Il contributo di Mazzini alla storia d’Italia

Il contributo di Mazzini alla storia d’Italia

Moriva il 10 marzo 1872, centocinquant’anni fa, un protagonista del nostro Risorgimento, portatore di una visione profetica e modernizzatrice della lotta per l’indipendenza nazionale.

 

Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 20 febbraio 2022, il giornalista Antonio Carioti organizza un colloquio con tre studiosi, Roberto Balzani, Giovanni Belardelli, Simon Levis Sullam.

 

Il 10 marzo ricorre il centocinquantesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, iniziatore del repubblicanesimo democratico e figura centrale del Risorgimento italiano. Per discuterne le idee e l’eredità ci siamo rivolti a tre storici che se ne sono occupati: Roberto Balzani dell’Università di Bologna, Giovanni Belardelli dell’Università di Perugia, Simon Levis Sullam dell’Università di Venezia.

Quali novità porta l’entrata in scena di Mazzini nella vicenda delle cospirazioni patriottiche?

Balzani. Innanzitutto il primato del tema nazionale. Le precedenti esperienze carbonare chiedevano soltanto l’avvento di regimi costituzionali negli Stati preunitari. Invece la Giovine Italia di Mazzini propone con chiarezza l’unità e l’indipendenza d’Italia, adottando il tricolore come bandiera della rivoluzione nazionale.

C’è anche la rivendicazione della repubblica.

Balzani. Mazzini vuole un’Italia unita, libera, indipendente, repubblicana. Il programma è fatto di tre cerchi concentrici. Il primo, il più esterno, è quello nazionale, che ha grande successo tra i giovani patrioti romantici. Quello intermedio è la repubblica, un regime politico rappresentativo del popolo: un punto che suscita molte più perplessità e tensioni. Il terzo è la religione dell’umanità, che ambisce a unire i popoli in una fratellanza universale nel nome del progresso: su questo terreno sono davvero pochi quelli che lo seguono.

Belardelli. La Giovine Italia sorge nel 1831, quando il suo fondatore ha solo 26 anni. Dobbiamo chiederci perché Mazzini, esule in Francia, raccoglie tanti consensi. In fondo nessuna sua idea è molto originale: le troviamo più o meno tutte nella pubblicistica repubblicana dell’epoca. Ma lui vi aggiunge la spinta all’azione sempre e comunque, che è quasi una scossa elettrica per il mondo sonnolento dei patrioti emigrati. La sua prima iniziativa, la spedizione in Savoia del 1834, è un fallimento, ma colpisce l’immaginario, attira l’attenzione dei giovani. Va ricordato che, almeno in teoria, non si poteva iscrivere all’associazione chi avesse più di 40 anni.

Che cosa rende tanto efficace quell’impulso?

Belardelli. Credo che conti molto la fede religiosa. Mazzini si presenta da subito come un profeta e la sua non è una verniciatura propagandistica per attirare adesioni in un Paese cattolico. Certo, sono pochi i seguaci che abbracciano in pieno la sua concezione un po’ confusa di Dio e della trascendenza, con tanto di credenza nella reincarnazione. Ma è invece molto efficace il suo appello al sacrificio e al martirio in nome della patria. Mazzini crede veramente di rappresentare una volontà superiore e riesce a imporre nell’immaginario risorgimentale l’idea che si debba dare la vita per la causa. Il suo è quasi un uso politico della morte.

Sullam. Aggiungerei che la Giovine Italia è forse il primo partito politico in Europa. Una formazione che riunisce militanti attorno a un programma politico, si dota di un periodico, adotta slogan che riflettono i temi centrali del pensiero del fondatore. Grazie anche alla sua formazione letteraria, Mazzini inventa un’estetica della politica, trasmette un messaggio coinvolgente, evocativo, che anticipa tratti della successiva partecipazione di massa. La sua predicazione sancisce la rottura della nuova generazione con quella precedente, una svolta in direzione nazionale rispetto alle cospirazioni ristrette dei moti carbonari.

Si può definire Mazzini un nazionalista?

Sullam. Bisogna intendersi. E’ il principale interprete di una cultura romantica che afferma l’orgoglio patriottico dell’Italia e di altri Paesi oppressi. Però non contrappone le nazioni, anzi le presenta come sorelle. Qui troviamo i semi dell’europeismo di Mazzini, l’idea della santa alleanza dei popoli che cercherà di concretizzare nel 1834 con la Giovine Europa.

