Il Milite Ignoto che (ri)fece l’Italia

Il Milite Ignoto che (ri)fece l’Italia

 

Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 17 ottobre 2021, nel centenario della traslazione della salma di un soldato italiano disperso della Prima Guerra mondiale, alle pagine 61-63, lo storico Marco Mondini analizza l’episodio che fu capace di mobilitare ed emozionare le masse come mai era successo prima nell’Italia unita.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

Basilica di Aquileia, la mattina del 28 ottobre 1921.

Davanti all’altare sono allineate undici bare coperte dal tricolore. Contengono i resti di altrettanti soldati italiani non identificati, ritrovati sui vecchi campi di battaglia della Grande Guerra ed esumati nelle settimane precedenti. Davanti a loro cammina Maria Bergamas. Suo figlio Antonio, disertore dell’esercito austriaco, è morto in battaglia con l’uniforme italiana e le sue spoglie sono andate disperse. A lei spetta il compito di scegliere una sola di queste salme. Augusto Tognasso, che assiste alla scena e la descrive nel suo “Ignoto Militi” (1922), ricorda la donna mentre si trascina a fatica, trattenendo il respiro, fino ad arrivare di fronte alla penultima bara: poi “chiamando per nome il suo figliolo, cade prostrata e ansimante in ginocchio, abbracciando con passione quel feretro. Il rito era compiuto”.

Il rito è quello del Milite Ignoto. La salma prescelta verrà caricata su un treno speciale, riccamente adornato e vegliato giorno e notte, che partirà per un lento viaggio attraverso stazioni grandi e piccole, da Udine a Venezia, da Bologna a Firenze, talvolta a passo d’uomo, sfilando tra ali di veterani, vedove, orfani, venuti a tributare il proprio omaggio. Arrivato a Roma, il feretro con il soldato senza nome verrà traslato al Vittoriano il 4 novembre 1921, nel corso di una solenne liturgia durata tre giorni, e lì inumato nel cuore simbolico della nazione, destinato a rappresentare la riconoscenza degli italiani per ognuno dei (forse) 600mila caduti del conflitto. Onorato e pianto per sempre, per usare le parole di Luigi Gasparotto, ministro della Guerra e a sua volta veterano delle trincee, che del rituale fu uno dei registi.

Perché fu questo, prima di tutto, il Milite Ignoto italiano di cento anni fa. Uno spettacolo collettivo abilmente diretto, capace di mobilitare ed emozionare le masse come mai era successo prima nell’Italia unita. Tra il 3 e il 4 novembre, Roma venne presa d’assalto da una fiumara di popolo, come titolò “La Stampa”. Probabilmente mezzo milione di non romani, giunti nella capitale con ogni mezzo (alcuni anche a piedi) per partecipare all’inumazione del nuovo eroe nazionale. Non un condottiero o un re, ma uno sconosciuto uomo in uniforme. Forse un giovane studente in armi, forse un umile contadino coscritto, comunque un nessuno che avrebbe potuto essere chiunque.

In “The Tomb of the Unknown Soldier” (University of Toronto Press, 2011), Laura Wittman ha scritto che in quanto anonimo, senza identità e senza appartenenza, il Milite Ignoto era un corpo mistico: incarnava il sacrificio di tutti, e tutti avrebbero potuto riconoscervi il padre, il fratello, il marito, il figlio perduto di cui molte famiglie non avevano più avuto alcuna notizia. Alla fine della guerra, l’esercito italiano contava 200mila tra dispersi e vittime non identificate. Una distesa di morti che lasciava dietro di sé una moltitudine di vivi in lutto privi di una tomba su cui piangere e condannati a un’attesa angosciante e potenzialmente infinita. Non c’è da stupirsi quindi se migliaia di italiani si ammassarono sui binari e nelle stazioni fin dalla mattina del 29 ottobre, né se una folla imponente occupò ogni angolo libero tra piazza Venezia e le vie adiacenti al Vittoriano per assistere alla fine del suo viaggio. Fu la partecipazione spontanea, ricorda ancora Tognasso, delle madri in nero, che pretendevano di aprire la bara per riconoscere i resti del figlio caduto, e delle vedove che alzavano i figli di pochi anni verso il feretro dicendo: “Bacia il papà”.

Gli organizzatori avevano scommesso sull’adesione delle masse popolari. Nella “Pratica generale delle onoranze al Soldato Ignoto”, copione teatrale e piano di battaglia che Gasparotto e uno stuolo di consiglieri e funzionari ultimarono nel settembre 1921, ogni minimo dettaglio era stato stabilito con maniacalità. Il treno si sarebbe dovuto fermare non più di 5 minuti nelle stazioni minori, in quelle maggiori un tempo sufficiente per permettere a militari in servizio ed ex combattenti di salutare la salma, e per ogni sosta sindaci e comitati d’onore locali dovevano assicurare la presenza di folte rappresentanze di cittadini. Ma la reazione popolare superò di gran lunga ogni previsione. Per gli incaricati dell’ordine pubblico, abituati a invasioni tutt’altro che pacifiche in un’Italia in piena guerra civile, la dimensione di quella massa di genitori, orfani e antichi commilitoni finì per destare più che altro timori. Eppure, la fiumana restò quasi sempre composta, silenziosa e mesta.

