Il significato nuovo dei “Malavoglia” di Verga, secondo lo scultore Emilio Isgrò

Il significato nuovo dei “Malavoglia” di Verga

 

Nel Corriere della Sera del 12 giugno 2022, alle pp. 40-41, è pubblicato un articolo dello scultore Emilio Isgrò, testo che commenta ed elogia il grande romanzo dello scrittore siciliano.

Isgrò non è un critico letterario. Vorrei perciò integrare il suo articolo con qualche precisazione di commento. La prima nota è sullo “straniamento” verghiano, una tecnica del racconto definita teoricamente dai formalisti russi degli anni ’20 del ‘900, ma già anticipata da Tolstoj, e che consiste nell’adottare –per narrare un fatto e descrivere una persona- un punto di vista completamente estraneo all’oggetto. Nei “Malavoglia” i sentimenti autentici e disinteressati che sono propri dei protagonisti vengono spesso filtrati attraverso il punto di vista della collettività del villaggio, che a quei valori è completamente insensibile, e che giudica solo in base al principio dell’interesse economico e del diritto del più forte. Di conseguenza ciò che è “normale”, secondo la scala di valori universalmente accettata, e partecipata dal lettore, finisce per apparire “strano”, subisce una deformazione che ne stravolge la fisionomia. Ad esempio, l’onestà di Padron ‘Ntoni, che pur di non mancar di parola riguardo al debito lascia che la sua casa venga pignorata, si trasforma in una vera e propria truffa nell’ottica stravolta di padron Cipolla, che accettava per nuora Mena solo se portava in dote delle proprietà; e sempre per lo stesso motivo Padron ‘Ntoni viene giudicato “minchione” dalla comunità, perché incapace di fare i suoi affari; così pure la purezza dei sentimenti che uniscono Alfio e Mena viene deformata dall’ottica grossolana di zio Crocifisso in una “rabbia” di maritarsi.

Questo tipo di straniamento compare quando sono in scena personaggi “ideali”, come i Malavoglia, che sono l’antitesi del punto di vista dominante nella narrazione. Ma quando sono in scena i loro antagonisti, i personaggi gretti, meschini e insensibili sino alla crudeltà che compongono il coro del villaggio, si verifica una forma di straniamento rovesciata: infatti, poiché il narratore s’identifica totalmente nei personaggi, il loro comportamento ottuso e crudele, invece di apparire nella sua vera luce, viene presentato come se fosse normale, o addirittura degno di approvazione. Ecco l’episodio del pignoramento della casa dei Malavoglia: il comportamento abietto di Piedipapera, che fa da prestanome a zio Crocifisso per spogliare i Malavoglia, e va in giro dicendo che essi sono “una manica di carogne”, disonesti, avari e prepotenti, è guardato dal “narratore popolare” come fosse cosa ovvia e giusta, senza il minimo moto di ripugnanza e di critica. Si veda ancora “La roba” e “Rosso Malpelo”, per averne clamorose conferme.

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

Manzoni a Milano e Verga in Sicilia sono facce inseparabili di un Paese che soprattutto nella cultura ritrova la sua capacità di resistere agli urti della storia. Urti che oggi si chiamano guerra, rovina, paura.

Se I promessi sposi è il romanzo dell’Unità italiana, I Malavoglia è il racconto dell’Italia che si disgrega. E tuttavia Manzoni e Verga sono entrambi credenti. Credono entrambi in una parola: per il primo è la Provvidenza divina, per il secondo il nome di una barca di pescatori.

Quando si parla di Verga, in genere, la critica non manca mai di evocarne il pessimismo, e almeno per questo è naturale che qualcuno chiami in causa La ginestra di Leopardi fiorita miracolosamente nel paesaggio sconfortante del Vesuvio, così come la storia di Padron ‘Ntoni e dei suoi figli non può che fiorire sulla lava sputata in mare dall’Etna.

