Quando l’Italia è diventata sonnambula

Quando l’Italia è diventata sonnambula

Negli anni Novanta abbiamo mancato la svolta tecnologica e, piegati da un debito pubblico crescente, ci siamo arenati. Lasciando spazio ai sovranismi e al vittimismo.

 

Ne “La Repubblica dell’8 dicembre 2023 è pubblicato, alle pp. 36-37, questo stimolante articolo di Carlo Bastasin.

 

Uno dei più saggi economisti del ‘900, Amartya Sen, si prendeva gioco dei suoi assistenti ciecamente fiduciosi nelle virtù delle tecniche matematiche, inventando un monito biblico: “Non giacerai con la psicologia e non commetterai scienze sociali!”. Come comprendere, sottintendeva, le dinamiche di una società senza scavare sotto la manifestazione dei fenomeni e toccarne le motivazioni profonde?

Gianni Toniolo, il grande storico dell’economia che ci ha lasciato un anno fa, si irrigidiva di fronte alle scorciatoie sociologiche a cui lo inducevo mentre ci ponevamo il montagnoso interrogativo che avevamo deciso di scalare: che cosa ha portato l’Italia a rattrappirsi? Che cosa ha portato un Paese, poverissimo ai tempi dell’unificazione nel 1861, a superare in reddito la Gran Bretagna all’inizio degli anni Novanta del ‘900 e in produttività gli Usa, per poi smettere di crescere come il bambino con il tamburo di latta descritto da Gunther Grass? Quale conflitto ha bloccato lo sviluppo dell’Italia?

La formula su cui discutevamo era quella del passaggio dall’antagonismo alla disapprovazione di sé. Un Paese da secoli diviso al proprio interno, all’inizio degli anni ’90, aveva rivolto contro sé stesso l’antagonismo che nel dopoguerra si era dispiegato nella tradizionale dialettica: lavoro contro capitale; Nord contro Sud; individui contro Stato; pubblico contro privato. Da quel passaggio, scandito da un’incredibile congiunzione di crisi –finanziarie, fiscali, giudiziarie, politiche, demografiche-, gli italiani erano emersi diffidenti verso il loro Paese. Da allora, una delle fasi di maggior sviluppo planetario, l’Italia avrebbe smesso di crescere e di credere nella vita pubblica, tanto che nessuna maggioranza parlamentare sarebbe più stata rieletta.

Nessun altro Paese vedeva allargarsi, anziché diminuire, i divari tra le regioni, mentre un’antica sfiducia nell’intento comune rimaneva latente. Un sentimento che da sempre alimentava forme di autodifesa poco lodevoli: evasione; corruzione; scarso senso civico; sfiducia nell’istruzione e nella solidarietà. La stessa autodifesa aveva però sedimentato un vitalismo che si rifletteva nel numero di attività economiche che si sviluppavano, come ai tempi delle signorie, o lontane o all’ombra del potere.

Le storiche divisioni avevano causato tensioni sociali compensate dalla spesa assistenziale dello Stato. Tra tutti i grandi paesi sviluppati, l’Italia spicca per il livello di debito più alto degli altri dall’unificazione in poi. Toniolo mi ricordava una frase di Carlo Ciampi: “E’ ricaduto sui bilanci pubblici l’onere di ricomporre conflitti produttivi e di trovare compensazione, più che soluzione (…)”.

Negli anni ’90 il collante finanziario cessa di essere disponibile. L’eccesso di debito si manifesta insieme a Tangentopoli, all’assassinio dei giudici antimafia, alla perdita di credibilità della classe politica, alla frattura del quadro monetario che stabilizzava la lira, alle richieste di secessione e ad altre linee di faglia che si aprono attorno al 1992. Da allora il Paese perde il passo, proprio quando gli altri paesi sono sospinti dallo sviluppo tecnologico e dal commercio globale.