Alcuni hanno visto in Mazzini, nella sua insistenza su Dio, sui doveri e sull’educazione, una vena teocratica e autoritaria, poi sfruttata dal fascismo. Che ne pensate?

Balzani. Mazzini è convinto che il potere venga da Dio, ma non investa il sovrano, bensì il popolo, un’entità indistinta che deve trovare la sua definizione attraverso un impulso morale da diffondere attraverso l’educazione ai valori umanitari. Luogo privilegiato di questa rigenerazione è lo spazio nazionale. Mazzini critica il cosmopolitismo individualista degli illuministi. Crede fermamente nell’unità del genere umano, quindi è estraneo a ogni forma di razzismo, ma ritiene che tale unità debba esprimersi nel concerto delle nazioni affratellate, destinate a emergere dal basso con l’affermarsi di una missione etica che implica il rovesciamento dei poteri costituiti.

Come si esprime il suo richiamo religioso?

Balzani. Mazzini aspira a realizzare una sintesi dei valori di ogni fede che possono essere condivisi a livello universale, depurati dai dogmi, dalle liturgie, dalle gerarchie. Un credo che doveva essere il motore dell’affratellamento dei popoli, non per ragioni d’interesse, ma per il riconoscimento nell’unica famiglia umana attraverso la forma nazionale. Sono concetti tipicamente romantici, che appartengono alla prima metà dell’Ottocento e che in seguito potranno essere interpretati, manipolati, strumentalizzati per i più diversi scopi. Lo farà anche il fascismo, benché nei Doveri dell’uomo, il libro del 1860 che sintetizza la visione ideale di Mazzini, l’autore scriva che il richiamo alla nazione non ha alcun senso al di fuori di una concezione umanitaria. Più tardi, nel 1871, Mazzini condanna apertamente la manipolazione egoistica e aggressiva del nazionalismo che porterà ai conflitti del periodo successivo.

Belardelli. Mazzini appartiene a quello che uno studioso francese, Paul Bénichou, ha chiamato il tempo dei profeti: un periodo in cui era frequente incontrare personaggi che pretendevano di fondare nuovi culti. Mazzini è uno di loro: è convinto che all’appello di un uomo i popoli si sottrarranno, ma a un messaggio di Dio no. Un’Europa organizzata in nazioni, sostiene, non è un mio progetto, ma un disegno divino. Inoltre Mazzini avverte in modo acuto la drammatica cesura storica della rivoluzione francese, si chiede che cosa possa tenere assieme una società di individui liberi e titolari di diritti. E’ il grande interrogativo della modernità, al quale Mazzini risponde proponendo di collegare la democrazia e la nazione attraverso un crisma religioso.

Non c’è un rischio autoritario in questa visione?

Belardelli. Sì, lo ha notato per esempio Salvemini, che parlava di una teocrazia popolare mazziniana. In effetti, se un certo programma politico ha origine divina, non si vede perché consentire la libertà di opinione. Tra la verità e l’errore, tra il bene e il male, non ci può essere libertà di scelta. E Mazzini vede la politica come una lotta contro Satana, per eliminare il male dalla Terra. In questo schema Costituente e Concilio, riforma politica e riforma religiosa sono tutt’uno. Poi naturalmente bisogna distinguere il sistema teorico dall’azione concreta: nel suo esilio inglese Mazzini ha modo di apprezzare il valore della libertà di opinione.

Però il fascismo cercherà di appropriarsi di lui.

Belardelli. Sì, e non sarà solo una mossa strumentale, anche se il patriottismo umanitario mazziniano è distante dal nazionalismo fascista. In fondo i due grandi costruttori italiani del mito della romanità, sia pure in modi diversi, sono Mazzini e Mussolini. E il movimento fascista ha anche una matrice di sinistra, quella del sovversivismo, soprattutto romagnolo, che confluisce nella campagna per l’intervento nella prima guerra mondiale. Molti tra i fondatori dei primi Fasci di combattimento sono repubblicani: per esempio a Bologna Pietro Nenni, che presto prenderà un’altra strada. Non c’è da stupirsi che Mazzini sia stato rivendicato come proprio ispiratore tanto dai fascisti quanto dagli antifascisti. Qualcosa di simile è successo del resto anche tra i marxisti, che si sono combattuti a morte dividendosi tra comunisti e socialisti.