D’altra parte non c’è arte che non sia intaccata da un minimo di pessimismo. Lo stesso Manzoni, che sembra affogare in un mare di luce –la luce dell’illuminismo lombardo-parigino accesa dal nonno Cesare Beccaria con il saggio “Dei delitti e delle pene”-, a un certo punto non riesce a dipanare la sua storia –quella del romanzo e quella del mondo insieme- senza chiedere soccorso a quella Provvidenza “che atterra e suscita,/ che affanna e che consola”.

Verga dovrà accontentarsi di meno, giacché il suo Dio, come quello di molti siciliani, è un Dio greco che generalmente si chiama fato, destino; e questo indipendentemente dalle convinzioni personali dello scrittore in materia di fede. Sarà il destino a portare la Provvidenza a sfasciarsi sui faraglioni di Aci Trezza con il suo carico di lupini, e sarà il destino a governare l’intero romanzo. Perché Verga rifiuta di fatto il ruolo di ordinatore dell’universo votato a sciogliere gli intrecci e le matasse della grande narrativa ottocentesca. Il ruolo che Flaubert aveva assegnato a se stesso fino a Madame Bovary; e prima, soprattutto, che si profilasse Zola con le sue radicalizzazioni naturaliste. Con Verga scompare letteralmente l’autore. Parlano i personaggi che non sempre si sa da dove vengono e dove vanno. O meglio, vengono da Eschilo, dai cori rocciosi delle sue tragedie. E’ dal coro delle Ondine che nasce Prometeo, come nascono dai cori dell’Orestea Clitennestra, Agamennone, Oreste. E’ da un coro di popolo che balzano Padron ‘Ntoni, Luca che muore a Lissa, la Longa mangiata dal colera, e poi Piedipapera e il timido compare Alfio inutilmente innamorato di Mena, fino alla bellissima Lia che finirà prostituta a Catania o al disilluso, giovane ‘Ntoni che si allontanerà per sempre dal paese mentre il vecchio Padron ‘Ntoni, un tempo uomo solido e benestante, si spegne miseramente in una camerata d’ospedale.

Sono maschere, come le chiamerebbe Pirandello, che forse non hanno quantitativamente lo spazio che Eschilo o Sofocle riservano ai loro personaggi raffigurati sempre a tutto tondo, come è giusto per il teatro che esige un disegno rapido, immediatamente percepibile, pena la distrazione del pubblico. Le figure verghiane vivono apparentemente nella chiacchiera e nel pettegolezzo paesano, e se contassimo le parole a ciascuna dedicate, probabilmente non sarebbero molte. Eppure i personaggi, a cominciare da Padron ‘Ntoni, il patriarca spiantato dalla malasorte come una quercia dal vento, alla fine saltano fuori con assoluto vigore e potenza incredibile, come se fossero sempre al centro proiettando la loro ombra sul palcoscenico e sul pubblico.

Drammaturgo oltre che romanziere –si pensi a novelle come La lupa o Cavalleria rusticana trasferite dalla pagina al teatro alla maniera di Pirandello che dai propri racconti traeva alimento per i testi teatrali- Verga trasforma Aci Trezza in una ribalta per la Sicilia arcaica che vuole affermare un’immagine poeticamente inedita nel concerto delle regioni chiamate a fondare la nuova realtà postunitaria. Per questo serve innovare, nell’ottica di uno scambio compensativo che dia al Sud, e principalmente alla Sicilia, una dignità culturale che diventi, sia pure indirettamente, uno strumento di contrattazione, anche economica, con le più sviluppate regioni del Nord.

I tre grandi innovatori siciliani –Verga, Capuana, De Roberto- non potevano che guardare a Parigi, come già aveva guardato Manzoni, per innescare un procedimento creativo in grado di porli alla testa di un mutamento che ne segnasse la potenza identitaria agli occhi degli altri italiani. E per questo neppure la Francia poteva bastare. Certo era utile invocare il Naturalismo per rassicurare un’Italietta provinciale che aveva bisogno, allora non meno di oggi, di rintracciare fuori dei confini nazionali le proprie patenti di nobiltà. Purché il magistero di Zola fosse vanificato nello stesso momento in cui veniva esaltato: con il risultato che molti europei di libero giudizio finiranno per leggere I Malavoglia, e più tardi Mastro-don Gesualdo, con più gusto e interesse dei testi zoliani.

