – settenario – endecasillabo di chiusura; il terzo e ultimo è invece formato da sei versi, con l’aggiunta di un endecasillabo. Due sono gli elementi che facilmente consentono l’individuazione di questi tre gruppi: in primo luogo la punteggiatura, giacché si può notare come il punto fermo si trovi in fine verso, esattamente ai vv. 5, 10 e 16. A ciò segue un secondo particolare, ovvero la ripresa dell’imperativo rivolto al cuore (abbiamo, infatti, al v. 6 “Posa per sempre” e al v. 11 “T’acqueta omai”), sempre seguita dal punto fermo.

Ora avrai pace per sempre, cuore mio stanco di inganni. E’ svanita miseramente l’ultima illusione, che io avevo creduto eterna. E’ svanita. Avverto bene che dentro di me non solo è morta la speranza ma anche il desiderio delle care e dolci illusioni d’amore. Riposa per sempre. Hai amato e palpitato abbastanza. Nulla merita le tue emozioni, i tuoi palpiti di passione, né la terra è degna dei tuoi  sospiri affettuosi. La vita è dolore e noia e nient’altro; il mondo è fango. Trova pace, alla fine. Metti da parte definitivamente ogni speranza e fai in modo di non disperarti più in futuro (cioè, non innamorarti più). Agli uomini il destino non donò che la morte.  Ormai, o cuore mio, impara a disprezzare te stesso (per aver ceduto all’inganno o anche come partecipe della vanità del tutto), la natura, l’occulto malvagio potere (il fato) che governa ogni cosa avendo come fine il male universale, a danno di tutte le creature, e il nulla sconfinato che costituisce la realtà.

Riprendo lo spunto interpretativo da una bella e molto minuziosa analisi del critico Angelo Monteverdi. In generale l’intero componimento è caratterizzato da pause molto frequenti, siano esse segnate da virgole o punti. Gli enunciati sono brevi, talvolta brevissimi, in quanto formati da un verbo, solo (Perì, v. 3) o preceduto da un avverbio (Assai / palpitasti, vv. 6-7, in assonanza), senza legami sintattici né di subordinazione né di coordinazione. Questa ossessiva frammentazione scandisce il ritmo triste e sconsolato della poesia, che pure presenta altrettanto frequenti enjambement. Una nota di slancio, dunque, di unione tra i versi, sottolineata ancor più dalle riprese interne, una linea -con stacchi, pause, accavallamenti- di assoluta coerenza e di massima semplicità.

 

  1. 1-5. Il verbo “posare” si trova al verso 1 ed è poi ripetuto al v. 6, ma il tempo cambia: dal malinconico futuro iniziale (quanto mai prossimo, dal momento che è preceduto da Or) all’imperativo, una sorta di invito imperioso al cuore ad accettare il destino. Entrambi sono seguiti dalla connotazione temporale “per sempre”. Ma perché il cuore deve riposare per sempre? La risposta sta nel verbo “perì”, ripetuto per due volte (vv. 2 e 3) in modo da racchiudere il soggetto: “l’inganno estremo” (probabilmente l’amore per Fanny Targioni Tozzetti, la scoperta della vera realtà della donna amata, l’amore, considerato, tra le illusioni, l’ultima a morire, dal poeta erroneamente ritenuto “eterno”). Si noti che tutti gli altri verbi esortativi della poesia, “t’acqueta”, v. 11, “dispera”, v. 11, “disprezza”, v. 13, sono legati in assonanza. Se nel v. 2 “inganno” è in assonanza con “stanco”, aggettivo riferito al cuore, anche la coppia di aggettivi riferiti all’inganno stesso, “estremo” ed “eterno”, vv. 2-3 (in opposizione anche per il significato), è legata da questo richiamo fonico. Se l’inganno estremo perì, di tutti i “cari inganni”, v. 4 (ancora un’assonanza) sono spenti non solo la speranza ma addirittura il desiderio. Il verbo “è spento”, v. 5, usato al singolare si riferisce in particolare proprio a quest’ultimo, il desiderio, e non è forse un caso –ancora una volta- che si trovi in rima con “sento” e in assonanza con “estremo” (è l’auto-consapevolezza della sua nuova condizione spirituale). Il lessico è spoglio, secco, gli aggettivi sono rari, spesso segnalati dall’allitterazione e dall’assonanza.

