Hernàn Cortès, il distruttore dell’impero azteco

Hernàn Cortés, L’enigma del Conquistador.

Geniale avventuriero o genocida? Fanatico della fede o machiavellico opportunista? A Madrid una mostra torna a indagare su personalità e gesta del condottiero che con poche forze fece crollare il mondo azteco e che, mezzo millennio dopo, non smette di suscitare reazioni polemiche.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 6 febbraio 2015, alle pp. 89-91, il giornalista Marco Cicala commenta una importante mostra madrilena sul condottiero spagnolo conquistatore del Messico.

Mi piace ricordare una frase dello scrittore latinoamericano Carlo Fuentes a commento delle conquiste iberiche nelle Americhe: “Il Cristo si impone al Dio degli Aztechi, altra società basata sul sacrificio. Ma nel mondo azteco erano gli uomini che si sacrificavano agli dei. Ora appare un Dio che dice: “mi sacrifico io per voi” e diventa Dio dell’anima, della terra, della fertilità, del mais”.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Pochi anni fa, nella città natale di Medellìn, Estremadura, il monumento a Hernàn Cortés si beccò un gavettone di vernice. Rossa come il sangue delle stragi compiute dal Conquistador nelle Indie occidentali, era il messaggio degli anonimi action painter che in una rivendicazione definirono quella statua “glorificazione crudele del genocidio e insulto al popolo messicano”. Pur sprigionando una certa truce suggestione, la scultura –realizzata nel 1890- stride in effetti parecchio con i canoni dell’odierna correctness. Se non altro perché, alla maniera di un cacciatore di safari, il condottiero poggia il piede trionfante sulla testa di un idolo azteco abbattuto. Subito tacitata dalla diplomazia messicana –che qualificò il gesto come vandalismo, premurandosi di ricordare che il Messico “è orgoglioso della sua doppia identità indigena e spagnola”- la polemicuccia evaporò in un paio di giorni. Però, nel suo piccolo, dava la misura di quanto –mezzo millennio dopo- la memoria della Conquista resti ancora faccenda litigiosa.

E’ perciò con tutte le cautele del caso che si è allestita a Madrid la grossa mostra “Itinerario de Hernàn Cortés”, negli spazi del Centro d’Arte Canal. Quattrocento tra oggetti, dipinti, documenti da 47 musei di tutto il mondo. C’è uno spadone identico a quello di capitan Hernàn e ci sono i coltelli con lama in ossidiana che leggendone da ragazzini ci stregavano di terrore, essendo il pezzo forte del kit azteco per i sacrifici umani.

Per movimentare il materiale espositivo si è fatto ricorso ad astuzie sceniche, ricreando la tolda, transitabile, di una nave dell’epoca o diffondendo negli ambienti le sonorità della giungla tropicale dove, chissà perché, gli uccelli fanno solo e sempre Uh-uh-uèah! Più avvincente un semplice video che, con sottofondo di tamburi indios, ritraccia lo spericolato periplo di Cortés: quasi 13mila chilometri per far implodere in un paio d’anni un impero che ne aveva tantissimi di più. Ma chi era iul tipaccio che con cinquecento uomini, 14 cannoni leggeri e 16 cavalli arrivò a tanto? Sebbene la mostra ce la metta tutta per ricordarcelo, la sua psicologia resta sfuggente. Certo, poche imprese sono state raccontate di prima mano e con dovizia di dettagli quanto la colonizzazione spagnola del Nuevo Mundo, ma in quei racconti la prismatica personalità di Cortés va colta per frammenti indiziari, murata com’è nell’epos sanguinario di cui si rese protagonista.

