Gli scrittori rileggono il mito di Orfeo

Gli scrittori rileggono il mito di Orfeo

Trascende le frontiere. Affronta il limite. Ricompone le divisioni senza violenza. E’ la figura che manca al presente.

 

Giorgio Fontana, in un articolo dell’Espresso del 18 novembre 2018, alle pp. 82-86, ci parla di questo dio che ci parla ancora e che ribadisce il valore delle prove, nonostante i fallimenti.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

I miti antichi parlano spesso di morte, ma non conoscono morte alcuna. Rileggerli alla luce della società contemporanea è un esercizio a volte rischioso, se dimentichiamo il contesto in cui sono nati: eppure è anche un segno di vitalità. Antigone, Narciso, Telemaco e Ulisse continuano a dirci molto di chi siamo, di come ci orientiamo nel mondo. Il nostro destino è ancora in parte il loro. Ma c’è un mito che ho sempre trovato fra tutti il più magnetico e affascinante, e che forse oggi ci parla meglio degli altri: quello di Orfeo.

La storia è nota, benché come di consueto ne conserviamo varianti diverse. Secondo la trama più diffusa, Orfeo era un cantore tracio dalla voce così dolce da ammansire le fiere e costringere alberi e pietre a danzare. Quando la sposa Euridice morì per il morso di un serpente, affrontò gli inferi per riaverla: Caronte e Cerbero si piegarono al suo incanto, e così la terribile Persefone. Gli dèi promisero che Euridice sarebbe tornata in vita, guidata da Orfeo stesso per un tragitto sotterraneo –a patto che egli non si voltasse mai a guardarla. Sul punto di uscire alla luce, il poeta non riuscì a resistere e guardò la sposa scomparire negli abissi, stavolta per sempre. Sconvolto, vagò in solitudine e venne sbranato dalle Menadi: fedele all’amata, aveva rinunciato a unirsi a loro nei culti bacchici.

Una lettura sbrigativa si limita a vedere in questo mito un triste racconto d’amore, con un avvertimento: non desiderare l’indesiderabile; e comunque obbedisci alle parole di un dio. E tuttavia credo che la parte più interessante, quella che parla a noi con stringente attualità, giaccia altrove.

Innanzitutto, l’Orfeo originario ha un valore essenzialmente religioso: è appunto la figura centrale del culto orfico. Nella versione aurorale del mito, Euridice e il gesto di voltarsi –il respicere– nemmeno compaiono. Ed è importante notare che l’orfismo è una gemmazione del culto di Dioniso cui appartengono le stesse Menadi: perché come Dioniso Orfeo vive di contraddizioni, e come Dioniso muore dilaniato.

Nel primo volume de “La sapienza greca” Giorgio Colli ricorda che l’orgiasmo dionisiaco non è soltanto impulso vitale senza controllo: a esso subentra “una rottura contemplativa, artistica, visionaria”. Subentra insomma una “liberazione conoscitiva” tramite il possedimento, la mania che è visione, iniziazione, appunto conoscenza. Nel punto più alto di delirio ecco però giungere la figura distaccata del poeta: “la ripercussione, che nel Dioniso orfico si manifesterà in miti angosciosi e in una prassi ascetica di vita, diverge nella manifestazione, distanziandosi da quella che qui, nel culto orgiastico del dio, si rivela come violenza, nella furia omicida delle baccanti contro ogni maschio aggressore”.

Dunque Orfeo è “la figura mitica inventata dai Greci per dare un volto alla grande contraddizione, al paradosso della polarità e dell’unità tra i due dèi”.

Con il passare del tempo l’orfismo decadde; ma il suo fondatore assunse un elemento sentimentale che gli mancava, ed Euridice divenne un personaggio cruciale del mito. L’autore più noto della rielaborazione è senza dubbio Virgilio, che nelle Georgiche creò il prototipo della perdita amorosa descrivendo lo strazio del poeta in pochi, mesti versi: “Che fare, dove andare, dopo aver perso due volte / la sposa? Con quale pianto commuovere gli inferi,/ con quale voce gli dèi? Lei già fredda passava lo Stige/ sulla barca”.

E così i giochi sono fatti. Per la versione originale il viaggio nel regno di Ade simboleggiava probabilmente la forza magica di Orfeo e la sua capacità di piegare con il canto persino gli dèi sotterranei: del resto l’orfismo era un culto teso alla purificazione del corpo in vista di un’esistenza ulteriore nell’aldilà. Una celebre laminetta di Turi recita: “Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito. Da uomo sei nato dio: agnello cadesti nel latte”. Ma nella lettura consacrata da Virgilio Orfeo emerge sconfitto dal regno di Ade, senza conoscenza da trasmettere ad altri, perdutamente solo: la discesa agli inferi è ormai un destino di condanna amorosa.

