Italia, anni Sessanta: la concretezza dei visionari.

Italia, anni ’60: la concretezza dei visionari

Mattei, Ippolito e Necci, tre vicende diverse ma un destino comune. L’innovazione italiana: pensata, tentata, frustrata

 

In un Paese abitato prevalentemente da gattopardi e da camaleonti quale è l’Italia, dove tutti –a chiacchiere- sono innovatori e riformisti,esserlo per davvero è un’impresa ardua che può rivelarsi persino pericolosa. Tre storie diverse, distribuite lungo l’arco di 30 anni, servono a confermare questa legge non scritta dell’innovazione italiana, prima pensata, poi tentata e, infine, frustrata.

La prima, forse la più nota e tragica, è quella di Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni nel 1953, il petroliere senza petrolio che si mise in testa l’idea meravigliosa di regalare all’Italia uno spazio autonomo sul terreno del rifornimento energetico, base economica necessaria per fondare la libertà politica del Paese, come amava ripetere. Egli decise di sfidare le grandi imprese petrolifere anglo-americane e franco-olandesi mediante un robusto intervento dello Stato, che sapesse coniugare finalità pubbliche con strumenti privatistici. La strada della contrattazione diretta e a tutto campo con i Paesi produttori di petrolio, dall’Urss all’Iran, ai Paesi arabi, costituì la chiave di volta del suo disegno imprenditoriale teso a ridimensionare l’egemonia monopolistica delle Sette sorelle.

Mattei morì nell’ottobre 1962 mentre rientrava dalla Sicilia con il suo aereo privato che precipitò in provincia di Pavia. La riapertura dell’inchiesta giudiziaria nel 1997, che ha contemplato la riesumazione del suo cadavere e la realizzazione di nuove perizie tecniche, ha accertato che il velivolo non cadde a causa della nebbia, come a lungo si volle far credere, ma per un ordigno esploso mentre l’aereo era in volo. Un recente libro di Paolo Morando su Eugenio Cefis (“Una storia italiana di poteri e misteri”, Laterza) ha rafforzato gli indizi che coinvolgerebbero la diretta responsabilità dell’organizzazione ultranazionalista francese Oas, nemica giurata di Mattei che finanziava la guerriglia indipendentista algerina. Una settimana dopo la sua morte Mattei avrebbe dovuto compiere un decisivo viaggio in Algeria allo scopo di siglare un accordo di collaborazione con il nuovo governo che avrebbe leso il monopolio delle compagnie transalpine sul petrolio algerino nel Sahara.

La seconda figura è quella dello scienziato Felice Ippolito, segretario generale del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnen). Negli stessi mesi in cui l’Italia subì la decapitazione di un manager nel campo petrolifero del calibro di Mattei, venne privata in ambito nucleare di una personalità di rilievo internazionale come Ippolito. Per sua fortuna, in questa seconda circostanza, il metodo scelto si rivelò meno cruento, essendo quello giudiziario. Ippolito, sin dalla metà degli anni ’50 e in sinergia proprio con Mattei, aveva guidato lo sviluppo nucleare in ambito civile dell’Italia che era diventata il terzo produttore mondiale e puntava a raggiungere l’autosufficienza energetica. Nell’estate 1963, a seguito di una velenosa campagna di stampa che vide in prima fila il segretario del Psdi Saragat e il sostegno di potenti ambienti industriali privati, desiderosi di legare la produzione dell’elettricità esclusivamente al petrolio e al campo di relazioni atlantiche stabilito dalle Sette sorelle, la magistratura accusò Ippolito di atti in falso pubblico, peculato e abuso d’ufficio. Lo scienziato, soprannominato il Mattei dell’atomo venne arrestato nel marzo del 1964, con l’imputazione, ad esempio, di avere fatto acquistare con i fondi del Cnen 1400 copie di un saggio del ministro dell’Industria, il democristiano Emilio Colombo. Ippolito subì in primo grado un’incredibile condanna a oltre undici anni di reclusione, poi ridotti nel 1966 a cinque anni e tre mesi e, dopo oltre due anni trascorsi in carcere, venne graziato da Saragat, divenuto capo dello Stato, il suo iniziale e principale accusatore.

Una terza personalità di manager pubblico che vide bruscamente interrotta la sua avventura imprenditoriale fu quella di Lorenzo Necci, di cui oggi ricorre il quindicesimo anniversario della morte, avvenuta nel 2006 a causa di un investimento da parte di un’auto. Necci, dopo essere giunto nel 1989 a un passo dalla presidenza dell’Eni (pare che avesse già ricevuto la telefonata di congratulazioni del presidente della Repubblica Cossiga), nel giugno del 1990 divenne amministratore delegato delle Ferrovie. Si deve a lui il progetto e la realizzazione del piano dell’Alta Velocità che, in pochi anni, ha consentito all’Italia di recuperare il terreno perduto rispetto ai principali concorrenti europei. Quando l’incarico gli venne affidato “mancavano sia le minime basi progettuali a autorizzato rie a livello locale, sia le disponibilità finanziarie” per realizzarlo come lo stesso manager denunciò in una lettera al presidente Scalfaro del 13 dicembre 1996 che non ottenne mai risposta.

Necci nel corso di sei anni riuscì a trovare i finanziamenti necessari all’impresa grazie a una felice integrazione di capitali privati e pubblici e al coinvolgimento del sistema bancario nazionale. Egli elaborò parallelamente un progetto di coordinamento e di interconnessione della logistica nazionale (strade, autostrade, gallerie e viadotti, treni passeggeri e merci, interporti, autostrade del mare) in una proiezione euro-mediterranea che avrebbe consentito all’Italia di aumentare il suo tasso di competitività a livello continentale. Nella sua visione ciò avrebbe evitato all’Italia di trasformarsi, nell’incombente età della globalizzazione, soltanto “in un Paese di transito, un Paese in saldo, esposto alle speculazioni finanziarie”. Nel 1996, quando era all’apice della sua influenza, cadde in disgrazia, rimanendo travolto da ben 42 inchieste giudiziarie, da cui uscì sempre assolto, tranne una per un episodio marginale.

Mattei, Ippolito, Necci, al di là delle inevitabili differenze, cosa hanno in comune? Direi, l’essere stati dei visionari pragmatici, che si sono posti il problema di innovare e, dunque, di riformare i rapporti tra pubblico e privato con un’originale visione imprenditoriale del ruolo dello Stato. Farlo significa però disturbare rendite di posizione consolidate perché implica la modifica delle relazioni tra il sistema politico e quello economico e, quindi, inevitabilmente, la definizione di nuovi rapporti di forza in ambito interno e delle relazioni internazionali.

In tempi di Recovery e di cosiddetto debito buono come quelli attuali, sarebbe utile che la lezione di questo tris di assi calato sul tavolo del potere nazionale non andasse dispersa, sia nella parabola della prepotente ascesa sia in quella della repentina caduta all’ombra della foresta italiana.

 

Miguel Gotor

 

Questo articolo è stato pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” del 28 maggio 2021, a pag. 31.