Gli esseri umani, morali per natura

Gli esseri umani, morali per natura

Con studi su bambini e scimpanzé lo psicologo Michael Tomasello indaga sulle origini dell’etica umana: un frutto dell’evoluzione

 

Questo è un articolo di Giuliano Aluffi, pubblicato nel “Venerdì” di “Repubblica” del 9 dicembre 2016, alle pagine 68-71

 

Sebbene i fatti che accadono nel mondo tendano a farcelo dimenticare, siamo la sola specie vivente dotata di morale. Come abbiamo acquisito questo tratto unico? Un autorevole psicologo americano, Michael Tomasello, ha cercato la soluzione del mistero mettendo a confronto due tipi molto speciali di esseri viventi. Da un lato gli scimpanzé, ossia gli animali che ipotizziamo siano più simili all’antenato comune tra uomini e scimmie. E dall’altro i bambini fino a tre anni, che sono sì pienamente umani, ma non ancora condizionati dalle regole sociali. E risultano preziosi, quindi, per farci un’idea dei comportamenti e delle propensioni che hanno preceduto –e facilitato- il sorgere della civiltà. Tomasello, che dirige l’Istituto di Antropologia dell’evoluzione “Max Planck” di Lipsia, ha riassunto il frutto delle sue più recenti ricerche nel saggio “Storia naturale della morale umana” (Raffaello Cortina editore, 2016, pp. 268, euro 25).

“Il punto di forza degli umani è l’aver sviluppato un senso del “noi” che sfugge a tutti gli altri animali”, ci spiega Tomasello. “Questo ci ha permesso di collaborare nei modi sofisticati che ci hanno portato dalla caccia al mammut all’andare sulla Luna”.

In che modo bambini e scimpanzé differiscono rispetto a questo senso del “noi”? “Un indizio è nella capacità di condividere in modo equo ciò che si ottiene grazie al gruppo”, risponde lo psicologo. “Questa è assente negli scimpanzé. Sì, è vero, a volte danno la caccia a una preda con quello che sembra un lavoro di squadra. Ma non lo è: ogni individuo che si aggrega all’inseguimento lo fa perché spera di essere proprio lui a catturare la preda, così da poterne prendere la parte più grossa. E invece di una suddivisione equa, quello che si vede a caccia conclusa è un parapiglia dove lo scimpanzé dominante prende quello che vuole e gli altri si adeguano”. E se dai rami della giungla ci spostiamo al più tranquillo ambiente dei laboratori del Max Planck il risultato non cambia: “Nelle prove sperimentali in cui gli scimpanzé devono cooperare, ad esempio tirando tutti insieme una corda per ottenere un cesto di frutta, una volta raggiunto l’obiettivo, la scimmia più forte si prende tutto e la collaborazione si spezza: nei test successivi chi è stato prevaricato non si mostrerà più collaborativo con il prepotente”, spiega Tomasello. “Invece i bambini hanno una tendenza naturale a condividere: anche quando il premio finale è una sola porzione di cibo, si sforzano di suddividerla. Un recente esperimento richiedeva a un gruppo di bambini di tre anni di usare delle cordicelle per avvicinare una cassetta con dei dolci. Portato a termine il compito, la condivisione non è stata solo spontanea ma anche meritocratica: i membri del gruppo erano propensi ad assegnare più cibo a chi aveva lavorato davvero rispetto a chi era rimasto a guardare. Queste finezze fanno sì che l’alleanza resista nel tempo”.

Saper cooperare in maniera stabile è uno dei motivi del successo della nostra specie. “Non è solo una questione di generosità, è più una sensazione del tipo: “abbiamo conseguito questa cosa insieme e quindi dovremmo condividerla”. E quel “dovremmo” è un obbligo che si spiega solo se pensiamo all’esistenza di un “noi”, di un’intenzionalità condivisa che pone degli impegni e degli obblighi in cambio dei vantaggi che promette”. Una qualità di cui, per la verità, gli scimpanzé non sono del tutto privi: “Però solo seguendo le loro “simpatie” personali, quindi favorendo familiari e amici e solo in esperimenti dove non ci sia cibo come ricompensa finale”.

I cuccioli d’uomo appaiono molto più altruisti: “Già a 14 mesi i bambini si prestano volentieri ad aiutare adulti estranei nel raggiungere oggetti fuori portata o aprire porte. E questa è una spinta interna del bambino, perché l’aiuto non aumenta se la madre sta guardando la scena”. Ma il semplice altruismo non basta a creare quel senso del “noi” che nell’evoluzione precede la formazione delle società: “A due-tre anni i bambini non capiscono cosa significhi far parte di un gruppo: riconoscono la mamma, la nonna, gli amici e le altre persone, ma non immaginano che esistano norme e regole a livello di gruppo: la loro moralità si sviluppa solo in riferimento a precisi individui”. Solo tra i tre e i cinque anni inizia a emergere la moralità più complessa, il pieno senso del “noi”. “Che nella storia è nato cooperando”, spiega Tomasello. “Se siamo due uomini primitivi che inseguono un’antilope, dobbiamo impegnarci entrambi per avere successo: magari tu cercherai di spingere l’animale a fuggire verso una certa direzione, dove sai che io aspetto in agguato. Tutti e due sappiamo che se io non eseguo bene il mio lavoro, o se tu non esegui bene il tuo, “noi” falliremo. Questo “noi”, che prevede che ognuno faccia la sua parte, è qualcosa che ci trascende e ci completa. Una volta che sappiamo ragionare in questo modo plurale, possiamo anche facilmente scambiarci i ruoli: ad esempio, se la situazione richiede un cambiuo improvviso di strategia”. Perché la collaborazione ripetuta ci ha insegnato a “pensare come l’altro” e quindi possiamo assumere la sua prospettiva e all’occorrenza il suo ruolo. “E se tutti i membri della tribù possono interpretare un qualsiasi ruolo utile al bene comune, allora tutti meritano di essere trattati in modo equo”, spiega Tomasello. “L’empatia è stata sempre più promossa, perché quelli che ne erano più dotati sono stati favoriti dai meccanismi dell’evoluzione”.

Ciò ha reso più numerosi i gruppi umani, creando però un nuovo problema: quello delle risorse limitate. “Circa centomila anni fa la vita in tribù, che non comprendeva più soltanto i consanguinei, rese necessario distinguere in modo chiaro chi facesse parte del gruppo, contribuendo al benessere e alla difesa dagli estranei. Più ancora dei segni sul viso o delle acconciature, nel tempo si rivelarono efficaci i segni culturali. Un riflesso lo vediamo anche oggi nei bambini: non solo sono più disposti ad aiutare un estraneo se parla la loro stessa lingua, ma hanno anche un forte istinto a conformarsi al gruppo. Li definiamo super-imitatori”, spiega Tomasello.

“All’inizio la differenziazione tra culture è soprattutto meccanismo per identificare ed escludere i cosiddetti free rider, coloro che pretendono di godere delle risorse di un gruppo senza aver contribuito ad accumularle. Poi diventa terreno di conflitto tra la morale individuale –quella che suggerisce di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi ed è ripresa da molte religioni- e quella di gruppo, che può, a seconda delle situazioni, prescrivere diffidenza o ostilità verso chi non ne fa parte”. Quel “noi contro loro” che ancora oggi innerva discriminazioni e conflitti.

 

                                                                  Giuliano Aluffi