Nell’epoca del capitalismo globale la borghesia è diventata un fantasma

Nell’epoca del capitalismo globale, la borghesia –che fu all’origine di tutto- è diventata un fantasma.

Si è soltanto eclissata o è morta? E’ stata eliminata? Nel caso, da chi? In un libro, “Il borghese. Tra storia e letteratura”, Einaudi, pp. 186, il critico Franco Moretti la analizza nella grande letteratura, da Defoe a Ibsen, da Conrad a Mann.

L’intervista, condotta da Simonetta Fiori, è stata pubblicata nel “Venerdì” di “Repubblica” del 3 marzo 2017, alle pp. 14-18.

 

Il paradosso non è di poco conto: mentre il capitalismo trionfa ovunque, il suo artefice è uscito dalla storia. Il borghese, chi l’ha più visto? Che fine ha fatto quella figura che per un paio di secoli ha retto la civiltà occidentale e oggi appare pressoché estinta? Per ritrovare i fantasmi di un passato non troppo lontano bisogna andare a casa di Franco Moretti, autore di un saggio importante e sorprendente. L’essenza del borghese, e anche le radici della sua dissoluzione, Moretti è andato a cercarle soprattutto nella forma e nello stile del grande romanzo europeo tra il XVIII e il XIX secolo. Da Robinson Crusoe a Cuore di tenebra, dagli aggettivi vittoriani agli spettri di Ibsen, il destino dell’eroe borghese è iscritto nella sua originaria dissonanza, nella convivenza mai risolta di due anime inconciliabili. Fino all’evaporazione finale.

Il tema è una sorta di filo conduttore esistenziale se è vero che una delle prime “prove artistiche” di Moretti fu la partecipazione poco più che ventenne a Paté de bourgeois (1973), un cortometraggio del fratello minore Nanni che metteva in ridicolo i valori della società borghese. Tutto questo accadeva un’era geologica fa, prima dell’insegnamento alla Columbia University e a Stanford, prima di opere fondamentali che l’hanno reso celebre come studioso “iconoclasta”. E prima dei premi prestigiosi, l’ultimo il National Book Critics Circle, in cui ha battuto un concorrente come Jonathan Franzen.

 

In congedo da Stanford, dove ha fondato il Literary Lab, Moretti vive a Ginevra insieme al figlio Kai e la moglie Teri, che lavora per l’Organizzazione mondiale della Sanità. Ora sta scrivendo un nuovo libro, Teaching in America, bilancio in chiaroscuro sull’esperienza statunitense, mentre in Italia viene tradotto da Einaudi Il borghese. Tra storia e letteratura, uscito quattro anni fa in edizione inglese.

Professor Moretti, perché scrivere un libro sul borghese? Qual è la motivazione più profonda?

E’ una figura che mi ha affascinato fin dai tempi dell’Università, sul finire degli anni Sessanta. Era all’epoca una parola-chiave, molto usata ed anche abusata. In questi decenni sono stato tentato di scriverne ma il tema mi è sempre apparso enorme. Alla fine mi sono detto: questo è un pezzo di storia culturale che s’è perso. Forse io non sono la persona più adatta a rimetterlo in gioco, ma sono la persona che lo vuole fare.

Non è un caso che si sia deciso a farlo quando la borghesia s’è eclissata.

Sì, dopo aver messo a fuoco che il capitalismo è più forte che mai mentre la sua incarnazione sembra svanita nel nulla.

E lei il borghese è andato a cercarselo nella lingua e nello stile della letteratura. A cominciare da Robinson, il primo degli eroi che mette insieme spirito d’avventura e laboriosità.

Stranissimo romanzo, tra i più importanti della storia letteraria. Non è un libro riuscito perché spaccato a metà tra la storia d’avventura e la storia del lavoro incessante sull’isola. Ma il fatto che i due racconti non riescano davvero a fondersi ci dice quanto nella figura del borghese questi due lati siano importanti ma inconciliabili. L’inclinazione avventurosa e la passione per la regolarità ovvero l’etica del lavoro razionale.

