Belli. Sonetti. “Li fratelli mantelloni”, 19 dicembre 1832

Belli. Sonetti.         “Li fratelli mantelloni”

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

            

       Li fratelli Mantelloni                     19 dicembre 1832

 

Ma cchì? Cquelli che vvanno ar Caravita

La sera, e cce se sfrusteno er furello?

Sò ttutti galantommini, fratello,

Ggente, te lo dich’io, de bbona vita.                                  4

 

Cuarcuno, si ttu vvoi, porta er cortello:

A cquarcuno je piasce l’acquavita:

Cuarchidunantro è un po’ llongo de dita;

Ma un vizzio, ggià sse sa, bbisogna avello.                    8

 

Ma ppoi tiengheno tutti er mantellone,

E ccor cristo e le torce cuann’è ffesta

Accompaggneno er frate a le missione.                           11

 

E ‘ggni sera e per acqua, e ppe ttempesta,

Vanno pe Rroma cantanno orazzione

Coll’occhi bbassi e ssenza ggnente in testa.                   14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD)

 

                                      I fratelli Mantelloni

 

E’ necessaria un’introduzione. Annesso alla Casa Gesuitica di S. Ignazio c’era un Oratorio, gestito dai Padri. Qui c’è un sodalizio di compagni e collaboratori dei padri gesuiti, detti volgarmente “i Mantelloni”, dal lungo mantello nero che indossano. “In ciascuna sera dell’anno dall’avemaria alla prima ora della notte si adunano molti uomini a recitare preci, a udire de’ sermoni, a confessarsi e in tutti i venerdì come in altre sere della settimana a disciplinarsi (…) Poi alcuni de’ più zelanti escono dall’oratorio, e seguiti da altri divoti (quasi tutta gente volgare) si diramano per la Città recitando il Rosario interpolato da canzoncine divote (…) Alla fine s’intuonano le litanie…”

Ma chi? Quelli che vanno all’Oratorio del Caravita la sera, e ci si frustano il culo (si autoflagellano)? Sono tutti galantuomini, fratello, gente di condotta esemplare, te lo dico io. Qualcuno, te lo concedo, porta il coltello; a qualcuno gli piace l’acquavite: qualcun altro è un po’ svelto di mano (è ladro); ma un vizio, già si sa, bisogna pur averlo. Ma poi indossano tutti il mantellone, e con il crocifisso e con le torce –quando è festa- accompagnano il gesuita alla predicazione per le pubbliche vie e per le chiese, praticando gli esercizi spirituali. E ogni sera, sotto la pioggia e sotto la tempesta, vanno per Roma cantando preghiere con gli occhi bassi e senza niente in testa (la processione sotto le intemperie, a testa scoperta, era anch’essa una forma di penitenza).

 

Analisi.

Il poeta dimostra di essere un attento e curioso osservatore dei costumi della sua città. La sua satira morale e religiosa si arricchisce, qui, di note stilistiche e linguistiche ingegnose, quali il ritmo dattilico dei vv. 13-14 (“vanno pe Rroma cantanno orazzione / coll’occhi bassi e ssenza ggnente in testa”) che, come osserva Vigolo, “riproduce l’onda di preghiere di queste torme litanianti”, e il sibilare nel v. 2 delle staffilate degli auto flagellatori che vanno al Caravita “la sera, e cce se sfrusteno er furello”.

Vale la pena di riportare il racconto di un teologo valdese, contemporaneo del Belli, Luigi Desanctis, che così annota le ostentazioni di pietà dei Mantelloni: “In ogni mese vanno in una chiesa di Roma a fare la missione la domenica e le altre feste. La congregazione della missione è composta di uomini della bassa classe, devoti e devote. Esce la missione del Caravita; uno de’ congregati, vestito di nero con un mantello nero alla Don Basilio, porta un gran crocifisso; quattro o sei altri congregati vestiti nello stesso modo lo sieguono cantando in tuono nasale le litanie; vengono poi i padri missionari in gran mantello, berretta, ed un crocifisso sul petto, e sono seguiti dal resto de’ congregati de’ due sessi che rispondono al canto. Giunti alla chiesa, il crocifisso è posto sulla piattaforma ove vanno i missionari, ed i cantori inginocchiati in mezzo alla chiesa cantano nello stesso tuono nasale una invocazione a Maria (…) Dopo ciò incomincia il dialogo. Due gesuiti sono seduti su due seggioloni sulla piattaforma: uno di essi fa da confessore, l’altro da penitente. Costui parla il linguaggio del popolo, e dice tante scurrilità da far crepare dalle risa. Dopo il dialogo, un altro Gesuita fa una predica seria, e poi finisce per invitare gli uomini alla sera al Caravita. Al calar del sole escono dal Caravita diversi gruppi di bigotti vestiti di nero, ed uno di essi porta in un sacco nero un crocifisso pieghevole, e vanno a fermarsi nelle piazze frequentate a quell’ora dal popolo basso e da’ contadini. Viene un Gesuita, ed allora si tira dal sacco il crocifisso, s’improvvisa con un tavolino o una panca un pulpito, sul quale monta il Gesuita; i bigotti cominciano il canto, finoacché si raduna un poco di gente: allora il Gesuita incomincia a predicare. Qualche volta accade che un cavadenti, o un giocoliere fa concorrenza al Gesuita sulla stessa piazza; ed allora tutta la gente abbandona il Gesuita e corre dal giocoliere che la diverte meglio” (“Roma papale”, VIII, nota 15).

 

Il giorno prima, il 18 dicembre, Belli ha scritto un sonetto che ha l’Oratorio del Caravita quale luogo dell’azione ingegnosa:

 

                                               L’ingegno dell’Omo

 

Er venardì de llà, a la vemmaria,

Io incontranno ar Corzo Margherita,

Je curze incontro a bbracciuperte: Oh Ghita,

Proprio me n’annerebbe fantasia!                                    4

 

Disce: Ma indove? Allora a l’abborrita

Je messe er fongo e la vardrappa mia,

E ddoppo tutt’e ddua in compagnia

C’imbusciassimo drento ar Caravita.                               8

 

Ggià llì ppare de stà ssempr’in cantina:

E cquer lume che cc’è, ddoppo er rosario

Se smorzò pe la santa dissciprina.                                    11

 

Allora noi in d’un confessionario

Ce dassimo una bbona ingrufatina

Da piede a la stazzione der zudario.                                14

 

         L’ingegnosità del Mantellone ingrufato e disinibito

 

Il penultimo venerdì, al tramonto, incontrando in via del Corso Margherita, io le corsi incontro a braccia aperte e le dissi: “Oh Ghita, proprio mi andrebbe voglia di te!” Lei mi dice: “Ma dove andiamo?” Allora io, improvvisando, le misi il cappello e il mantello mio (il protagonista, perciò, è un Mantellone), e dopo tutti e due in buona compagnia ci nascondemmo (ci imbucammo) dentro l’oratorio del Caravita. Già lì sembra di stare sempre in cantina: e quel piccolo lume che c’è, dopo la recita del rosario, si smorzò per dare luogo alla santa auto-fustigazione. Allora noi in un confessionale facemmo una bella chiavatina ai piedi della stazione della Veronica nella via Crucis.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello