L’Alessandro Manzoni che non ti aspetti

L’Alessandro Manzoni che non ti aspetti

A lungo Manzoni ha sofferto il cliché di scrittore conciliante e consolatorio. Invece denunciava violenze e cecità del Potere. Due libri ci rivelano gli altri volti di un genio italiano.

 

Massimo Raffaeli in un articolo nel “Venerdì di Repubblica” del 4 gennaio 2019, alle pp. 98-101, commenta la pubblicazione di due saggi sul Manzoni pubblicati di recente. Raffaeli sottolinea che, come Caravaggio, -altro grande lombardo-, lo scrittore porta in primo piano gli umili, la “gente da nulla”.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Non riuscì mai a scrivere il suo “Affaire Manzoni”, ma Leonardo Sciascia non smetteva di consigliare un libretto pubblicato solo grazie a Benedetto Croce da Laterza, nel 1933, e mai più riproposto. Il titolo, programmatico, è “Il sistema di don Abbondio”; l’autore, Angelandrea Zottoli, letterato e diplomatico inviso al regime fascista dopo i Patti Lateranensi, sosteneva che nei “Promessi Sposi” l’emblema della malvagità non è don Rodrigo (un rottame feudale, un mostro da niente) ma il meschino curato, che già nelle prime righe del romanzo, al cospetto dei bravi di Rodrigo, fa l’inchino e si dichiara sempre disposto all’obbedienza. Quel vecchio ed eccentrico studioso leggeva in don Abbondio il prototipo di una italianità opportunista e trasformista, sempre subalterna al privilegio e alla prepotenza, anzi il battistrada di quanti si sarebbero poi detti gli atei devoti, sordi al dettato del Vangelo eppure inginocchiati, ossequienti ad ogni forma di potere.

Nei suoi rari ma implacabili interventi manzoniani, Sciascia deprecava che il romanzo (scritto dal nipote di Cesare Beccaria, da un convertito che non aveva però ritrattato il principio di eguaglianza fra gli esseri umani) fosse stato reso sterile, innocuo, da decenni di imposizione scolastica, fino a divenire per proverbio un testo conciliante e  consolatorio, anzi la Biblia pauperum del cattolicesimo alla democristiana. Non a caso Sciascia amava ricordare quel che pochi in effetti rammentano, e cioè che il romanzo, se da un lato pare chiudersi al capitolo XXXVIII con un lieto fine evanescente, dall’altro si riapre di colpo e atrocemente con la sua necessaria appendice, la “Storia della Colonna infame”, dove Manzoni rilancia a tutto campo e tiene a precisare che il peccato a questo mondo non è altro se non la violenza, la proterva cecità del potere, e che il diritto (come aveva proclamato anni prima nell’Adelchi) è soltanto la sublimazione, o l’astuta contraffazione, della feroce forza che governa in eterno il mondo.

A Sciascia, suo maestro e a lungo interlocutore, rinvia oggi un fuoriclasse degli studi manzoniani, Salvatore Silvano Nigro, con “La funesta docilità” (Sellerio, pp. 210, euro 15), un libro che procede per nuclei espansivi e continue intersezioni, coniugando dottrina e limpidezza di scrittura, a partire da un affaire tanto atroce da restare inespresso nel Manzoni che pure ne fu testimone oculare. E’ il linciaggio (aprile del 1814) del conte Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno Italico sotto il regime di occupazione napoleonica ormai allo stremo: una folla affamata, inferocita, ambiguamente sobillata sia dagli austriacanti sia dai patrioti illusi o ignari, devastò la casa del Prina e lo fece a pezzi strascinandolo come un macabro trofeo. Questo avvenne a due passi da casa Manzoni, che ne tratta elusivamente nelle lettere e sembra ignorare che il suo più grande amico, Tommaso Grossi, ne fa materia addirittura di un poemetto satirico in dialetto milanese, la Prineide. Ma lo scatenamento della folla, la sua furia devastatrice, devono avere avuto su di lui l’effetto di una controprova circa la natura del potere, del suo metabolismo e delle sue dinamiche omicide.

