Il Presepe ha nuovi pastori, in aggiunta a quelli antichi

Il Presepe ha nuovi pastori, in aggiunta a quelli antichi

Ottocento anni fa –era il 1223- San Francesco a Greccio allestì la prima rappresentazione della nascita di Gesù, una mangiatoia.

 

E oggi chi sarebbero? Quella volta, più di duemila anni fa, secondo il racconto di Luca, erano pastori. “Vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia. Oggi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

Tremanti e stupiti, quegli ultimi furono i primi a ricevere la buona novella, persone semplici ma con le menti e i cuori aperti. Marginali pronti ad accogliere quel messaggio rivoluzionario, figure che rivivono nei nostri presepi, nella storia dell’arte, nella tradizione; quelli che ottocento Natali fa accorsero a Greccio per ammirare la rappresentazione – riproposizione tridimensionale del racconto di Luca- messa in scena da San Francesco. Umili e meravigliati. E adesso? Chi sarebbero i pastori di oggi se lo stesso annuncio fosse fatto nel 2022? Gli emarginati? I rider che sfidano il traffico e il freddo delle nostre città per pochi euro? I migranti sui barconi? I precari? I disoccupati, i raccoglitori di pomodori vittime del caporalato? I clochard che dormono sulle panchine coperti dai cartoni? Gli anziani soli? Le badanti dell’Est? Il popolo ucraino bombardato da Putin? Lo abbiamo chiesto a biblisti, teologi, sociologi, antropologi, donne e uomini di chiesa. Interpretazioni diverse, ma non dissimili: ci sono gli umili, certo (che non necessariamente sono poveri). Soprattutto donne e uomini in grado di ascoltare in questo mondo di sordi; i giovani, che sono naturalmente predisposti all’ascolto; gli sconfitti dai processi di globalizzazione, ma anche i rifugiati, i rom, popoli in movimento in cerca di condizioni migliori di lavoro e di vita. E’ una carrellata di volti che hanno –avrebbero- tutti cittadinanza nel presepe. Ma partiamo dalle origini.

La Natività, Luca e i pastori.

Di natività si parla solo in due Vangeli canonici: in quello di Luca, l’unico con il racconto dei pastori, e in quello di Matteo, con l’episodio dei Magi. Luca guarda a Roma e all’Occidente; Matteo all’Oriente e alla comunità giudaica. Luca è attento ai poveri e ai marginali investiti da un annuncio di salvezza universale e ha per protagonista Maria; Matteo si concentra sulla figura di Giuseppe. Sono distinzioni non da poco, sottolinea Marinella Perroni, la studiosa che ha fondato il Coordinamento Teologhe italiane. “Luca e Matteo insistono sull’infanzia di Gesù per far passare il messaggio che quel bimbo è Dio da sempre, non lo diventa con gli anni. Sono processi complessi che vanno rintracciati nelle diverse culture e nei loro strumenti narrativi”. Aggiunge Piero Stefani, teologo ed esegeta: “Mosè è pastore, Davide è pastore, Dio è pastore del suo popolo”. E, nota Rosanna Virgili, docente di Esegesi all’Istituto Teologico Marchigiano, alla Facoltà Teologica Pugliese e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Rimini: “Luca usa una categoria sociale nota, quella dei pastori, che però ha diverse simbologie. Quella religiosa: Dio non ha più bisogno di un tempio per visitare il suo popolo, ma bivacca tra i pastori; e quella politica: Betlemme è la città di David, pastore come Mosè, giganti della storia di Israele che furono però attaccati ed osteggiati, due “emarginati” come Gesù. Dunque Dio sceglie quelli che il mondo scarta. Infine Luca contrappone la figura di Gesù, che viene dalle periferie, all’imperatore Augusto, il divus di Roma, ma anche ai passati re d’Israele, corrotti, contro cui si leva la querela dei profeti: “Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi”.

Dello stesso avviso è suor Grazia Papola, che insegna alla Facoltà Teologica di Milano e all’Istituto di Scienze Religiose San Pietro Martire di Verona: “Con i pastori Luca non sta narrando un aneddoto folcloristico, ma sta già annunciando il messaggio del Vangelo. Il significato di queste figure non è univoco. Se si tiene conto del contesto storico dell’epoca, i pastori, che conducevano una vita nomade o seminomade, erano visti con disprezzo e terrore dai sedentari, un po’ come da noi oggi sono considerati gli zingari. In uno dei trattati più famosi del Talmud (Sanhedrin 25) si afferma che i pastori non potevano essere eletti giudici né essere citati come testimoni a processo perché impuri a causa della convivenza con gli animali e disonesti a motivo delle loro violazioni dei confini territoriali. Rappresentavano una classe emarginata, disprezzata. Se però si allarga lo sguardo al complesso della tradizione biblica, il significato si amplia in una direzione diversa. Nell’Antico Testamento i grandi personaggi, Mosè, Davide, prima di diventare guide del popolo, sono stati effettivamente pastori; nel Nuovo Testamento il termine pastore è sempre applicato a Dio, a Gesù e ai responsabili delle comunità”.

Va tutto inserito in un racconto più ampio, osserva Silvano Petrosino, che all’Università Cattolica di Milano insegna Antropologia religiosa e Media e teoria della comunicazione: “Dio decide di incarnarsi, dove? In un piccolo popolo, in una zona periferica, nel figlio di un falegname e di una ragazza. Decostruisce l’idea di Dio re, che nel Vecchio Testamento libera gli ebrei dall’Egitto, che era l’America di allora, mentre alla fine si incarna in una figura “deludente”. Allo stesso modo nei pastori si richiama l’idea degli ultimi: la prima epifania è per loro, gli umili che non fanno del loro sapere un motivo di orgoglio, i credenti e non creduloni. Rivelandosi ad essi, Dio dice qualcosa di sé: l’umiltà è segno di grandezza”. Don Flavio Dalla Vecchia è docente di Sacra Scrittura presso lo Studio Teologico Paolo VI del Seminario di Brescia e di Lingua e Letteratura ebraica all’Università Cattolica di Milano: “Nel contesto di allora i pastori non sono tanto diversi da quelli di oggi, non hanno una vita molto sociale. Hanno esistenze ai margini non tanto per le condizioni economiche –era comunque un lavoro dignitoso, tanto che il Signore è Dio pastore- ma per il loro nomadismo. Luca con questo annuncio ci dice subito che Gesù è venuto a condividere un modo di essere normale. L’angelo parla ai pastori perché sono l’immagine futura di Gesù”.

E oggi chi sarebbero?

Dibattito aperto. Provate a immaginare un angelo che vi dice che è nato il figlio di Dio. Staccatevi dallo smartphone, concentratevi un attimo. “Difficile! Siamo tutti sordi, come facciamo a ricevere un annuncio di quella portata?”, domanda Piero Stefani. E continua: “Il punto è questo, e quindi io risponderei così: i pastori di oggi sono le donne e gli uomini capaci di ascoltare, di accogliere quel messaggio”. Rosanna Virgili divide di nuovo gli ambiti. In quello religioso “direi che i pastori oggi sono i vescovi, il Papa, il clero, chiamati a diventare ponti tra il Dio trascendente e la vita della gente; in quello storico, i lavoratori senza pieni diritti, gli stranieri addetti alla manovalanza agricola, tutti coloro che si dedicano alle mansioni più umili, il Papa direbbe gli scartati; in ambito culturale, gli intellettuali che “vegliano di notte” e cercano di leggere il presente; in ambito politico, i governanti competenti, sapienti, liberi”. Aggiunge Petrosino: “Sono le persone ancora capaci di stupirsi e che non hanno chiuso la porta! Usciamo dall’equivoco dei “poveri”: poveri sono coloro che non si fanno possedere dalle cose. E’ difficile trovarli”. Domenico Pompili è vescovo di Verona e amministratore apostolico di Rieti, la diocesi di Greccio. Spiega: “I pastori di oggi sono i migranti: politici, climatici, economici. Sono quelli che devono lasciare la loro terra per cercare un altrove in cui vivere. Quelli che pagano il prezzo più alto del sistema globale”. E tutte le periferie della società, chi non ha voce e non si sente ascoltato, chi non ha udienza, e invece avrebbe bisogno di relazioni. Dice Flaminio Squazzoni, ordinario di Sociologia alla Statale di Milano: “C’è una nuova trinità che governa oggi, Scienza-Tecnologia-Diritto, che orienta le nostre vite e ci sta dicendo che l’uomo è colpevole di tutto. Se anche arrivasse l’annuncio, non ce ne accorgeremmo. La società digitale soffre di assenza di verticalità e Gesù ci dice di guardare verso l’alto… Ma gli sconfitti dai processi economici e dalla globalizzazione sono salvabili: i pastorelli di oggi non consegnano la propria vita a questa trilogia, non sono schiavi dei nuovi idoli, che tra l’altro non danno la felicità. Sono umili ma non sconfitti. Non credono nella vita piatta dei TikToker”.

Ecco i Magi (non re, non tre).

Serve un ripasso. I Magi compaiono nel vangelo di Matteo dove sono alcuni, il loro numero non è specificato, tre sono i doni che portano –oro, incenso e mirra. Non sono tre (lo diventeranno intorno all’VIII secolo), non sono re e il nome –Gaspare, Melchiorre e Baldassarre- glielo dà Marco Polo nel Milione, quando racconta di avere visitato, intorno al 1270, la loro tomba nella città di Saba, a sud di Teheran. I Magi sono i saggi “che trasformano –osserva Petrosino- il loro potere in apertura, non chiusura; sono l’assolutamente sapiente che ha l’umiltà dell’assolutamente ignorante; sanno interpretare i segni come la stella. Erode chiede loro di fargli un resoconto della visita a Gesù, ma loro tornano a Oriente senza avvertirlo. Ce ne sono, ma non li vediamo. Potrebbero essere i poeti, i profeti”. L’altra faccia, quella colta, dei semplici. Analizza Squazzoni: “Sono quelli che hanno coltivato lo spirito oltre il “mainstream”. Gli artisti che svelano i limiti della parola e della società; i parroci con i piedi saldati a terra, che hanno la saggezza della vita; l’”homo faber” che usa le proprie capacità per risolvere la sua vita e quella del prossimo”. “Rappresentano –continua Dalla Vecchia- la sapienza estranea al popolo ebraico. Capiscono da dove arriva la vera luce e da questa si lasciano muovere. Sono i primi pagani del presepe e oggi potrebbero essere uomini e donne capaci di leggere i segni dei tempi (…) Mettere nel racconto quei Magi significa legittimare l’essenza divina del bambino fin dalla culla”.

Il presepe di Greccio, 800 anni, una storia.

La rappresentazione cambia nel tempo, tanto che è Benedetto XIV a metà del ‘700 a stabilire che anche i pastori sono tre e maschi. Ma sono tante le invenzioni. Una è la grotta.

Inesistente nel Vangelo di Luca, la grotta pare invenzione del II-III secolo. Anche il bue e l’asinello sono tardivi, nati dall’errore di trascrizione di un testo profetico in greco (il Salvatore nascerà in mezzo a due epoche, in greco aiòn, cioè prima e dopo Cristo, diventa nascerà in mezzo a due animali, in greco zoon). Sono però elementi che compaiono nel presepe di Greccio –il primo vivente– messo in piedi nel 1223, come una performance, da Francesco per lanciare un messaggio di pace. “Non bisogna riconquistare Betlemme, ma riscrivere Betlemme”. Dice Paolo Dalla Sega, che insegna alla Cattolica Valorizzazione urbana: “La grandezza di Francesco sta nell’inventare un presepe nuovo e vivo: in una grotta fa allestire una mangiatoia vuota, forse coinvolge l’asino e il bue, Maria e Giuseppe non ci sono, come il bambino. Qui Francesco parla e la gente di Greccio accorre”. Tommaso da Celano, cronista della vita di San Francesco, descrive così la scena: “Si dispone la greppia, si porta il fieno, sono menati il bue e l’asino. Greccio si trasforma quasi in una nuova Betlemme”. Monsignor Pompili: “Questo presepe è una provocazione su due fronti, perché sposta l’attenzione da un Dio onnipotente e distante a uno impotente e vicino. Inoltre, si abbandona la violenza del tempo (le Crociate) e si rivela che è possibile la strada della mitezza”.

Gli altri presepi.

Ma come si è arrivati dallo scarno presepe di Greccio alle maestose rappresentazioni della tradizione, soprattutto quella partenopea? Lo illustra Elisabetta Moro, autrice, con Marino Niola, del volume “Il presepe” (il Mulino). “La macchina narrativa è complessa. Pensiamo al Baldassarre nero: viene introdotto nel Medioevo, serviva un Magio etiope che rappresentasse quella parte di mondo. La Chiesa cerca storie inclusive”. A mano a mano si aggiungono personaggi non legati ai Vangeli, figure non religiose, in una continua stratificazione. “Il presepe napoletano è la versione barocca della Natività. La città entra con prepotenza nel presepe a partire dal ‘600. E’ un palinsesto, anche provocatorio: gli errori hanno senso (i femminielli) perché la storia si intreccia alla vita. E’ una narrazione aperta. E’ la buona novella che diventa presente. E’ la natività che rinasce, universale e locale”.

 

                                                        Annachiara  Sacchi

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 18 dicembre 2022, alle pp. 2-5, supplemento culturale del Corriere della Sera.