Il film di Veltroni, dall’eredità di Berlinguer a Renzi. Articolo di R. Della Seta. Un ragionamento sulle contraddizioni della Sinistra democratica italiana.

Il film di Veltroni, dall’eredità di Berlinguer a Renzi. Un ragionamento sulle contraddizioni della Sinistra italiana.

Pubblico questo articolo di Roberto Della Seta sul film-documentario di Walter Veltroni, “Quando c’era Berlinguer”, per tre ragioni: 1- è un mio piccolo omaggio al ricordo di Enrico Berlinguer, al suo disinteresse personale, al suo rigore assolutamente fuori dal comune, alla sua coerenza cristallina tra parole e opere. 2- è un tassello ulteriore di una riflessione sulla politica italiana che –nel Sito- ho iniziato nel novembre 2008 con una lezione sulla “Classe dirigente a Bagnoli Irpino, capace di traversare i secoli, dalla società di antico regime fino all’età delle rivoluzioni, di esercitare egemonia e di realizzare il suo comando sulla società locale” (Portale, “Letture testuali”), continuato con un mio articolo del 2010 su “Berlusconi e il berlusconismo” (Portale, “Politica”), proseguito nel 2011 con un mio scritto sul PD, “Nascita ed evoluzione stentata di un partito”, e continuata successivamente con altri articoli. 3- conferma una mia personale esperienza, politica ed amministrativa, verificatasi negli anni Ottanta del secolo scorso.

Sono stato dal 1977 al 1983 Responsabile della Commissione Scuola del PCI a Venezia ed eletto, nel 1980, nel Consiglio Comunale della città lagunare. La giunta era guidata dal sindaco Rigo, socialista, e si fondava sull’alleanza di Pci, Psi, Pri, Psdi (come in tante città d’Italia dopo la grande avanzata comunista del 1975). Sono stati anni interessanti e preziosi per me, anni di rapporti intensi con le strutture del partito (sezioni territoriali, dipartimenti di lavoro), con le associazioni e i movimenti cittadini e provinciali, con i sindacati, con le compagne e i compagni, con le istituzioni. Avevo avvertito subito, però, che l’alleanza di governo della città si basava su una concezione ossificata dell’azione amministrativa: l’efficienza e il buon funzionamento della macchina comunale erano affidati in buona sostanza a una spartizione degli assessorati e ad una gestione degli apparati improntata allo scambio di utilità e di convenienze.

Io ero, allora, presidente della Commissione Cultura ed Istruzione del Consiglio comunale. A volte ci arrivavano delibere che affidavano a persone e a gruppi esterni all’assessorato ricerche e progetti di innovazione educativa (per somme non elevate) che avrebbero potuto benissimo essere demandati al personale interno, da motivare e incoraggiare. Nello stesso tempo ero incalzato da denunce e sollecitazioni –provenienti dalle sezioni del Pci e da altri soggetti sociali- che vigorosamente protestavano per scelte e comportamenti ritenuti clientelari e non adeguatamente giustificati. Sballottato tra esigenze opposte e difficilmente sintetizzabili, rimproverato per aver a volte rinviato le delibere al mittente, impossibilitato a chiedere chiarimenti significativi in Consiglio comunale, avevo ritenuto opportuno iniziare una riflessione nel partito e chiedere -in Segreteria prima e nel Comitato comunale poi- una discussione sulle modalità di relazione tra i partiti e l’amministrazione, tra la città e l’amministrazione, tra i partiti e la società. Ritenevo sbagliata una gestione quasi feudale degli assessorati, spartiti rispettando gli equilibri politici e affidati in esclusiva al partito di riferimento, in evidente contraddizione con la grande mobilitazione e partecipazione popolare sostenute dal Pci e sfociate istituzionalmente nella creazione dei Consigli di quartiere e degli organismi collegiali della scuola. La discussione non fu nemmeno iniziata e la mia richiesta fu liquidata con l’accusa di velleitarismo e con la constatazione che sarebbe stato immediatamente messo in crisi qualsiasi modello di alleanza. Così si era fatto in tutti gli anni precedenti e così si doveva continuare a fare. Fu inutile osservare che, senza radicali innovazioni in questo modo di procedere, senza un netto rifiuto di apparentarsi a comportamenti di “macchine di potere e di clientela”, non sarebbe stato difficile per il Psi cambiare cavallo e ritornare alla collaborazione con la DC.