Sullam. Quello di Mazzini è un messianesimo politico: un sistema in cui la religione ha un rilievo centrale e il leader svolge un ruolo di redenzione delle masse grazie al suo rapporto privilegiato con la divinità. C’è dunque nel suo pensiero una spiccata componente teocratica, che gli deriva dall’influenza del proto socialista Henri de Saint-Simon, con cui s’incontra a Marsiglia. Il francese a sua volta gli trasmette anche motivi del pensiero controrivoluzionario, di autore come de Maistre: per esempio l’idea di una nazione missionaria che deve redimere l’Europa.

C’è una radice biblica in tutto questo?

Sullam. Credo di sì. Emerge qui l’idea del popolo eletto, scelto da Dio, tipica di tutti i nazionalismi. Una visione che i patrioti di sinistra, come Carlo Pisacane e Felice Orsini, criticano già negli anni Cinquanta dell’’800. Più tardi contro di essa si scaglieranno pensatori materialisti come Bakunin e Engels.

Però il mazzinianesimo persiste nel ‘900.

Sullam. La prima guerra mondiale segna una riproposta dello slogan Dio e popolo. Molti militari vanno al fronte portando con sé “I doveri dell’uomo”. E tra di loro c’è anche Mussolini: la lettura di Mazzini ha un ruolo importante nel farlo passare dal socialismo all’interventismo e al nazionalismo. Dal primato del popolo come classe il futuro Duce passa a quello del popolo come nazione, in chiave sempre più aggressiva. E questo vale ancora di più per altri esponenti fascisti, come Giovanni Gentile e Giuseppe Bottai, che contribuiscono a formare la religione politica del regime. Credo che sia legittimo interrogarsi su come il culto della patria di Mazzini sia stato una premessa alle trasformazioni che, in un contesto completamente mutato, producono l’ideologia anti-democratica e totalitaria del fascismo.

Torniamo al XIX secolo. Come valutare il fatto che molti ex mazziniani accettano la monarchia sabauda ed entrano a far parte della classe dirigente liberale?

Balzani. La Giovine Italia forma alla lotta per l’indipendenza nazionale una generazione di militanti, i quali più avanti faranno spesso scelte diverse. Ma non bisogna dimenticare che Mazzini non si limita a promuovere l’idea della nazione, ma fornisce un esempio di come governarla durante la Repubblica romana del 1849. Qui per la prima volta, sebbene brevemente, i princìpi mazziniani sono messi alla prova, perché si tiene il primo e unico grande dibattito costituzionale del Risorgimento. Così la famosa teocrazia si traduce nella separazione fra Stato e Chiesa. E prende forma un’idea di governo popolare, con il suffragio universale, l’abolizione della pena di morte, il riconoscimento delle autonomie locali, una concezione della cittadinanza non legata al sangue, ma all’adesione ai valori della Repubblica. E’ una straordinaria esperienza di modernizzazione della politica, che cerca di mettere l’Italia in pari con le più avanzate nazioni europee, in particolare la Francia repubblicana del 1848.

Però è una stagione che dura pochi mesi.

Balzani. Sì e in seguito i suoi protagonisti si dividono. Molti si avvicinano a Cavour e accettano l’idea che il Piemonte sia il fulcro del moto nazionale, altri rifiutano la collaborazione con i Savoia e rimangono fedeli alla visione democratica. Bisogna aggiungere che, dopo la morte di Mazzini, il repubblicanesimo perde contatto con la concezione umanitaria ed europeista del maestro e si concentra nella contestazione della monarchia in Italia. E questo oblio, dopo la fase dell’interventismo nel biennio 1914-1915, favorirà il passaggio di alcuni esponenti di questa corrente al fascismo. Ma c’è anche un’influenza successiva di tutt’altro segno: dopo la seconda guerra mondiale, nella stagione della Costituente, l’esempio della Repubblica romana e della sua Carta fondamentale sarà richiamato anche da appartenenti a tradizioni politiche diverse dal repubblicanesimo di matrice mazziniana.

Insomma si tratta di un’eredità duratura.

Balzani. Mazzini viene contestato da alcuni suoi seguaci sin dall’inizio. Ma la diaspora di coloro che lo abbandonano è feconda, fornisce al Risorgimento energie preziose, portatrici di una concezione moderna della politica. Molti governanti dello Stato liberale sono di matrice mazziniana, per esempio un presidente del Consiglio come Depretis, che viene dai moti di Milano del 1853.