Nigro individua alla pari di un taciuto sottotraccia o di un tabù l’affaire Prina nei capitoli dei “Promessi Sposi” dedicati ai tumulti milanesi di San Martino (1628), i moti per il pane in cui Renzo diviene suo malgrado un agitatore rivoluzionario preso in mezzo tra la folla che vorrebbe linciare il Vicario di Provvisione, il presunto affamatore, e l’ineffabile Ferrer (un pezzo grosso degli occupanti spagnoli, ipocritamente bonario) che entra in scena da ambiguo redentore. Così, Nigro rinviene una simile dinamica nelle altre scene di massa, specie quelle relative alla peste e ai monatti, lasciandosi guidare dalle immagini che lo stesso Manzoni aveva commissionato per l’edizione definitiva del romanzo (1840), pagandole un occhio della testa, le vignette del Gonin direttamente incorporate nel testo alla maniera, oggi si direbbe, di un graphic novel; pietra angolare di quanti successivamente hanno, prima che illustrato, sul serio “disegnato” il romanzo: da Renato Guttuso (le cui tavole sono inserite nella controversa edizione Einaudi del 1960, introdotta da un per una volta improvvido, Alberto Moravia che dà a Manzoni del “realista cattolico” quasi fosse un antesignano del “realismo socialista”) fino a Mimmo Paladino il cui stupendo disegno ispirato al capitolo VI, lo scontro fra don Rodrigo e padre Cristoforo, funge da segnavia sulla copertina di La funesta docilità”.

E al mondo delle immagini si intitola letteralmente “Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo” (Carocci, pp. 247, euro 23), ottimo contributo di Daniela Brogi che ha all’attivo fra l’altro una edizione commentata dei “Promessi Sposi” (1998) a quattro mani con Romano Luperini. Qui non è tanto o solo questione di leggere nella luce/ombra del Gran Secolo il fondale del romanzo, perché di Caravaggio parlò in proposito già Gadda nella sua “Apologia manzoniana” (1927), né di tracciare una diretta filiazione, ma semmai un’affinità elettiva, un meccanismo propulsore che restituisce, scrive Brogi, “visibilità e serietà prospettica a ciò che la storia aveva lasciato nel covile oscuro della dimenticanza”. Caravaggesca non è perciò, da parte del Manzoni, la scelta di un ambiente o di una gamma pittorica, quanto, viceversa, la decisione di condurre in primo piano gli ultimi, di liberare dal comico e dall’aneddotico quanti nel romanzo la voce del potere spregia come “genti mecchaniche” o addirittura “gente da nulla”, quasi si trattasse di vite a perdere, di polvere fastidiosa.

Dare volto e voce a quanti non ne hanno mai avuti perché da sempre subiscono la storia e i suoi fasti da arazzo: questa è la strategia manzoniana che Brogi, in dialogo con una bibliografia e una iconografia ricchissime, concentra nella nozione di realismo non cattolico bensì “cristiano”, per cui gli ultimi davvero possono mostrarsi sulla pagina come fossero i primi. Caravaggio non spiega affatto Manzoni, ma la sua celebre natura morta (la Canestra di proprietà del cardinal Federigo Borromeo) anticipa in allegoria la scelta di rendere evidente la presenza dei senza nome, nature morte di un potere che non li prevede se non come materia bruta da plasmare, utilizzare e buttare. Sono le vittime dei don Rodrigo e, specialmente, dei don Abbondio, sono i più eppure non posseggono nulla se non (ma non tutti, soltanto alcuni, i disperati fra i disperati) quel filo invisibile che Manzoni chiama divina Provvidenza. Era distante da Leonardo Sciascia, non sappiamo se avesse mai letto il libretto di Zottoli su don Abbondio, ma nei pieni anni cinquanta del secolo scorso un marxista lukacsiano di genio, Cesare Cases, sosteneva che, anche se convertito al cattolicesimo, il nipote di Cesare Beccaria era rimasto un rivoluzionario, perché aveva introdotto nel suo grande romanzo un dato assolutamente nuovo per la letteratura italiana: il senso di radicale responsabilità, da parte della società, nei confronti dell’individuo.

 

                                                                 Massimo Raffaeli