“Er mercato de piazza Navona”. 20 marzo 1834

Belli. Sonetti. Er mercato de piazza Navona. 20 marzo 1834

 

La “Commedia romana” di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Er mercato de piazza Navona     20 marzo 1834

 

Ch’er mercordì a mercato, gente mie,

Ce siino ferravecchi e scatolari,

Rigattieri, spazzini, bicchierari,

Stracciaroli e ttant’antre marcanzie,                              4

 

Nun c’è gnente da dì. Ma ste scanzie

Da libbri, e sti libracci, e sti libbrari,

Che ce vienghen’a ffà? cosa c’impari

Da tanti libbri e ttante libbrarie?                                    8

 

Tu ppija un libbro a ppanza vòta, e doppo

Che l’hai tienuto pe quarc’ora in mano,

Dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.                11

 

Che predicava a la Missione er prete?

“Li libbri nun zò robba da cristiano:

Fiji, pe carità, nu li leggete”.                                             14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                            Il mercato di piazza Navona

 

Che il mercoledì al mercato, amici miei, ci siano venditori di ferro vecchio e scatolame vario, rigattieri, venditori di tutta una serie di oggetti minimi, stracciaroli etcc, non c’è niente da dire. Ma tutte queste scansie di libri, e tutti questi libracci, e tutti questi librai, che ci vengono a fare? Cosa c’impari da tanti libri e tante librerie? Tu piglia in mano un libro e sei affamato, e dopo che lo hai tenuto per qualche ora in mano, dimmi se hai fame o se hai mangiato troppo. Cosa predicava alla chiesa della Trinità della Missione, presso Montecitorio, il prete? “I libri non sono roba da cristiani: figli, per carità, non li leggete”.

 

Le quartine.

Le prime due strofe servono a inquadrare lo spazio bellissimo di piazza Navona dove si teneva mercato ogni mercoledì. Chi parla è un frequentatore abituale del mercato, sicuramente un venditore ambulante, un rigattiere, uno stracciarolo, e ha un suo uditorio che simpatizza con lui: “gente mie” (v. 1), li apostrofa. Il poeta non dedica alcun cenno all’estetica della piazza, alle sue fontane bellissime, alle sue chiese. Tutto è riempito da cianfrusaglie, suppellettili per la casa, scatolame, scope, bicchieri, bottiglie, stracci, vestiti, tutta roba indispensabile alla vita quotidiana e alla portata delle tasche povere dei compratori. E d’improvviso, accanto a tanta roba necessaria, ecco “ste scanzie da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari” (vv. 5-6), “e tanti libbri e ttante libbrarie” (v. 8), in una ripetizione ostentata e deprecata. Dice qualche critico: è, da parte del Belli, la rappresentazione realistica, satirica e sarcastica, del grado di abiezione intellettuale del “popolino” romano. Ma come non citare, a questo riguardo, il commento di qualche anno fa del ministro del Tesoro del governo Berlusconi, Tremonti, sulla “cultura che non ti fa mangiare”? L’ambulante romano dell’Ottocento aveva certamente qualche ragione in più da vendere, anche perché parlava della concorrenza.

Le terzine.

Cade a fagiolo la citazione, nei vv. 9-12, del povero affamato che a ppanza vòta ppija un libbro in mano, se lo gira e rigira pe quarc’ora e si ritrova più affamato di prima. I versi finali riproducono, con spietatezza, la politica di un clero che aveva tutto l’interesse a conservare il suo popolo nella più abietta ignoranza. Sembrerebbe che nessuna consonanza ci sia tra il poeta e il suo personaggio, tra il Belli intellettuale illuminista e il plebeo romano così primitivo. Ma è proprio la poetica belliana che ha scelto di rappresentare il popolo nel suo stato immediato, nella sua coscienza vera, come esso realmente è, con le sue abitudini, moralità e convinzioni, con la sua lingua, portandolo così alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, proprio perché non lo camuffa o traveste, proprio perché non ne fa il figlio prediletto della rivoluzione democratica (il filone progressista della cultura romantica) né della Provvidenza divina (Manzoni e i cattolici), il Belli riesce –unico tra i romantici con il Porta- a darci una visione della realtà nella quale il popolo non è subalterno, ma vive la sua vita in autonomia, vita senza alcun progresso, esistenza senza alcun obiettivo di miglioramento.

 

Il giorno dopo, il 21 marzo 1834, Belli scrive il sonetto:

 

                                               Li studi

 

Cipicchio er correttor der Zeminario,

‘Gniquarvorta me trova, m’aripete:

“Fijo, in qualunque stato che voi sete

L’imparà quarche cosa è necessario”.                             4

 

Pe ste raggione io me studio er lunario,

E ciò imparato già che le pianete

C’ha ssu la panza e ssu la schina er prete,

Nun ze pò dille un zemprice vestiario.                                     8

 

Trovo a bon conto in ner lunario mio

Certi “pianeti”: e nun zaranno fiaschi

C’abbi abbottati in paradiso Iddio.                                  11

 

Quann’è accusì, da sti pianeti maschi

E ste pianete femmine, dich’io,

Quarche cosa bisoggna che ne naschi.                            14

 

Cipicchio, il correttore del Seminario (il correttore era colui che somministrava le frustate agli scolari), ogniqualvolta mi incontra mi ripete: “Figlio, in qualunque stato voi siete l’imparare qualcosa è necessario”. Per questa ragione io adesso studio il lunario (era un almanacco popolare che registrava i mesi e i giorni dell’anno, insieme alle previsioni del tempo e a precetti improntati ad una facile e presunta  saggezza: insomma una specie di calendario di frate Indovino dei giorni nostri), e vi ho imparato che le pianete che indossa il prete nelle funzioni religiose (la pianeta è la sopravveste liturgica, derivata dalla penula degli antichi romani, indossata dal sacerdote nella celebrazione della messa) non possono essere definite un semplice vestiario. A buon conto trovo nel lunario mio alcuni pianeti: e non saranno fiaschi che abbia gonfiati in paradiso Dio (questo era un modo di dire che indicava il compiere un’impresa difficoltosa, ma anche inutile). Quando è così, da questi pianeti maschi e da queste pianete femmine, dico io, qualcosa bisognerà pure che ne nasca.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello