Se cambia il clima, cambia la storia.

Se cambia il clima, cambia la storia.

Siccità, alluvioni, eruzioni vulcaniche hanno segnato la fine di imperi e scatenato rivoluzioni. Cosa impariamo?

 

Anno 889 d.C. Jasaw Chan K’awiil, re della città Maya di Tikal, si mostra al popolo, estrae un coltello di ossidiana e si pratica un taglio sul pene, offrendo il suo sangue al Dio della pioggia perché torni a nutrire i campi inariditi. La minaccia che quel re cercava di scongiurare è la stessa che dobbiamo affrontare noi oggi, un terribile cambiamento climatico, prodotto da cause diverse, ma il cui risultato finale potrebbe essere lo stesso: il crollo della civiltà. “L’importanza del clima in molte delle più drammatiche svolte nella storia è stata evidenziata da pochi anni” dice Nadia Durrani, direttrice della rivista Archaeology Worldwide. “La ricostruzione del clima del passato, attraverso lo studio dei ghiacci polari, dei sedimenti lacustri o degli anelli degli alberi, ha rivelato come in corrispondenza della decadenza di molte civiltà si siano verificati eventi come siccità, ondate di gelo o inondazioni, di estrema intensità o durata”.

Durrani, insieme all’antropologo Brian Fagan, professore emerito dell’Università di Cambridge, ha ora raccolto queste scoperte nel saggio “Storia dei cambiamenti climatici” (il Saggiatore).

“Il più grande dei mutamenti climatici recenti, la fine della glaciazione avvenuta intorno a 12mila anni fa per le lente variazioni dell’orbita terrestre, ha addirittura fatto nascere la storia”, ricorda Fagan. “L’aumento di temperature e piogge in molte aree del Pianeta le rese infatti adatte ai cereali, innescando l’invenzione dell’agricoltura, delle città e della scrittura, e chiudendo così i 200mila anni di preistoria in cui gli umani erano stati solo cacciatori-raccoglitori nomadi”.

L’essersi resi dipendenti dalla terra coltivata rese però le civiltà umane vulnerabili al clima, a cui non si poteva più sfuggire semplicemente migrando altrove. Da quel momento ci ritrovammo alla mercé dei cambiamenti causati dalle variazioni nei cicli di attività solare, pressione atmosferica e correnti oceaniche, oltre che dalle occasionali eruzioni vulcaniche tanto potenti da abbassare le temperature terrestri con la polvere immessa nell’atmosfera.

E infatti le prime crisi climatiche avvennero fin dall’inizio della storia: quando gli Accadi invasero le terre dei Sumeri nel 2334 a.C., furono accolti da due secoli di siccità che disseccò le terre appena conquistate, portando all’abbandono di decine di insediamenti. Già allora i profughi climatici furono tanto numerosi da indurre la città di Ur a costruire un muro di 180 km per tenerli fuori, prima di collassare a sua volta.

“Bisogna però intendersi quando si parla di collasso: non è detto sia una cosa veloce e cruenta, può consistere anche nel progressivo spopolarsi delle città, con le famiglie che si disperdono in piccoli centri agricoli dove è più facile trovare cibo”, ricorda Durrani. “Come accadde alla civiltà Maya classica, insediata nel centro dello Yucatan nei primi secoli dell’era corrente, quando piogge abbondanti e regolari resero quell’area molto produttiva. I re-sacerdoti, con i loro cruenti sacrifici, garantivano il favore degli dei, ma quando nel IX secolo d.C. le piogge si diradarono per decenni, forse anche a causa dell’eccessiva deforestazione, la fiducia nelle élite venne meno e i loro sudditi si spostarono in aree meno aride del Centro America. Le splendide città dello Yucatan finirono coperte dalla foresta”.

Altri risposero alle bizzarrie climatiche in modo diverso, ma alla fine l’esito fu lo stesso. “I romani rimediavano alle carestie create da eventi climatici spostando il cibo da una provincia all’altra, grazie alla loro estesa rete di strade e porti: una strategia simile a quella attuale”, dice Fagan. “Ma quando, a partire dal III secolo, il clima diventò più freddo e secco, il Nord Africa, uno dei granai dell’Impero, si inaridì. Il venir meno del grano africano fu un grave fattore di instabilità per l’impero, ma il colpo di grazia arrivò quando dal 350 una siccità multi-decennale colpì le steppe euroasiatiche, facendo muovere bellicose popolazioni locali, come gli Unni, verso ovest. Il loro arrivo in Europa spinse le popolazioni germaniche a fuggire in più ondate nell’impero romano d’Occidente, finendo per cancellarlo”.

La civiltà Khmer, in Cambogia, è caduta per il problema opposto. “Nella valle del fiume Mekong le piogge sono concentrate nella stagione dei monsoni, e provocano frequenti inondazioni. Così i re Khmer costruirono la città-tempio di Angkor Vat al centro di una serie di imponenti lavori idraulici, con canali e bacini per regolare le acque. Per sfamare la popolazione crescente, la rete idraulica divenne sempre più complessa e difficile da mantenere. Alla fine del XIV secolo i monsoni divennero molto irregolari, alternando anni di siccità ad anni di diluvi, e divenne impossibile tenere in funzione le opere idrauliche. L’area coltivabile decrebbe e con essa la popolazione, finché Angkor Vat venne sommersa dalla giungla”.

Dall’altra parte del mondo, sulla costa settentrionale del Perù, invece, si verificò per millenni una lotta fra l’uomo e El Nino, il ciclico riscaldamento delle acque costiere del pacifico orientale. “La costa nord peruviana è un deserto, ma da una parte ha fertili valli fluviali irrigate dalle acque che scendono dalle Ande e dall’altra parte un mare pescosissimo”, dice Durrani. “Il problema è che ogni pochi anni El Nino provoca piogge torrenziali e la sparizione dei banchi di pesci, mentre il suo inverso, la Nina, ferma le piogge. Dal 2500 a.C. hanno provato a insediarsi lì numerose civiltà, ma una dopo l’altra sono crollate per eventi climatici estremi e prolungati. Le conoscenze su come adattarsi si sono però accumulate e l’ultima civiltà dell’area, quella di Chimor, sembra che abbia imparato a resistere ai capricci del clima, prosperando per sei secoli, fino all’annessione degli Inca del 1470. Come? Con opere idrauliche, solidarietà fra le comunità e scorte di cibo”.

E se c’è chi è riuscito a battere il clima impazzito, c’è anche chi ne è stato favorito. “La piccola età glaciale che colpì l’Europa fra XV e XIX secolo, causata forse da un calo nell’attività solare, portò piogge torrenziali, tempeste estreme, gelo e carestie”, spiega Fagan. “Un disastro per tutti, ma non per gli olandesi del XVII secolo, che capirono come trarne profitto: smisero di coltivare il delicato grano, passando al foraggio per i bovini e basando così la loro dieta su latte e carne, mentre i cereali li acquistavano dove i raccolti erano stati buoni, per stoccarli e rivenderli poi nelle aree colpite dalle carestie. Con i capitali accumulati armarono flotte mercantili dirette in tutto il mondo, aiutate anche dai venti atlantici rafforzati dal cambiamento climatico, iniziando l’era del colonialismo europeo”. In quel periodo avvenne anche un altro evento climatico che contribuì a cambiare il mondo: l’eruzione del vulcano islandese Laki del 1783-’84. Scagliò in aria così tanta polvere da rovinare con gelo e siccità un paio di raccolti in Europa: questo aumentò il già grande malcontento dei contadini e dei borghesi francesi, spingendoli verso la Rivoluzione.

Il clima disastroso ci perseguita dall’inizio della Storia: che c’è di diverso oggi? “Se un tempo i cambiamenti erano per lo più locali e con cause naturali, oggi a provocarli su scala globale siamo noi, con le emissioni di gas serra da combustibili fossili”, ricorda Carlo Brabante, direttore dell’Istituto di scienze polari del CNR. “E l’intensità è più grave: un quarto del mondo ha già carenza di acqua dolce, con alcune aree colpite da ondate di calore e siccità senza precedenti, come dimostrano i megaincendi in California e Australia: oggi la tecnologia ci aiuta, ma nei Paesi più poveri, come l’Afghanistan, i danni sono già insostenibili”.

Quindi l’esperienza dei nostri antenati non aiuta? “Loro non conoscevano le cause di quanto gli accadeva, ma hanno imparato ad adattarsi, per esempio con misure di solidarietà. Noi dovremmo estendere questa idea all’intera umanità, perché solo con un’assistenza e una concertazione globale riusciremo a venire a capo del problema, prima che ci faccia fare la fine dei Maya”, conclude Brabante.

                                                                  Alex  Saragosa

 

 

Questo articolo di Alex Saragosa è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 13 maggio 2022, alle pp. 62-65.