Non che il racconto sia privo di fascino, ovviamente. Orfeo affronta l’inferno e i suoi guardiani pur di riavere la donna amata; e soprattutto è un uomo che crede. Crede nel potere salvifico del suo canto e nella saldezza dei suoi sentimenti, anche se alla fine si scoprirà più debole del previsto. Possiamo cogliervi una lezione: ci sono sentimenti irriducibili; non è vero che ogni corpo è sostituibile; l’amore esiste ed è assai esigente. Un correttivo e una consolazione, per questi tempi di passioni tristi, e materia assai appetibile per i narratori di ogni epoca.

In effetti nei secoli Orfeo assunse via via nuovi ruoli: il simbolo del dominio umano sulla natura, in certe versioni un trionfatore delle forze demoniache simile a Cristo, o più comunemente una figura dell’amor perduto e della solitudine artistica. Fu riletto, riscritto, raffigurato e cantato innumerevoli volte e in modi diversi da artisti come Poliziano, Monteverdi, Mantegna, Bellini, Tintoretto, Rubens, Monet, Canova, Gluck, Liszt, Rilke, Camus, Cocteau, Pavese, Savinio, Bufalino e tanti altri.

Con il Novecento Orfeo assume prevedibilmente sfumature esistenzialistiche. Nelle versioni di Cocteau e Pavese il respicere diventa un atto volontario di autodistruzione: “Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore”, dice il poeta alla Bacca che lo interroga, secondo i “Dialoghi con Leucò”. “Cercavo un passato che Euridice non sa”. Lei incalza: “Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata”. E lui: “Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarci nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”. Ecco l’Orfeo moderno: realmente inconsolabile, non in senso psicologico bensì filosofico: la sua dura lucidità, la sua certezza che la vita è nulla, lo priva di qualunque conforto.

E tuttavia lo ripeto: l’Orfeo che ci parla meglio non è l’amante disperato ma il fabbro della parola e la figura del limite: il poeta che abbatte i confini tra natura e cultura, vita e morte, noto e ignoto. Cosa c’è di più attuale di una figura mitica che assume la necessità di trascendere le frontiere, di mediare e ricondurre il diverso al noto? Quale immagine giunge a noi con maggiore urgenza, in tempi di polarizzazioni assolute?

Il grande studioso di orfismo Alberto Bernabé Pajares ha insistito molto sul tema. Nelle “Argonautiche” di Apollonio Rodio il poeta funge da tramite tra gli oscuri messaggi divini e il mondo degli uomini; sconfigge le terribili Sirene (“e la cetra / ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle”); dà la cadenza ai rematori con il canto, lenendone le fatiche; ricompone i litigi dei suoi compagni con un poema. Attraverso la parola e la voce –senza uso alcuno di violenza- Orfeo appiana le difficoltà suggerendo un nuovo modo di agire collettivo.

Ma le cose sono ancora una volta più complesse. Le vicende di Orfeo sono attraversate da forze dialettiche: c’è il trionfo del linguaggio ma anche il suo scacco conclusivo; le belve ammaliate e la perdita di Euridice; la vittoria sulle Sirene e la fine cruenta per mano delle Baccanti: “In questo suo travalicare i confini”, scrive Charles Segal in “Orfeo. Il mito del poeta”, “Orfeo oscilla inoltre nelle opposte direzioni dell’apollineo e del dionisiaco. E la sua morte simboleggia la fine della capacità dell’arte di persuadere, di umanizzare e di blandire le più oscure pulsioni dell’uomo accecato dall’odio e assetato di sangue. E’ questa la prima volta che il suo canto non sortisce alcun effetto”.

Un monito severo, che oggi restituisce il sapore un po’ sgradevole del fatalismo: forse è più importante riconoscere il valore radicale della prova nonostante il suo fallimento. In un saggio sul Citaredo degli Argonauti contenuto ne “La favola di Orfeo” Alessandro Iannucci ha osservato con acume che “la sfida all’Ade, ed è questa la sfida o la ragione stessa della comunicazione poetica, è anche una sfida all’oblio, il Lethe in cui sono confinate le anime dei morti, e che il poeta, maestro di verità, è in grado di vincere attraverso il canto, memoria del passato e garanzia della sua veridicità nel presente”.

In alcune versioni della storia Orfeo sopravvive nel mondo munito della sola testa e prosegue tenacemente nel suo canto: simile al dio celtico Bràn che, decapitato, continuò a intrecciare melodie per decenni. Quale splendida immagine.

Ci ricorda ancora una volta il potere della lingua ben formata e della conoscenza, l’apertura a ciò che appare sconosciuto o feroce: e ci ricorda ahimè quanto fragile sia tutto questo, di fronte alla furia di chi rinuncia alla ragione.

Forse la testa di Orfeo è ancora da qualche parte; forse ancora canta e interpreta; occorre ritrovarla e ascoltarla prima che una nuova barbarie ci seppellisca.

 

                                                        Giorgio  Fontana