Nel novembre del 1983 presi atto della situazione, del punto morto al quale si era arrivati e mi dimisi dal Consiglio comunale di Venezia. Dopo le elezioni amministrative del 1985 DC e PSI rifecero l’alleanza ed esclusero il PCI dal governo della città. Nel frattempo Enrico Berlinguer era morto nel giugno del 1984. Nella buriana di Tangentopoli del 1992-’93 un influente consigliere regionale veneto del Pci fu trovato nel libro paga della Fiat.

Arriviamo all’oggi. E’ interessante ed istruttivo lo spettacolo al quale assistiamo quotidianamente ed è strano che sorprenda molti di noi. Per dirla con M. Bracconi, molti dirigenti del Pd e della Sinistra si sono indegnamente trasformati in casta: perché ora si lamentano della furia rottamatrice di Renzi? I parlamentari dei Cinque Stelle professano un giorno sì e l’altro pure lo sterminio politico degli avversari: perché si vittimizzano quando gli avversari non li ascoltano? I banchieri si sono riempiti di derivati spaventosi: perché pontificano contro recessione e debito pubblico? I nostri sindacalisti hanno costruito negli anni una collaudata corazza a difesa dei loro privilegi: perché strepitano quando non si dà spazio ad una concertazione paralizzante? Quasi tutti i “media”, sia giornalistici che televisivi, hanno “normalizzato” i comportamenti e gli argomenti dei partiti e dei movimenti cosiddetti “populisti”, li hanno resi accettabili, li hanno valutati eccentrici ma stimolanti, senza svolgere davvero quel ruolo di controllo e critica che invece esercitano a iosa verso la politica tradizionale sollecitandola a cambiare il senso di distacco elitario che essa promana: perché poi discettano sul degrado antropologico che si è verificato nel nostro beneamato paese? Gli italiani hanno tollerato per decenni che crescesse a dismisura il debito pubblico, a danno delle future generazioni: perché ora molti strepitano contro l’euro e non si accorgono di quanto sia grottesca la loro richiesta di libertà senza il doveroso contrappeso della serietà e della responsabilità?

Gennaro Cucciniello

Il sogno impossibile di Enrico Berlinguer: un comunismo senza più nulla di comunista.

E’ un documentario ma sembra fiction. Sta qui, io credo, la forza e originalità del film, “Quando c’era Berlinguer”, firmato da Walter Veltroni: nell’alchimia sorprendente di immagini e parole di repertorio che raccontando Berlinguer gettano una luce intensa sull’Italia odierna.

Il film, soprattutto, fa vedere con chiarezza una contraddizione apparentemente inspiegabile. Berlinguer era già quando morì, ed è ancora di più oggi, un politico del passato, che –nonostante l’impegno coraggioso e spesso temerario per aggiornare l’ideologia sua e del suo partito- rimase sempre legato a una concezione del mondo, a un’idea di progresso sconfitte dalla storia e, come la storia ha dimostrato, tragicamente infondate. Eppure la sua eredità politica resta attualissima, attualissimo soprattutto l’esempio personale (come si sa, l’esempio è la più efficace delle pedagogie) di un politico che aveva scelto il mestiere della politica per passione civile, alieno –prima ancora che ostile- alla deriva autoreferenziale, affaristica, clientelare che stava trasformando l’élite dei politici in quello che è oggi: una casta disprezzata e detestata da gran parte degli italiani.

Visto nelle immagini del film che descrive il suo sogno impossibile di un comunismo senza più nulla di comunista, visto che muore “sul campo” perché non vuole smettere di parlare al suo popolo malgrado il dolore lo stia uccidendo, Berlinguer sembra un extraterrestre, più l’eroe positivo di un apologo intenso e drammatico che un leader politico vissuto una manciata di anni fa: anche per questo il racconto di Veltroni non solo commuove noi almeno cinquantenni reduci da quella storia, ma può intrigare anche molti che Berlinguer non sanno nemmeno chi fosse.

Però non è fiction il film di Veltroni, quel politico alieno è esistito davvero. E a distanza di trent’anni dalla sua fine e di venticinque dalla fine del PCI, si può constatare con certezza che la sua lezione di sobrietà personale, di tensione ideale, di rigore etico –l’unica sua lezione che ha da dire nel tempo che viviamo- è andata quasi del tutto persa, e che a rifiutare per prima questo lascito è stata la nomenclatura post-comunista (con le dovute eccezioni: l’ex-politico e neo-regista Walter Veltroni la più vistosa). Il PCI e i partiti suoi eredi hanno fatto il contrario di ciò che sarebbe stato saggio e utile: si sono omologati ai peggiori vizi dell’establishment italiano –sviluppando in particolare una formidabile attitudine a coltivare rapporti opachi con gli interessi economici- e invece sono rimasti “diversi” per alcuni tratti deteriori tipicamente “post-comunisti”.

