Il chiostro-giardino del monastero benedettino

Così l’orto fa il monaco

Perché nei monasteri occidentali non manca mai il chiostro-giardino? Perché la pace eterna si anticipa. In terra.

Uno spazio quadrato adiacente alla chiesa abbaziale, progettato e realizzato per essere vissuto come un giardino. E’ quanto ritroviamo in una pergamena del IX secolo conservata nell’abbazia di San Gallo, che raffigura la planimetria del monastero benedettino così come concepito da quella riforma di Benedetto di Aniane che influenzerà per secoli il monachesimo occidentale.

La vita del monaco, ritmata dall’alternanza tra preghiera e lavoro, concedeva tuttavia alcune ore vissute in uno spazio delimitato da muri con porticato, uno spazio aperto verso il cielo, nel quale il monaco poteva dedicarsi ad azioni gratuite: l’esercizio della bellezza incarnata nel quotidiano attraverso la cura per le piante, la centralità dell’acqua, la linearità ornamentale di una geometria essenziale… Questo era il “cuore verde” del monastero, il chiostro-giardino: un microcosmo ordinato che nutriva la meditazione e la preghiera, uno spazio di silenzio in cui gli occhi potevano posarsi in basso su una riproduzione dell’Eden primordiale o elevarsi verso il cielo, anelito insopprimibile.

I monaci avevano dormitori comuni o celle austere per riposarsi di notte, ma durante il giorno era il chiostro il luogo della loro fatica contemplativa, chiamavano labor e non otium, in contrapposizione alla cultura latina. Un giardino così concepito non era un’invenzione originale del monachesimo benedettino alto-medievale: ispirazioni arabe, archetipi dell’antichità babilonese, persiana e greca non gli erano estranei, tuttavia la sua comprensione simbolica resta tipicamente benedettina. Era uno spazio sconosciuto all’Oriente cristiano, perché il deserto, le foreste, i luoghi impervi ed estremi preferiti dai monaci per il loro insediamento non consentivano ampiezza di spazi edificati. Ma in Occidente questo luogo chiuso ma infinito, silenzioso ma abitato dalla contemplazione, costruito in modo simbolico non mancava mai nella vita dei monaci, che si trovassero in campagna o vicino alla città.

L’espressione hortus conclusus viene dalla traduzione latina della Vulgata di un versetto del Cantico dei Cantici, il libro più meditato e commentato dai monaci medievali. In questo poema l’amante si rivolge all’amata e la invoca, la canta: “Sorella mia, sposa, giardino chiuso (hortus conclusus), fonte sigillata (fons signatus)..” (Ct, 4, 12). L’amante innalza un canto alla bellezza dell’amata, la insegue, la chiama a sé, confessa che gli ha rapito il cuore, che i suoi abbracci sono più inebrianti del vino: per questo l’amata è un giardino chiuso che solo a lui si apre, una fonte sigillata cui lui solo ha accesso e può dissetarsi… Linguaggio erotico, che si nutre di immagini quotidiane e straordinarie insieme: la bellezza di un giardino con piante, fiori e frutti, la trasparenza dell’acqua di una fontana che irriga e dà vita…

Non sorprende che siano passate a indicare uno spazio di riposo, di contemplazione, di vita piena (lo shalom ebraico) dove regna solo l’amore, la comunione. Questa immagine del giardino riecheggia l’Eden, il giardino dell’in-principio in cui Dio aveva posto l’adam, il “terrestre” da lui creato; ma al contempo evoca il giardino escatologico, il Pardes, il Paradiso, luogo destinato a essere riposo dalle fatiche del duro mestiere del vivere, luogo di pace, delizie e vita piena perché la morte sarà stata vinta. Il monaco, assiduo frequentatore delle Scritture, aveva queste immagini davanti agli occhi e questa speranza in fondo al cuore: così il chiostro, il giardino chiuso cui poteva accedere quotidianamente era per lui una primizia, un pegno, un’anticipazione della realtà che lo attendeva.

Guglielmo Durando nel XIII secolo scriveva: “Il chiostro celeste significa il Paradiso, dove ci sarà un solo cuore”. Ecco il giardino come grande metafora della vita interiore e del cuore unificato: protetto da una recinzione, luogo di lavoro liberato dall’obbligo, terreno di semina e di raccolto, spazio di attesa e di meditazione. Nei monasteri non manca mai e costituisce per il monaco il luogo più caro dopo la cella, lo spazio dove solitudine e comunione si incontrano: con parole discrete e con voce pacata, il monaco può parlare con i fratelli, passeggiando sotto i portici quando piove, sostando all’ombra delle piante nei giorni di calura, godendo dei tiepidi raggi di sole invernali che scendono dall’alto quasi a baciarlo…

Lì può vivere l’arte rara della quiete che dà pace.

Enzo Bianchi

Articolo pubblicato nel “Robinson di Repubblica”, 11 novembre 2018

L’autore è monaco laico e saggista, fondatore della comunità monastica di Bose, priore fino al gennaio 2017. Tra i suoi ultimi libri, “La vita e i giorni. Sulla vecchiaia” , il Mulino e “L’arte di scegliere. Il discernimento”, San Paolo Edizioni.