Belardelli. Evitiamo però una visione conciliatorista del Risorgimento per cui tutte le correnti hanno dato il loro contributo al moto nazionale e i contrasti che le dividevano diventano secondari. Mazzini è stato importante soprattutto perché ha sempre insistito sul motivo dell’unità d’Italia, obiettivo che i liberali e i moderati, compreso Cavour, ritenevano inizialmente assurdo, data la condizione di partenza che vedeva la penisola divisa in molti Stati. In questo la diaspora mazziniana ha contato molto, perché ha rafforzato la tendenza verso una soluzione unitaria. Ciò non toglie che tra Mazzini e Cavour si apra, dopo il biennio 1848-’49, uno scontro molto aspro.

Vediamone i motivi.

Belardelli. Mazzini ricava da quegli eventi la lezione che, sulla scorta delle esperienze repubblicane di Roma e Venezia, bisogna proseguire sulla via della mobilitazione popolare. Invece molti democratici suoi seguaci, per esempio Giorgio Pallavicino, ne traggono la conclusione che per battere l’Austria servono cannoni e soldati, quindi bisogna aderire all’idea di Cavour, che procura un esercito potente da mettere in campo attraverso l’alleanza con Napoleone III. Così Mazzini esce dal Risorgimento insieme vincitore e sconfitto: l’ipotesi repubblicana resta una chimera, ma si afferma, nell’unico modo possibile, la soluzione unitaria del problema nazionale da lui auspicata.

Però Mazzini rimane deluso.

Belardelli. Non riconosce come una sua creatura l’Italia nata dagli eventi del periodo 1859-1861. Non è una repubblica, ma un regno, sorto per giunta con il contributo di un despota come Napoleone III. Quindi Mazzini contesta duramente nei suoi scritti lo Stato unitario e genera così la visione di lungo periodo per cui l’Italia è il Paese delle rivoluzioni mancate, delle occasioni perdute, della vittoria mutilata, della Resistenza tradita. E’ uno schema che è stato ripreso infinite volte, da ultimo direi con il mito dell’inchiesta giudiziaria Mani pulite e l’idea fallace che ne potesse discendere una rigenerazione morale.

Sullam. Quando il Risorgimento passa, come diceva Croce, dalla poesia alla prosa, dagli ideali romantici alla costruzione di uno Stato unitario, molti mazziniani aderiscono alla monarchia. Lo fa Garibaldi, sia pure in un percorso dialettico con momenti conflittuali. Lo fa Crispi: “La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. E lo fa Depretis, inventore del trasformismo non in senso deteriore come lo intendiamo oggi, ma come creazione di alleanze parlamentari finalizzate a costruire una nazione moderna. Da una parte si ha l’impressione che la predicazione mazziniana abbia esaurito il suo compito, dall’altra emergono le sue debolezze programmatiche dinanzi alle necessità di governo dello Stato.

Quindi Mazzini finisce in soffitta?

Sullam. Non del tutto. E’ interessante notare che la classe dirigente liberale al principio del ‘900 cerca di integrare il mazzinianesimo nel suo progetto di pedagogia nazionale. E adotta nelle scuole il libro “I doveri dell’uomo”, epurato dei riferimenti alla repubblica con una censura che suscita molte critiche. Quella scelta mostra tuttavia come il paternalismo mazziniano, opportunamente adattato, potesse prestarsi ad assecondare i disegni dei governanti monarchici. Di ciò terranno conto anche esponenti dell’antifascismo come Gobetti e Rosselli, che vedranno in Mazzini un maestro di moralità, ma si terranno a distanza dalle sue teorie e gli preferiranno, sulla scorta di Salvemini, il federalismo democratico di Carlo Cattaneo.

Balzani. Non dimentichiamo però che durante la Resistenza l’azionista Duccio Galimberti scrive che i Doveri dell’uomo andrebbe messo nello zaino di ogni partigiano. Allo stesso modo Ernesto Rossi, nelle lettere dal carcere fascista, scrive che la lezione morale di Mazzini è un elemento di conforto.

Nel favorire un uso conservatore di Mazzini quanto contano la sua critica alla lotta di classe e la sua polemica con Marx?

