Tommaso Campanella, “Il popolo e la plebe”, 1601

Tommaso Campanella, “Della plebe”, 1601

Il popolo è una bestia varia e grossa,

ch’ignora le sue forze; e però stassi

a pesi e botte di legni e di sassi,

guidato da un fanciul che non ha possa, 4

ch’egli potria disfar con una scossa:

ma lo teme e lo serve a tutti spassi.

Né sa quanto è temuto, ché i bombassi

fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa. 8

Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona

con le man proprie, e si dà morte e guerra

per un carlin di quanti egli al re dona. 11

Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,

ma nol conosce; e, se qualche persona

di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra. 14

Il popolo è simile a un bestione smisurato che ignora la sue forze vere; e perciò subisce ogni tipo di sopruso, di imposizioni, di punizioni, guidato da un ragazzo che non ha un potere reale, e che egli (popolo) potrebbe scrollarsi di dosso con un piccolo movimento: invece ne ha paura e lo serve a suo piacimento, è uno zimbello di questo fanciullo capriccioso. E non sa quanto è temuto, perché ci sono degli imbonitori (che stanno al servizio dei tiranni) che costruiscono tanti inganni che intorpidiscono i suoi sensi e la sua ragione. Cosa incredibile, stupefacente! Egli si impicca e si imprigiona con le sue mani, poiché i boia e i carcerieri sono popolani, e fa la guerra a se stesso e si procura la morte per un solo carlino (moneta napoletana di scarso valore) mentre ne regala al re e ai nobili una quantità smisurata. Tutto quello che sta fra il cielo e la terra è suo, è del popolo, ma non lo sa, lo ignora; e se qualche persona lo avvisa di questo, tenta di illuminarlo, egli lo uccide e ne seppellisce la memoria.

Sonetto: lo schema è ABBA, ABBA, CDC, DCD.

Il testo fu scritto in carcere, a Napoli, forse nella seconda metà del 1601. Campanella, dopo l’esperienza della fallita rivolta calabrese, meditava sulle ragioni della sconfitta politica e stava approfondendo, alla luce dei fatti, le sue teorie sociali e culturali. Elaborava che l’ignoranza del popolo-plebe (il nostro autore usa i due termini come sinonimi) è utile a chi lo tiranneggia perché contribuisce a tenerlo schiavo e gli impedisce addirittura di riconoscere quanti si adoperano per illuminarlo e salvarlo. Ciò che rende subalterno il popolo (e perciò non modificabili i rapporti di classe e di potere) è il non riuscire ad avere coscienza di sé. Il popolo, che ha possibilità smisurate, si sottopone ad un fanciullo che non ha vero potere. Il popolo vive nell’apparenza delle cose, senza conoscerle e riconoscerle. E’ il sapiente e fascinoso inganno dei bombassi (parola che vale per il suono, più che per il significato, quasi fonema esotico, strepitosa etichetta verbale), i quali lo tengono prigioniero di false credenze e incantamenti, a bloccarlo e paralizzarlo.

Isoliamo il nucleo concettuale del sonetto schematizzandolo:

Un fanciul che non ha possa : guida (v. 4). E’ il sovrano.

Una bestia varia e grossa: ignora le sue forze (vv. 1-2)

E’ il popolo. stassi a pesi e botte (vv. 2-3)

teme e serve a tutti spassi (v. 6)

è temuto e nol sa (v. 7)

tutto è suo quanto sta fra cielo e terra (v. 12)

appicca, imprigiona e uccide qualche persona che di ciò l’avvisa (vv. 7, 13, 14).

Quindi: il popolo-plebe (ho già scritto che Campanella usa i due termini come sinonimi), che ha possibilità smisurate, si sottomette a qualcuno che non ha un vero potere. Il popolo vive nell’apparenza delle cose, senza davvero conoscerle; è tenuto prigioniero di false credenze.

Nel 1603 Campanella (è il periodo in cui sta lavorando a “La città del sole”), scrive quest’altro sonetto, in cui ribadisce le sue convinzioni:

Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere

Chi pennelli have e colori, ed a caso

Pinge, imbrattando le mura e le carte,

Pittor non è; ma chi possiede l’arte,

Benché non abbia inchiostri, penne e vaso. 4

Né frate fan cocolle e capo raso.

Re non è dunque chi ha gran regno e parte,

Ma chi tutto è Giesù, Pallade e Marte,

Benché sia schiavo o figlio di bastaso. 8

Non nasce l’uom con la corona in testa,

Come il re delle bestie, che han bisogno,

Per lo conoscer, di tal sopravvesta. 11

Repubblica onde all’uom doversi espogno,

O re, che pria d’ogni virtù si vesta,

Provata al sole, e non a piume e ‘n sogno. 14

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

Chi possiede pennelli e colori, e dipinge a caso, imbrattando pareti e fogli, non è pittore; ma lo è chi, pur non avendo inchiostri penne e vaso, possiede le capacità. Né il frate è fatto dal capo rasato e dalle vesti indossate sopra la tonaca. Dunque Re non è chi possiede un grande territorio, ma chi in tutto è religione, sapienza, arte militare, anche se è schiavo o figlio di un facchino. L’uomo non nasce con la corona in testa, come il re degli animali, che hanno bisogno, per riconoscerlo, di una tale sopraveste. Dimostro perciò che all’uomo si deve una Repubblica, o un re che si vesta di ogni virtù dimostrata alla luce del sole e non affidata agli ornamenti esteriori e alle apparenze.

Da tutto quello che è stato presentato ed evidenziato in questi sonetti emerge chiari una convinzione profonda in Campanella e un insegnamento per i posteri: non può esserci trasformazione sociale e politica senza una vera conoscenza; tocca al filosofo e agli intellettuali il compito di istruire, illuminare, guidare l’umanità. Campanella non rifiuta una società gerarchica, ma vorrebbe una gerarchia che si formasse naturalmente, meritocraticamente, in rapporto alle capacità di ciascuno. Ammette come sola sovranità legittima quella fondata non sul privilegio ereditario, ma sulla “virtù” che nasce dalla sapienza.

Gennaro Cucciniello