Con una seconda inversione di rotta alla fine del romanzo.

Sì, tra cannibali, conflitti armati, lupi e orsi. A differenza di Max Weber –e due secoli prima- Defoe ci suggerisce che il borghese razionale non si libererà mai veramente dei suoi impulsi irrazionali né ripudierà il predatore che è stato un tempo.

L’altro grande personaggio associato alla cultura del lavoro è, sul finire dell’Ottocento, il Marlow di “Cuore di tenebra”. Ma Marlow mostra ancora più di Robinson l’intima contraddizione del borghese.

Nel romanzo di Conrad il borghese etico viene mandato a salvare l’avventuriero irrazionale: mi sembra l’esempio perfetto di questa coabitazione discordante. L’etica del lavoro impone a Marlow di eseguire bene il suo compito: non importa con quale scopo. Così l’incondizionata devozione al suo compito si trasforma in uno strumento di sanguinosa oppressione in Congo.

La letteratura in sostanza è capace di rivelare le molte zone d’ombra d’un sistema di valori. E il momento di maggiore autocritica è rappresentato dai drammi di Ibsen.

Nessun altro s’è concentrato con eguale determinazione sul mondo borghese.

Neppure Thomas Mann?

Praticamente sono gemelli, ma in Mann c’è una costante dialettica con l’artista. Ibsen è l’unico scrittore che guarda il borghese in faccia e gli domanda: allora, che cosa hai portato al mondo?

La risposta non è rassicurante.

Tutt’altro. Il drammaturgo rivela la zona grigia, quella nebbia indistinta fatta di reticenza, slealtà, mezze verità, moralità flessibile. Nella sua opera sfuma il confine tra giusto e legale: una cosa può essere moralmente ingiusta ma formalmente corretta. E non c’è contraddizione inconciliabile tra il borghese onesto e il capitalista fraudolento perché sono le due facce d’una stessa classe sociale.

Lei si sofferma su un particolare personaggio: un imprenditore visionario, dispotico, distruttivo. Quasi una figura profetica della finanziarizzazione dell’economia.

Sì, in Ibsen la borghesia realista viene soppiantata dal distruttore creativo. Al dominio razionale sul mondo subentra il suo dominio irrazionale. Più dei sociologi Weber e Sombart, che pure gli erano contemporanei, Ibsen è capace di mostrare la debolezza dell’anima razionale rispetto a quella megalomane predatoria.

In sostanza, il grande romanzo e la grande drammaturgia ci raccontano ancora più delle scienze sociali le ragioni di un decesso. O forse di un suicidio?

No, non userei questo termine. La borghesia aveva in sé le radici della crisi. E ha messo in moto dei meccanismi che poi l’hanno esautorata. E ora che il centro del capitalismo si sta spostando sempre più verso il continente asiatico, la distanza sarà ancora più accentuata. A Pechino è difficile parlare di cultura borghese.

Anche in America i nuovi padroni del web sembrano distanziarsene.

Una volta ospitammo a Stanford Jurgen Kocka, il più grande storico della borghesia. E la sua analisi fu chiara: ai capitalisti della Silicon Valley manca il senso di una tradizione famigliare e anche il radicamento locale che ha contrassegnato la grande borghesia di radice ottocentesca. Basti pensare a famiglie come gli Agnelli o i Buddenbrook, alla centralità di Torino e Lubecca. Oggi prevalgono figure diverse, senza storia famigliare e connotazione geografica. Sarà interessante vedere cosa accadrà con Trump: il suo arrivo è stato salutato dai signori della rete con una diffusa resistenza, ma non escludo che possa esservi una riappacificazione.

Nel suo libro lei traccia una curiosa analogia tra l’Inghilterra vittoriana e lo stile di vita americano contemporaneo.