Hernàn Cortés Monroy Pizarro (era imparentato col Pizarro che invase e conquistò il Perù) Altamirano nacque in data imprecisata tra 1482 e 1485 da famiglia hidalga. Nelle intricatissime guerre castigliane di successione, suo padre s’era schierato con una fazione perdente e il patrimonio della casata ne aveva sofferto. Probabilmente figlio unico, Hernàn non viene su nel lusso, ma nemmeno tra le ristrettezze di cui parlano le agiografie che vorrebbero farne un formidabile self made man emerso dal nulla. Dell’infanzia non sappiamo niente. E’ immaginabile però che, come i rampolli della sua classe, avesse imparato prestissimo a cavalcare e tirare di scherma, e che coi coetanei giocasse a cristiani contro infedeli, magari elettrizzato dai racconti delle sconfitte rifilate ai mori o degli exploit colombiani nelle Americhe. A 14 anni lo mandano a studiare a Salamanca, ma non è dimostrato che Cortés abbia frequentato i corsi della blasonata università. Sembra invece che si sia formato alla scuola domestica di un parente istruito presso il quale alloggiava. Con grande scorno della famiglia non tornò a casa baccelliere, ma con nozioni di latino e di diritto che gli sarebbero venute molto utili per il prosieguo.

Quando nel 1504 salpa per Santo Domingo, Hernàn Cortés è un ventenne altezzoso, non tanto brillante, animato da magmatici furori di affermazione e da una fregola sessuale che lo accompagnerà per un bel po’. Digiuno di cose militari, ha preferito la seduzione delle Indie a quella delle campagne belliche in Italia. Fosse stato per lui, si sarebbe imbarcato pure prima, ma un infortunio boccaccesco l’ha bloccato a terra. Una notte, cercando di intrufolarsi in casa di una giovane maritata, ha fatto crollare un muretto di cinta e, destato dal baccano, il coniuge gli è saltato addosso lasciandolo mezzo morto. Lo sbruffoncello pestato di santa ragione è lo stesso uomo che una quindicina di anni dopo darà prova di doti strategiche e un’attitudine al comando fuori dal comune, una rude capacità di resistenza alle asperità e un intuito tutto speciale nel fiutare i punti vulnerabili di una suntuosa civiltà –per lui marziana- che finirà distrutta, ricostruita, sottomessa.

Ben proporzionato e robusto, il volto tendente al cinereo e non particolarmente allegro… barba quasi nera, scarsa e rada… snello, poca pancia, gambe un filo arcuate””, così, in un ritratto ormai classico, il compagno d’armi e cronista Bernal Dìaz del Castillo descriveva il Cortés che andava facendosi Dux invictissimus delle Indie. Uno che sarebbe rimasto a lungo nel cuore caudillista di certa Spagna perché si impose come ribelle creativo, ammutinato che dribbla le costrizioni politiche, burocratiche, mandatarie, ma per fondare un nuovo ordine, nella fedeltà ai poteri imperiali dei quali è irrequieto emissario.

Inviato dal governatore di Cuba in missione esplorativa nello Yucatàn, nel 1519 Cortés diventa subito un insubordinato freelance della Conquista, agisce senza copertura, vuol far di testa sua. E appena approdato in terra messicana mette a segno tre mosse cruciali: si procura interpreti –tra i quali la famosa schiava/amante Malinche, divenuta sinonimo di tradimento e collaborazionismo- che lo aiutino a decifrare il linguaggio e, soprattutto, la mentalità dei nativi. Quindi affonda le proprie navi per evitare diserzioni. Infine si assicura la lealtà dei vessati indigeni tlaxcaltechi che odiano i dominatori aztechi più degli spagnoli e gli faranno da ascari nella presa di Tenochtitlàn, capitale mexica e mirabile megalopoli lacustre. Senza quel rinforzo, il Ducetto non sarebbe andato lontano.

La febbre dell’oro, gli appetiti predatori eccitarono ovviamente la spedizione, ma sarebbe limitativo ridurre i moventi di Cortés alla sola avidità. Alla truppa che gli chiede di autorizzare saccheggi, lui risponde ridendo che non è venuto “per simili inezie, ma per servire Dio e il Re”. Bugia? Fino a un certo punto. Pur accumulando fortune invidiabili e largamente superiori a quelle dei sottoposti –che infatti se ne lagnarono- Cortés è un cane sciolto a caccia di legittimazione. Ha vista lunga. Per quanto si sia impasticcato l’immaginario con la lettura di romanzi cavallereschi, non cerca l’avventura per l’avventura: attraverso le imprese americane insegue l’unzione imperiale, il Potere. Sa bene che, per quanto attuate nella disobbedienza alle gerarchie, le conquiste verranno approvate secondo la navigata politica del fatto compiuto.