Ce ne resta testimonianza nelle fotografie pubblicate dai periodici o raccolte in album celebrativi, nei minuziosi articoli che affollavano le pagine dei quotidiani e, soprattutto, nei filmati che vennero montati per realizzare “Gloria. Apoteosi del soldato ignoto” (1921), il racconto visivo di 77 minuti che sarebbe poi stato distribuito in tutte le sale cinematografiche del Paese. Ogni istante della lunga cerimonia, dalla preparazione del vagone speciale su cui la salma sarebbe stata trasportata fino alla sua deposizione sull’Altare della Patria, venne immortalato e raccontato. Così, il Milite Ignoto fu anche un grandioso evento mediatico. Il primo di un’Italia che attraverso la guerra, e in larga parte a causa della guerra, era entrata definitivamente nell’era delle comunicazioni di massa. Tra il 1915 e il 1918 i cinema si erano moltiplicati nella penisola, le vendite dei giornali e delle riviste illustrate (che ponevano meno problemi a un popolo semianalfabeta) erano aumentate vertiginosamente. Gli italiani erano diventati consumatori di notizie e immagini, e ora si riconoscevano in una narrazione che li riuniva idealmente tutti, immortalati nelle stesse pose deferenti al passaggio del treno, a capo scoperto, addolorati (ma orgogliosi) di fronte alla cinepresa. Il Milite Ignoto stava generando un’identità collettiva fatta di emozioni condivise.

L’influsso dei media fu un ingrediente vitale della cerimonia, tanto quanto una regia che si distinse per espedienti innovativi. Bruno Tobia (“L’Altare della Patria”, il Mulino, 1999) ha definito geniale la trovata di collocare la tomba del Soldato Ignoto accanto alla statua di Vittorio Emanuele II, Padre della Patria, unendo simbolicamente il Primo Re al soldato qualunque e riconsacrando definitivamente l’Altare della Patria come luogo della memoria di tutti gli italiani. Ma a essere sorprendente fu l’intera invenzione della liturgia. Un rito funebre marziale venne trasformato in una coreografia simbolica in grado di raccogliere l’intera comunità nazionale attorno alle proprie istituzioni.

La mattina del 4 novembre , quando il corteo del Milite Ignoto percorse la sua ultima tappa uscendo da Santa Maria degli Angeli lungo via Nazionale, Roma e il Vittoriano erano diventati il palcoscenico di una grandiosa messa in scena del potere.

Il feretro, issato su un affusto di cannone, sfilò, in un silenzio rotto solo dal rullio dei tamburi, attraverso un corridoio formato da decine di migliaia di veterani inquadrati e di soldati in alta uniforme, salutato da oltre 300 bandiere di tutti i reggimenti dell’esercito. Vittorio Emanuele III attendeva, circondato dalla corte, davanti al luogo prescelto per la sepoltura. Attorno a lui, disposti secondo una precisa gerarchia dello spazio, ministri e generali, più lontani ufficiali superiori e alti dirigenti dello Stato, e poi mutilati, invalidi, vedove e madri di guerra. Gli unici assenti erano i reietti (come Luigi Cadorna, il grande sconfitto, o Gabriele D’Annunzio, il ribelle) e coloro che avevano scelto di non esserci per non sembrare comprimari (come Mussolini). Il re-soldato e il soldato senza nome erano al centro di una rappresentazione ideale di una nazione pacificata, che si riconosceva nella nobiltà del sacrificio, nel suo monarca, nei suoi governanti.

Avrebbe anche potuto funzionare.

Nei giorni del rito le voci di dissenso furono in effetti poche e deboli. L’Avanti espresse il rifiuto socialista di aderire all’esaltazione della guerra borghese, ma vide nel soldato ignoto un oscuro figlio del popolo e una vittima proletaria. Furono molti i militanti che vollero rendere un ultimo saluto a quello sconosciuto che forse avevano avuto accanto in trincea. Dalla parte dei cattolici qualcuno brontolò per la commistione tra sacro e profano e Giovanni Semeria protestò per quella che gli sembrava un’apoteosi della guerra. Ma altri osservatori constatarono che il soldato ignoto era senza dubbio un buon figlio della Chiesa, e come tale era stato benedetto e sepolto. A creare più problemi furono i fascisti, che cercarono di intestarselo, ma non fecero nemmeno finta di cogliere il suo valore di simbolo conciliatore. Sul Popolo d’Italia Mussolini reclamò al fascismo il merito di avere costretto lo Stato a portare uno dei seicentomila morti a Roma. In compenso, i suoi squadristi scatenarono tafferugli già durante il 4 novembre. E tre giorni dopo, quando nella capitale si aprì il congresso costitutivo del Partito Nazionale Fascista, morti e feriti ricominciarono a contarsi a decine.

Non c’era volontà di pacificazione per il futuro Duce.

 

                                                        Marco Mondini