Notazione a margine: tutti i principali artefici di questa immensa insensatezza –tipo buttare il bambino e tenere l’acqua sporca- hanno celebrato entusiasti il film di Veltroni e il suo protagonista. Prevedibile ma in ogni caso impressionante.

Come, quando è avvenuto che gli esecutori testamentari del Pci hanno seppellito quell’unica loro diversità che sarebbe stata prezioso ossigeno per la nascita di una sinistra contemporanea e vincente? La mutazione si è compiuta proprio a cavallo della morte di Berlinguer. Per osservarla all’opera, meglio che guardare alla grande politica è concentrarsi su una dimensione più spicciola: il governo amministrativo di città e regioni. Dall’inizio degli anni Ottanta il Pci “minore” dei sindaci, degli amministratori locali e regionali, cominciò a cambiare pelle, molto prima che il “grande” Pci dei leader nazionali decidesse di cambiare nome.

Cambiò pelle separandosi progressivamente dalla propria “diversità” non solo politico-ideologica ma etica e al tempo stesso strutturando un rapporto più pragmatico e spregiudicato con la società e con l’economia: un rapporto nel quale assumevano uno spazio e un peso crescenti i legami di scambio politico-elettorale con poteri economici consolidati, primi fra tutti quelli legati al “business” immobiliare. A costruire questo nuovo Pci fu in larga parte un ceto politico anch’esso, almeno anagraficamente, nuovo. Vi è un episodio concreto che emblematicamente sigilla questo passaggio. Si svolge a Firenze nel 1989, qualche mese prima che il segretario Achille Occhetto decida di cambiare nome al Pci: dopo anni di discussioni e polemiche l’amministrazione comunale di sinistra, guidata dal socialista Massimo Bogianckino, sta per dare il definitivo via libera a una sostanziosa variante al piano regolatore del 1962, destinata a consentire la realizzazione –in una vasta area ancora libera da costruzioni, di proprietà di Fiat e Fondiaria- di un grande insediamento terziario e direzionale di oltre 4 milioni di metri cubi. L’operazione è fortemente sostenuta dal gruppo di quarantenni che guida il Pci fiorentino –tra questi Michele Ventura, Riccardo Conti, Graziano Cioni- ed è invece avversata da un agguerrito movimento di opinione animato da Italia Nostra e nel Pci, tra gli altri, da Leonardo Domenici, futuro sindaco di Firenze e allora dirigente dei giovani comunisti.

Proprio Domenici investe del tema Occhetto, il quale interviene direttamente sui dirigenti fiorentini del partito chiedendo e ottenendo che il Pci ritiri il proprio appoggio alla variante: “Il comitato federale di Firenze –ricorderà Occhetto a distanza di anni- stava per approvare la variante Fiat-Fondiaria e io ero preoccupato, perché proprio in quel momento ci stavamo sforzando di passare da una linea strettamente produttivista a una imperniata sullo sviluppo sostenibile. Poi, sentivo puzza di bruciato, non mi piaceva una subalternità così forte dei poteri pubblici nell’accettare che una città come Firenze finisse in una morsa di cemento”.

Il progetto Fiat-Fondiaria si fermò, ma quella vicenda rivela che un mutamento assai più profondo si era ormai compiuto: mentre la prima Repubblica si avviava al collasso, nel principale partito della sinistra –che le sarebbe com’è noto sopravvissuto- conquistava posizioni di primo piano un altro partito, il “partito del cemento”. Un partito squisitamente trasversale, che metterà radici a sinistra come a destra. Un partito che ancora fino ad oggi è stato quasi dappertutto il vero “dominus” delle politiche urbanistiche.

Furono queste le “prove tecniche” più precoci della transizione post-ideologica del maggiore partito comunista d’Occidente, e non è un caso che più o meno negli stessi anni la “questione morale” sollevata da Berlinguer incontrasse radicali opposizioni nella “destra migliorista” del Pci.