Un tratto comune mi sembra l’anti-intellettualismo, che non vuol dire ignoranza. La conoscenza è apprezzata nella misura in cui è utile: vale per la rivoluzione industriale e per quella digitale. Non a caso la figura eroica di entrambe le epoche non è lo scienziato ma l’ingegnere.

Tornando alle motivazioni originarie di questo suo lavoro, non c’è in fondo un po’ di nostalgia per la figura del borghese? Tanto combattuta e irrisa nella sua giovinezza e oggi rimpianta?

Sì e no. Una cosa è rimpiangere Weber o Ibsen, altra avere nostalgia per le strutture di potere di cinquant’anni fa. Certo, se parliamo di borghesia intellettuale, si può avere nostalgia con meno mal di pancia.

Lei viene da lì. Suo padre è Luigi Moretti, insigne epigrafista. Sua madre Agata Apicella, professoressa di latino e greco. Suo zio è Valentino Gerratana, il curatore dei “Quaderni” gramsciani. Che cosa ha voluto dire nascere in quella famiglia?

Le racconto un episodio che può dare l’idea. Da ragazzo pensavo di diventare un fisico, anche grazie all’incontro con una insigne professoressa di matematica, Emma Castelnuovo. Ai miei genitori piaceva l’idea del figlio scienziato, ma quando all’ultimo momento scelsi di iscrivermi a Lettere non fecero una piega. Mio padre venne in camera mia, si sedette sul letto e mi disse: tu hai cambiato idea e a noi va benissimo. Piuttosto: cerca di esser sicuro di seguire ciò che Max Weber chiamava il Beruf, la vocazione.

E lei comprese?

Era la prima volta che sentivo parlare di Beruf, e poco sapevo di Max Weber, ma furono i cinque minuti più importanti della mia vita. Allora un padre poteva parlare così a un ragazzo. Anche questo è molto borghese: trasmettere le cose ma in un modo mediato dalla cultura. Anche a me piacerebbe un giorno poterlo dire a mio figlio. Ma sarò in grado di farlo? E lui di capire?

Suo fratello Nanni è un regista famoso. In una stessa famiglia due figli molto diversi hanno seguito con eguale successo ciascuno la propria vocazione.

Se c’è un tratto comune è forse proprio la cultura del lavoro. Nanni è leggendario per quanto filma e rifilma, io sono alla quinta stesura di un articolo e può vedere da questi segnacci quanto l’elaborazione sia tormentata. Forse agisce in entrambi la convinzione che le cose si possano fare solo in un modo, e finché non sei arrivato a quel modo lì non c’è tregua. Per il resto siamo agli antipodi: Nanni inventa mondi che non esistono; io sono legato a quello che già c’è.

Nel campo della ricerca letteraria lei è considerato un iconoclasta. Perché?

Forse perché non ho un’idea sacrale della letteratura. In realtà sono rimasto fedele ai modelli interpretativi della mia giovinezza, il marxismo e lo strutturalismo, ma li ho spinti molto più in là, in un dialogo sempre più fecondo con le scienze naturali. Poi è arrivato il digitale con gli algoritmi. Così al posto di un sonetto di Shakespeare o di un brano di Dickens nei miei libri si possono trovare diagrammi o mappe geografiche. Ma tutto questo non riguarda “Il borghese”, dove il metodo quantitativo è ridotto al minimo.

Ora però medita di ritirarsi da Stanford, scegliendo la pensione. E’ come se un ciclo si fosse esaurito.

In fondo sì. Sono lo studioso che forse ha più spinto verso la frontiera digitale ma ora devo fermarmi. Ho imparato a usare gli algoritmi, ma non so pensare con loro. Invece vedo che i miei studenti più giovani pensano mentre programmano. Il futuro di questi studi è nei ricercatori capaci di unire l’intelligenza concettuale e quella digitale. Io non lo so fare.

 

                                                        Simonetta Fiori                      Franco Moretti