Il Talmud siamo noi (ebrei e non ebrei).

Il Talmud siamo noi (ebrei e non ebrei).

Per la prima volta l’antico testo sacro viene tradotto in italiano. “Dentro c’è tutta la nostra tradizione”, ci dice il curatore. “Ma anche un pezzo fondamentale della cultura europea”.

 

In questo articolo-intervista, pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 24 novembre 2017, alle pp. 112-113, la giornalista Lara Crinò dialoga col rabbino Gianfranco Di Segni commentando la pubblicazione italiana del “Talmud babilonese”, con settanta traduttori al lavoro sotto la guida del rabbino capo di Roma e della costituzionalista Clelia Piperno. A rendere unico il progetto italiano, che ha prodotto finora la versione del “Rosh haShanà” e del primo trattato talmudico “Berakhòt” è l’uso di tecnologie innovative: l’Istituto di linguistica computazionale del Cnr, con il coordinamento di Andrea Bozzi ed Emiliano Giovannetti, ha partecipato mettendo a punto “Traduco”, un software collaborativo ideato in modo specifico per testi antichi e dalla struttura complessa.

In questi stessi mesi è stato edito da Bollati Boringhieri, “Storia del Talmud” di Harry Freedman, un autore specializzato nelle antiche scritture ebraiche. Il saggio analizza i resoconti delle discussioni rabbiniche intorno ai principi stabiliti nella Bibbia, che nel corso dei secoli hanno dato alla religione ebraica la sua forma definitiva. Molte di queste discussioni approfondiscono il processo che ha condotto alla formulazione delle leggi, uno studio o racconto che assume un valore equivalente alle stesse leggi. Anzi, precisa l’autore: “si dice che studiarle sia perfino più importante che rispettarle. Perché studiarle induce a rispettarle”. Freedman racconta la storia del Talmud con un tono di cordiale discorsività, tipicamente anglosassone, una storia turbolenta, a tratti drammatica. Nel medioevo, ad esempio, l’incontro tra gli ebrei e il cristianesimo fu molto difficile; e la Chiesa vedeva in questo testo sapienziale un ostacolo alla possibile loro conversione al cristianesimo. A volte furono gli stessi ambienti ebraici a rifiutarlo, delegittimandolo. Così il Talmud fu più volte proibito, censurato, bruciato, anche se non è mai stato possibile cancellarlo.

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

Messo al rogo. Censurato. Epurato. Diviso in  pezzi e rinominato, per poter essere comunque letto e appreso di nascosto nelle epoche buie. Trasportato da un capo all’altro del mondo. Trascritto a m,ano con infinita pazienza, stampato dai tipografi di Venezia o di Vilna. E ancora oggi studiato con passione in Israele e ovunque nel mondo. La storia del Talmud, testo sacro del popolo ebraico, è una vicenda di fedeltà e di persecuzione, oscurità e rinascite che per la prima volta anche il lettore italiano può conoscere da vicino.

A inizio dicembre Giuntina pubblicherà la traduzione italiana di “Berakhòt”, il primo trattato del Talmud. Un’occasione per scoprire una vicenda religiosa e culturale unica, come spiega il curatore Gianfranco Di Segni, che incontriamo nel collegio rabbinico di Roma. Dalle finestre si intravede il Tempio maggiore, la sinagoga ai margini dell’antico ghetto. E qui vicino c’è Campo de’ Fiori, dove il Talmud fu bruciato nel 1553. Mezzo secolo prima che Giordano Bruno fosse arso vivo nello stesso luogo.

Come definirebbe il Talmud?

Il Talmud siamo noi, è ciò che ha reso il popolo ebraico com’è oggi. Tutte le nostre tradizioni religiose, poi diventate culturali e familiari, hanno origine in questo libro. Che è anche un unicum dal punto di vista strutturale.