Ma se il Pci, e poi la filiera derivata Pds/Ds/Pd, sono diventati sempre più somiglianti nei comportamenti pratici a quella immagine –“macchina di potere e di clientela”- coniata da Berlinguer nel 1981 per denunciare la degenerazione dei partiti di governo, invece hanno conservato alcune evidenti stimmate culturali dell’antica appartenenza.

Insomma: da Bersani a Fassino, da Zanonato a D’Alema –per fermare lo sguardo ad alcune prime file- nella “scatola degli attrezzi” dei dirigenti della sinistra riformista formatisi nel partito comunista è rimasto molto delle attitudini mentali di un tempo, quasi riflessi pavloviani della stessa ottusità ideologica che portò ad espellere come virus infettivi i tentativi di vera e profonda innovazione culturale che pure, a cominciare dal “Manifesto”, vi sono stati nella storia del Pci.

E’ rimasta l’abitudine a declinare sviluppo e benessere più o meno negli stessi termini che andavano bene un secolo fa: certo non più “soviet e elettrificazione” ma comunque carbone (Ilva e dintorni), asfalto, cemento; è rimasta l’idea del “primato” della politica sulla società e l’incapacità di riconoscere e accettare l’autonomia dei corpi intermedi e delle forme molteplici di cittadinanza attiva; è rimasto un sostanziale disinteresse per temi e valori “post-materialisti” come l’ambiente e i diritti. E risalendo ancora più indietro, sono rimaste solide tracce di quella tradizionale “doppiezza” tra radicalismo verbale e moderatismo pratico che dalla Seconda Internazionale a Togliatti ha spesso segnato negativamente la vicenda dei partiti socialisti e comunisti in Occidente.

Questo cammino complessivamente contromano aiuta a capire, anche, il disgraziato ultimo miglio dei continuatori della storia del Pci: sconfitti a un passo dall’arco di trionfo nel febbraio 2013 –il loro leader eletto capo del governo- da un capocomico scopertosi capopopolo che li ha messi all’indice come casta decrepita e, nel dicembre 2013, da un homo novus che in pochi mesi si è impadronito della sinistra italiana pensionandoli o riducendoli al ruolo di valletti.

In effetti, quello che sta vivendo il gruppo dirigente Pd di provenienza diessina deve essere, per molti di loro, un autentico psicodramma. Fino a qualche mese fa si consideravano gli artefici o almeno i beneficiari di un’impresa a suo modo miracolosa: i “figli di un dio minore”, come nell’autodefinizione coniata a suo tempo da D’Alema, non soltanto sopravvissuti al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine del Pci, ma divenuti con il Pd di Bersani padroni assoluti della sinistra “post-ideologica” che stava per trionfare sulle rovine del ventennio berlusconiano.

Ma l’ultimo miglio, si sa, è lastricato di trappole e insidie, e dopo meno di un anno sembra passata un’era geologica da quel “fermo immagine”. Oggi il padrone del Pd si chiama Renzi, un alieno rispetto alla storia comunista e post-comunista, e se si scorrono i nomi e le biografie dei membri della sua segreteria o dei suoi ministri si fatica a trovarne qualcuno che abbia portato in tasca la tessera del Pci.

“Merito” di Renzi e “colpa” di una campagna elettorale infelice e di un dopo-elezioni sventurato? Certamente. Ma rivincita, anche, della necessità sul caso. E’ stato per un caso, anzi per una coincidenza –il crollo dei partiti di governo della prima Repubblica sotto i colpi di “Mani pulite” e quasi in contemporanea un altro crollo, del Muro di Berlino, che costrinse il Partito Comunista a mettere in archivio il suo nome e la sua stessa storia- se l’infrastruttura che reggeva il Pci è diventata la spina dorsale della sinistra italiana del XXI secolo. Ma la necessità si è vendicata: troppo incolmabile la distanza degli ultimi figli delle Frattocchie (mitica sede della scuola di partito Pci alle porte di Roma) e dei loro nipotini dalla contemporaneità.

Ecco, Matteo Renzi di più di loro ha soprattutto una cosa: è contemporaneo e non solo per l’età; per questo il suo avvento alla guida del Pd è molto più necessario che casuale. Se poi Renzi s’impegnerà non solo a parole per ridare valore e concretezza a quell’unica eredità ancora spendibile di Enrico Berlinguer, la sua rumorosissima irruzione sulla scena potrà considerarsi persino provvidenziale.

Roberto Della Seta

(l’articolo è stato pubblicato nel giornale “Europa” il 20 aprile 2014)