Nel “Pensiero dominante”, vv. 1-4, Leopardi aveva esaltato la passione abbandonandosi ingenuamente alla speranza dell’amore: “Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente;/ terribile, ma caro / dono del ciel…”. Ora, invece, c’è il distacco definitivo dalla fase giovanile dell’illusione, che era stata recuperata attraverso la memoria nei grandi idilli del 1828-1830. Ora la registrazione dolorosa e severa della fine dell’inganno estremo esalta nel poeta la coscienza di sé, del proprio valore e si risolve in un atteggiamento di disprezzo totale verso ogni creature, verso ogni illusione, persino verso il proprio cuore, debole al punto dall’essersi lasciato sedurre dall’incanto d’amore. Infatti, in “stanco mio cor” (v. 2) i due accenti sulla prima e sull’ultima sillaba (di un quinario tronco) danno un senso d’abbandono a tutta l’espressione, nota G. De Robertis, tanto più sensibile dopo la pienezza del primo verso (cfr. Petrarca, “Mira quel colle, o stanco mio cor vago”, Canzoniere, CCXLII, 1). “Speme” e “desiderio” sono tra i rari sostantivi positivi di questo testo. Essi sono collocati al centro del verso 5, preceduti da una negazione e seguiti da un verbo più che mai negativo.

  1. 6-10. Così pure il verbo “palpitare”, v. 7, che significa vita e gioia del cuore, è coniugato al passato remoto, a voler dire che “omai” ogni attività si è arrestata. E, infatti, nei versi seguenti una fitta sequenza di negazioni (non, nessuna, né, nulla, vv. 7-10) sottolinea l’inutilità dei “moti” del cuore e dei “sospiri”. La vita (altro sostantivo positivo) in realtà altro non è se non “amaro e noia”, v. 9, (da notare, nella frase, l’assenza di qualsiasi verbo). E dopo una pausa troppo lunga, segnata dal punto e virgola, vi è la constatazione che il mondo è “fango” (in assonanza con “amaro”).

In questa parte della poesia possiamo ritrovare alcune parole-chiave: la terra, la vita, il mondo, il fato, il tutto. Esse sono sempre poste in risalto dalla posizione (inizio o fine verso) e quindi si contrappongono a “speme e desiderio” posti, come già scritto, al centro del verso. Il cuore è nuovamente invitato ad acquietarsi, a disperare per l’ultima volta poiché anche la disperazione è un sentimento vitale che cesserà con la morte del cuore. Troviamo un chiasmo tra “T’acqueta omai” del v. 11 e “Omai disprezza” del v. 13. Il cuore deve disprezzare se stesso ma anche e soprattutto quella malvagia e potente natura che domina ogni cosa, avendo come fine il male di tutti gli esseri, e quella vanità posta tra i due termini “infinita” e “tutto”, a spiegare l’infinita caducità dell’universo (dall’Ecclesiaste: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”, vanità delle vanità, e ogni cosa è vanità”. Il nulla è la condizione stessa nella quale gli esseri umani vivono (“la vita, altro mai nulla”, v. 10).

E’ significativo, a questo riguardo, l’LXXXII dei “Pensieri” nel quale Leopardi afferma che “nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé; e l’amore è l’esperienza che nei tempi moderni può condurre più di ogni altra al conoscimento e al possesso di se medesimi (…) Certo, all’uscire di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente (abbastanza) i suoi simili; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e oramai può far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di sé e, per quello che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. Infine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di sé e degli altri”.

  1. 11-16. Nei versi finali, quelli che constatano il dominio onnipossente del male (si noti il violento suggello –quasi nichilistico- della rima “brutto/tutto”), si avverte non un senso di meditazione contemplativa ma un atteggiamento combattivo, intransigente e sprezzante, sostanziato da un lessico povero, quasi senza aggettivi, tutto sostantivato, e da un ritmo spezzato e dissonante con pause profonde e forti enjambements. Qui è la “coperta e misteriosa crudeltà del destino umano” di cui parla Tristano nel “Dialogo di Tristano e di un amico”. Il critico Contini collega in modo persuasivo “il brutto poter” con Arimane, il dio assiro del male cui Leopardi si rivolgeva in un inno abbozzato prima del giugno 1833. Ma già nelle prime pagine dello Zibaldone (I, 103) il nostro poeta scriveva: “Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un voto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi”.

Colpisce davvero la singolare potenza del verso finale, il 16, a cui il metro stesso dà risalto riservandogli un posto a sé. Quanto sono lontani il linguaggio e il tono degli idilli, tutte quelle bellissime parole vaghe e indefinite, quella sintassi chiara, quei versi musicali e dolcissimi, i cari inganni riscattati dalla memoria (v. 4), “l’ombre e le sembianze degli ameni e dilettosi inganni della prima età, le lontane speranze”, mai realizzatesi.

 

                                                                       Monica M.