In che modo la sua struttura è unica? Ha fama di essere astruso…

Si compone di due parti: la prima, chiamata Mishnà, in ebraico, riassume la cosiddetta Torà orale, l’insegnamento legato ai precetti che secondo la tradizione fu rivelato a Mosè sul Sinai insieme alla Torà scritta, ossia il Pentateuco. I precetti sono 613, ma la Torà non spiega in dettaglio come osservarli. Dal riposo del sabato alla kasherut, i divieti alimentari, tutto questo è nella Mishnà, che fu messa per iscritto alla fine del II secolo. Era l’epoca della Diaspora, la terra d’Israele era sotto il dominio romano e si temeva che gli insegnamenti orali andassero dispersi. Ma la Mishnà a sua volta è sintetica e criptica, così per sapere come comportarsi si deve comunque fare riferimento a un maestro. L’altra parte del Talmud, detta Ghemarà, è quindi la trascrizione in aramaico delle discussioni andate avanti per alcuni secoli tra i nostri saggi sulla Mishnà. Ha una connotazione dialogica: è come un registratore piazzato nelle accademie, le yeshivot di Babilonia e di Israele, che riporta le varie opinioni. Procede per associazioni mentali, come in una discussione. Ecco perché è complesso.

Adin Steinsaltz scrive che per queste connessioni mentali il Talmud è confrontabile solo con il romanzo moderno. Testo di legge ma anche racconto.

La struttura segue quella della Mishnà: 63 trattati divisi in sei ordini. Parlano di tutto: agricoltura, feste, matrimonio e divorzio, diritto civile e penale, purità e impurità. Non c’è ambito della vita umana che non sia affrontato. Dal punto di vista della legge, ossia della halakhà, ma non solo. Circa un terzo dell’intero Talmud è aggadà, ossia racconto: pensieri, folklore, esegesi biblica, zoologia, botanica, storie, vite dei maestri, interpretazione dei sogni.

Umberto Eco l’avrebbe definito un testo aperto.

Aggiungerei che è un’opera che non si può affrontare individualmente. Nelle yeshivot lo studio non è frontale: l’insegnante fa una lezione al giorno o qualche lezione a settimana. Per il resto si studia discutendo con un compagno.

Il Talmud è finito al rogo molte volte. In Francia nel Medioevo. A Roma nel ‘500. In Germania nella Notte dei Cristalli del 1938. Perché?

C’è una motivazione profonda: essendo un’opera identitaria per gli ebrei, se li si vuole colpire si colpisce il Talmud. Il pretesto, invece, era che contenesse affermazioni non gradite sui cristiani: sono frasi riferite genericamente ai pagani e all’idolatria, ma sufficienti per la condanna al rogo. A Parigi fu bruciato in piazza dopo una sorta di processo davanti al re, nel 1240. Alcuni pontefici, come Giulio III che ordinò il rogo di Campo de’ Fiori, lo misero all’indice. Ma anche quando c’era il permesso papale di stamparlo, i censori cristiani lo epuravano di interi passaggi e cambiavano alcuni termini. Accadde anche per l’edizione di Vilna nella Russia zarista. Talvolta, per ovviare alla censura, se ne stampavano alcune parti con altri titoli. La conseguenza fu, per l’Italia, un grande declino degli studi talmudici.

Questo primo trattato si intitola “Berakhòt”. Che cos’è la “berakhà”?

E’ un termine che ha a che fare con il concetto di lode, abbondanza, prosperità. Tutte le benedizioni iniziano con l’aggettivo barùkh, che significa benedetto ma anche benedicente, riferito a Dio. Pronunciarle significa, secondo i maestri, lodarlo ma anche affermare che è il creatore del mondo. Il trattato si apre con le regole per leggere lo Shemà Israèl, l’affermazione dell’unicità e unità di Dio che accompagna l’ebreo, anche il meno osservante, dall’infanzia alla morte. Primo Levi ne inserì un brano nella poesia che apre “Se questo è un uomo”.

Cosa ha da dire la traduzione di quest’opera a chi non è ebreo?

E’ comunque un pezzo fondamentale della storia culturale europea. Pensiamo a Marx e Freud: non erano praticanti, ma nelle loro famiglie il Talmud si era studiato per molte generazioni.

 

                            Lara Crinò                            Gianfranco Di Segni