I dissidi tra fazioni indigene sfruttati dal Conquistador; le esitazioni dell’amletico sovrano Montezuma; la soggezione verso gli invasori visti come realizzazione di profezie; la superiorità tecnica degli spagnoli (le armi da fuoco, i cavalli, mai visti da quelle parti, l’uso della ruota nei carri); le epidemie (vera causa del genocidio)… Sulle ragioni che portarono la civiltà mexica a un collasso tanto rapido e spettacolare si continua a discettare. Cercando le ragioni anche nell’incontro/scontro tra sistemi di pensiero. Tra la statica mentalità rituale dei mexica e la scaltra ratio strumentale degli spagnoli che il condottiero incarnerà come un novello Odisseo. Nella famosa scena della partita a bocce dove lo struggente Montezuma prigioniero pizzica il Conquistatore a barare mentre segna i punti, è difficile non avvistare un match tra culture.

Cortés sbarca in Messico con lo spirito di un crociato medievale, ma in corso d’opera –vuoi per la bulimia di conoscenze, vuoi per il machiavellismo con cui si muove- diventa uomo del Rinascimento. Nei resoconti dell’epopea lo vediamo battersi, intrigare, piangere dopo la sonora disfatta della Noche triste e ordinare rappresaglie esemplari, ma sempre preferendo la prudenza alla temerarietà cieca. Altero e distaccato non vuol confondersi con la soldataglia, che però lo venera. Anche perché riesce sempre a scovare soluzioni inventive per cavarsi d’impaccio. Ritrovandosi a corto di polvere da sparo, manda una pattuglia a cercare zolfo in cima al vulcano Popocatépetl. E per l’offensiva finale contro la capitale fa costruire a valle dodici brigantini che poi vengono smontati, trasportati pezzo per pezzo e riassemblati in altitudine.

Imbalsamata a emblema della hispanidad evangelizzatrice e guerriera, demonizzata dal messianismo indigenista, la figura di Cortés sembra riacquistare umanità solo tra le miserie dell’epoca senile. Un crepuscolo che lo vede aggirarsi per la Spagna come un vecchio pugile suonato. Carlo V l’ha fatto marchese, ma –reputandolo a ragione individuo incontrollabile- gli ha ritirato la carica di governatore della Nuova Spagna. Tarlato da rancori e recriminazioni, Cortés si consuma facendo anticamera nei Palazzi. L’imperatore se lo porta dietro nella disastrosa spedizione di Algeri contro i pirati musulmani, ma per il resto evita scrupolosamente di riceverlo. Hernàn passa il tempo a scrivere lettere di protesta, all’occasione qualche poesia. Elegantissimo, sempre di nero vestito, si dà arie da umanista ospitando in casa convegni di politica e filosofia. Avendo dilapidato nell’ostentazione il capitale americano, campa con l’affitto d’una trentina di negozi che s’è comprato a Città del Messico, poi è costretto a impegnare le ultime gioie buttandosi in mano agli usurai. I reduci delle Americhe lo odiano come uno che è scappato con la cassa. Nel testamento lui non li degnerà di una menzione.

Hernàn Cortés vorrebbe morire nelle Indie, ma non ci riesce. La dissenteria lo spegne il 2 dicembre 1547 in un borgo vicino Siviglia. Dopo infinite traversie i suoi scomodi resti riposano oggi in un muro della chiesa di Jesùs Nazareno, a México. L’antica Tenoctitlàn della quale, come moltissimi di noi, Cortés non riuscì mai a pronunciare correttamente il nome. Figuriamoci Popocatépetl.

 

                                                                  Marco Cicala