Lavorando su un volume per Cambridge University (“The rise and fall of the Italian economy”), abbiamo scoperto che in quegli anni si stabilisce un legame tra lo spread, l’indice di rischiosità del debito che tutti conosciamo, e gli investimenti in tecnologia. Più il rischio-paese aumentava, e più calavano i prestiti a chi voleva investire in produzioni immateriali, ricerca e tecnologie informatiche, più rischiose delle altre. Le contraddizioni storiche del Paese, riflesse dal debito diventato fonte di instabilità, si traducevano in minor qualità del lavoro e del capitale. Da allora la produttività italiana comincia a declinare, riflesso di una società che perde l’aggancio con le qualità necessarie a costruire il futuro, scienza, giovani, istruzione. In un libro sulle privatizzazioni degli anni ’90, Modiano e Onado sottolineano tutti i difetti del capitalismo italiano. ma quei difetti si intrecciano con decenni trascorsi a risolvere i problemi strutturali del Paese accumulando debito. Le due debolezze si agganciano quando il Paese perde il salto tecnologico: non serve cultura d’avanguardia nell’investire in case (il 110%, il bonus facciate etcc.). In fondo, quale miglior simbolo dell’immobilismo?

Con cautela discutevamo un’ipotesi. Tutti abbiamo imparato a conoscere, insieme all’euro, il tetto del 3% del disavanzo pubblico che bisognava rispettare per essere ammessi nella moneta unica. Per capire la dimensione dello sforzo italiano bisogna sapere che prima degli anni ’90 il deficit del Sud era attorno al 30% e che solo il Nord-Ovest registrava un precario pareggio. In questo squilibrio erano cresciute le tensioni tra Nord e Sud, focalizzate sulle tasse che i cittadini padani ritenevano ingiuste. Quando il tetto europeo viene applicato, il deficit del Sud ha dovuto essere dimezzato e tutte le altre regioni hanno dovuto pagare più tasse del valore dei servizi pubblici che lo Stato restituiva loro, in una dimensione (5-8% del loro reddito) che non ha paragoni altrove.

Nel dopo-euro, la politica, che aveva perso credibilità, si impadronisce del disagio che univa il Paese, trasformando l’antico antagonismo tra Nord e Sud o tra individui e poteri pubblici, in contrapposizione tra tutta l’Italia, vittima, e l’Europa: il secessionismo diventa sovranismo e il liberalismo si trasforma in offerta di protezioni.

La disciplina dell’euro funziona: nel 2005-2008 una parte del sistema produttivo riesce ad agganciare le nuove tecnologie, adattandosi al mercato globale. Ma la ripresa viene soffocata dalla crisi finanziaria globale ed europea, con l’unica soluzione di riformarsi con misure punitive per evitare il crollo del 2011.

Non c’è stato sonnambulismo nella risposta degli italiani. Decine di riforme sono state approvate, i governi sono stati sottoposti a critica continua, i carichi fiscali sopportati, i giovani hanno reagito a modo loro cercando opportunità nel mondo, quelle imprese che non si sono nascoste all’ombra dello Stato hanno lavorato energicamente fuori dal Paese. Ma, dopo decenni, la perdita di produttività e di qualità si era ormai radicata nella società, in un contesto demografico depresso.

In un paese a crescita zero sono emersi nuovi e vecchi antagonismi che non trovano via d’uscita se non invocando ancora una volta più debito. Solo l’assistenza europea ha permesso al debito di restare in piedi. Con la pandemia, uno straordinario aiuto di 200 miliardi dell’UE ha offerto al paese, per la prima volta da decenni, una possibilità di progettazione. Ma nel confronto pubblico lo sforzo di ripensare il Paese non ha presa. Troppo complesso. Troppe incrostazioni da togliere. Poco gratificante non essere più nel ruolo di vittime. Meglio, alla fine, assecondare il paradosso sovranista. Le motivazioni profonde le chiamava Sen. Ma nemmeno lui poteva spiegare se si trattasse di motivazioni consapevoli o istintive. Lì, gli economisti devono fermarsi.

 

Carlo  Bastasin