Sotto il tappeto bello della storia brulicano vermi, scarafaggi, larve. L’opera di P. Camporesi

Quando Camporesi vendicò i “pitocchi”

Filologo eretico, cultore di saperi e sapori, narrò le storie dei vinti

 

Nella “Repubblica” di venerdì 20 ottobre 2017, alle pp. 48-49, Marino Niola commenta il ventesimo anniversario della morte di Piero Camporesi, in occasione di un convegno organizzato a Bologna, dipartimento di Filologia classica, dal titolo “Il gusto della ricerca”.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

“Un signore entra in una stanza dove c’è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi, che tutti hanno sempre considerato come un’opera d’arte; lui lo prende per un lembo, lo rivolta e ci mostra che sotto quel tappeto brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignota e sotterranea”. Lo ha scritto Umberto Eco. Il signore è Piero Camporesi. E il tappeto è la letteratura italiana, che il grande studioso, di cui ricorre il ventennale della scomparsa, sottopose a un amoroso trattamento d’urto. Nel tentativo di ravvivarne trame sbiadite dalla polvere accademica. Di evidenziarne nodi e snodi dimenticati. In realtà, anche se vissuto nell’università, questo straordinario intellettuale si definiva “academico di nulla academia”, prendendo in prestito l’espressione da Giordano Bruno. E in questa scelta c’è l’indicazione di un percorso eretico. Che oggi, grazie alla provvidenziale riproposta delle sue opere da parte del Saggiatore, appare in tutta la sua carica eversiva e anticipatrice, soprattutto alla luce delle trasformazioni dell’ultimo ventennio. E che lui metteva a fuoco con lo sguardo sghembo, capace di tenere insieme materiali disparati. Petrarca e Bertoldo, lo strutturalismo di Lévi-Strauss e l’anatomia seicentesca, la trattatistica religiosa e i ricettari, la scienza sperimentale e gli almanacchi. Ma anche le voci stridenti e le maschere irridenti delle culture popolari, il lazzo dei buffoni, il lezzo dei villani, le allucinazioni degli straccioni, il raggiro dei ciarlatani. Insieme al brontolio dei ventri contadini gonfiati dalla fame. E deformati dalle malattie, dal cibo impuro e guasto. Un pane selvaggio per un’umanità minore. In questa immensa corte dei miracoli, che ha abitato la nostra prima modernità, Camporesi ha compiuto la sua nekya, una discesa negli inferi di un mondo dominato da umori, odori e miasmi di cui ricostruisce la grammatica e la poetica. Fornicando, come amava dire, con la storia alimentare, l’antropologia, la teologia, l’anatomia, senza trascurare classici e autori del canone.

Camporesi ha di inimitabile il modo di comparare l’incomparabile, di compaginare registri culturali dissonanti e di farli risuonare all’unisono in maniera inedita, indisciplinata, visionaria. Capace di scorgere nuove configurazioni laddove altri avrebbero visto confusione. La sua abilità nel giustapporre fino al cortocircuito alto e basso, escatologia e scatologia, nasce da quella che il suo maestro, il grande italianista Carlo Calcaterra, definiva “perplessità interrogativa”. L’opposto dell’idealismo di Croce, il recupero della grande tradizione positivista. “Non l’Italia delle parole, ma quella dei fatti e dei documenti”.

In opere come “La carne impassibile” e “I balsami di Venere” è la vita che irrompe dalle pagine, prima delle classificazioni e delle distinzioni tra generi e categorie, che la ingessano e la ingabbiano. Uno dei grandi meriti di Camporesi è quello di aver ricostruito l’antropologia dell’Italia moderna. Ponendosi il problema, conoscitivo prima che etico, di come far parlare gli ultimi. Ma come fare se “i pitocchi, i subalterni, gli illetterati” non hanno lasciato documenti? Semplice, per Camporesi. Che, forte di un’erudizione sterminata, gioca di sponda tra i documenti e li seziona. Il risultato è una funambolica logopedia delle voci plebee. E qui viene fuori il Camporesi più poietico, sperimentatore, che scava nelle parole sotto le parole. Per cavarne i succhi vitali, la forza evocativa, mitologica, simbolica. Il lucore archetipico e la potenza metaforica che rendono ogni termine capace di andare oltre se stesso. In certe pagine de “Il sugo della vita” la prosa mette in moto una catena di visioni, che la fa decollare dal supporto verbale per proiettarla verso un senso ulteriore. La lingua camporesiana va al di là della sua funzione ordinaria, apre la strada a nuovi piani di evocazione e percezione. Allitterazioni, compitazioni, metafore, iperboli, sinestesie. Un teatro verbale che assegna a ogni parola un surplus metaforico. Una macchina del senso che getta un ponte vertiginoso tra surrealismo e barocco. Sembra impossibile eppure la costruzione tiene. Ed è grazie a questa straordinaria impalcatura linguistica che Camporesi riesce a fare del cibo il fuso intorno al quale scorre la storia italiana. Al centro di tutto il pane, che diventa “soggetto culturale”, materia reale e simbolica dell’esistenza. E nelle trasformazioni degli usi alimentari il maestro vede riflessa l’intera vicenda del nostro paese. Passato dai digiuni forzati dei poveri d’antan all’anoressia dei ricchi di oggi. Quelli che hanno messo la dietetica al posto dell’etica. Facendo della corretta alimentazione un governo della vita, buono “sia all’allevamento dei polli, sia alla crescita dei bambini”. Perché, la società di allora, dove i cuochi già diventano star –Camporesi l’aveva previsto- è la stessa in cui si muore di carote. Come nel caso della signora che non mangiava altro che questo ortaggio, eletto a simbolo di redenzione della carne. La conclusione della parabola è un autentico cupio dissolvi. “Spappolato il fegato, gonfio il ventre idropico, caduti i capelli, sfogliati i peli, adusti i tessuti. Le carni della bella signora erano ormai pronte per il grande volo, per il transito celeste”. Ancora una volta Camporesi ci lascia senza parole.

 

                                                        Marino Niola