Il Verismo verghiano, infatti, non tende a rappresentare una verità biologica, come teorizzava il Naturalismo, ma a raccogliere una verità poetica capace di bruciare la stessa biologia. Se i capolavori di Zola poggiano su una lingua eminentemente letteraria, che è poi la lingua della borghesia parigina di quegli anni, Verga capisce immediatamente che dopo I promessi sposi bisogna riaprire la questione linguistica nel nostro Paese. Che non può più essere quella posta e provvisoriamente risolta da Alessandro Manzoni.

Verga la pone e la risolve a suo modo l’antica questione: da grande poeta che non teme di cancellare per sempre le parole apprese a Milano nel salotto della contessa Maffei. La sua non sarà la lingua dell’Innominato e di Don Rodrigo, e neppure quella di Renzo e Lucia, né tanto meno il prezioso idioma dei fratelli Arrigo e Camillo Boito, ma una lingua smaltata di dialetto e di quel gusto per i proverbi popolari che nello stesso periodo l’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè andava raccogliendo nelle campagne siciliane.

Il risultato sarà un magnifico, strepitoso poema destinato a non essere intercettato immediatamente dal pubblico e dalla critica, se non proprio deriso e ignorato. Certo, lo scrittore catanese sa bene che ormai non può più sperare di essere il Dio degli ebrei che crea il mondo lasciando agli uomini il compito di ricrearlo ogni giorno nei loro romanzi, come una creazione inarrestabile somigliante alla fissione nucleare. E pagherà con la solitudine l’azzardo, almeno fino a quando, ormai vecchio e stanco, non lo faranno senatore del Regno. Ma ormai è troppo tardi, e muore due anni dopo, carico d’amarezza e di dolore come il suo Padron ‘Ntoni che ha perduto la Casa del Nespolo.

Di solito, quando si discute criticamente di Giovanni Verga, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Carlo Emilio Gadda e di Pier Paolo Pasolini, se non come eredi dell’opera verghiana –troppo distanti, troppo diversi i loro mondi e i loro linguaggi-, almeno come banditori di una questione linguistica mai veramente risolta in un Paese che legge poco.

Piaccia o non piaccia (e parlo da artista, non da filologo) il vero erede di Verga è proprio l’agrigentino Pirandello, così lontano dal catanese per scelte creative e stili di vita. E nondimeno è la stessa arte a renderli paradossalmente fraterni. Così fraterni che quando Pirandello fu chiamato a Catania per pronunciare il discorso ufficiale per gli 80 anni del più anziano illustre collega, lo definì giustamente scrittore di cose per distinguerlo dal D’Annunzio scrittore di parole. Eppure anche Verga è a suo modo scrittore di parole. E che scrittore! Solo che le sue parole acchiappano il mondo, mentre quelle di D’Annunzio a volte rimangono sulla carta, enfatiche.

Quando affermo che Pirandello è l’erede di Verga, non penso tanto alla commedia campestre Liolà, dove il dialetto gioca un ruolo preponderante, né tanto meno alla miniera di zolfo di Ciàula scopre la luna, ma proprio e soprattutto agli insospettabili Sei personaggi in cerca d’autore, per i quali Verga ha preparato con largo anticipo il palcoscenico fingendo di rinunciare alla sua autorità di scrittore per far parlare unicamente i personaggi. Anche Piedipapera e la Longa, Brasi Cipolla e la Mena, Padron ‘Ntoni e Rocco Spatu sono personaggi in cerca d’autore. E Pirandello lo sa così bene che molti anni dopo, per quella via, riuscirà a ribaltare le sorti del teatro mondiale.

                                                                  Emilio Isgrò