Balzani. Nei “Pensieri sulla democrazia in Europa” del 1847 Mazzini prevede che il comunismo porterà allo Stato totalitario: la dittatura di una classe di funzionari incaricati di assicurare l’eguaglianza assoluta distribuendo i beni disponibili. A questa prospettiva di soppressione della libertà individuale oppone l’associazione dal basso dei produttori per superare gli effetti negativi dello sviluppo capitalistico, molto evidenti nell’Inghilterra della rivoluzione industriale in cui si trova esule. Mazzini vede bene lo sfruttamento e le disuguaglianze, ma pensa che si possa rimediare attraverso lo sviluppo delle cooperative e delle società di mutuo soccorso. Rifiuta il comunismo, ma si oppone anche a chi crede che il mercato lasciato a se stesso possa autoregolarsi nel modo più proficuo.

Mazzini persegue una sua terza via?

Balzani. Con il giornale “L’Apostolato popolare” si rivolge per primo negli anni Quaranta del XIX secolo agli operai italiani, che all’epoca sono solo piccoli artigiani subalterni, nella consapevolezza dei problemi a cui porterà lo sviluppo industriale. Ma certo la proposta di unire capitale e lavoro nelle stesse mani risulta debole, anche se non va dimenticato che il movimento operaio italiano nasce dall’associazionismo di mutuo soccorso, che è spesso d’impronta mazziniana.

Belardelli. Il primato che Mazzini assegna alla religione della patria fa sì che il suo interesse per l’economia sia scarso. Ciò lo induce a leggere in modo distorto gli sviluppi in corso. Si convince che il conflitto tra capitale e lavoro sia temporaneo. Per lui il vero fulcro dei tempi moderni è la rivoluzione nazionale, non il conflitto di classe. Tant’è vero che accusa i socialisti francesi di avere favorito il colpo di Stato di Luigi Bonaparte spaventando i ceti medi con gli slogan classisti.

Però i mazziniani in Italia mobilitano gli operai.

Belardelli. Sì, va loro riconosciuto il merito di avere dato una prima organizzazione non paternalistica ai lavoratori. Ma ben presto vengono travolti dall’avanzata dei marxisti, che possono contare su un’analisi ben più profonda e matura della società industriale. Mazzini pensa erroneamente che in Italia si possa seguire una via diversa da quella dell’Inghilterra. Al tempo stesso però, nei “Pensieri sulla democrazia in Europa” coglie con precisione il potenziale autoritario del controllo collettivo sui mezzi di produzione. Una critica che prelude a quella analoga che gli autori liberali muoveranno alla pianificazione sovietica.

Eppure Mazzini non è un liberale.

Belardelli. Tuttavia nel suo pensiero c’è uno spirito libertario che lo induce a diffidare di chi pensa di affidare allo Stato la direzione dell’economia. D’altronde la priorità del tema nazionale comporta necessariamente l’interclassismo, l’unità di tutti gli strati sociali intorno all’ideale patriottico: un obiettivo per il quale Mazzini ha bisogno soprattutto dei ceti medi, dai quali provengono i giovani che raccolgono il suo appello. Questo lo porta a trascurare le masse rurali più povere, difficili da coinvolgere. Ma nel suo pensiero c’è un’assoluta coerenza, così come c’è nella posizione di Marx, per il quale invece il richiamo nazionale serve alla borghesia per nascondere il vero conflitto, quello di classe.

Sullam. Dal 1839 in poi Mazzini cerca di integrare la questione sociale nel suo programma, ma lo fa secondo una logica paternalista. La sua visione resta quella romantica e astratta del popolo che deve essere educato alla democrazia, mentre Marx vede nel proletariato un soggetto rivoluzionario attivo e cosciente. E’ vero che nei Doveri dell’uomo Mazzini segnala i rischi degenerativi del comunismo, ma certo non può intuire gli sviluppi che caratterizzeranno il modello sovietico e faranno del marxismo, secondo la definizione di Bobbio, un’utopia capovolta che nell’attuazione pratica nega i valori a cui dice di ispirarsi.

Quindi Mazzini si può considerare un democratico borghese?

Sullam. Fino a un certo punto, perché critica anche la Rivoluzione francese. I suoi Doveri dell’uomo vogliono contrapporsi ai diritti dell’uomo affermati nel 1789. Per Mazzini la democrazia è un dover essere, più che uno spazio per la rivendicazione di diritti. E non a caso i marxisti riusciranno a interpretare molto meglio dei mazziniani le esigenze dei lavoratori italiani, fino alla fondazione del Partito Socialista nel 1892.

 

                                                                  Antonio Carioti