Konstantinos Kavafis (1863-1933), “Il tavolo accanto”

Konstantinos Kavafis (1863-1933), “Il tavolo accanto”

 

Avrà sì e no ventidue anni.

Eppure sono certo che, quasi altrettanti

anni fa, questo stesso corpo io l’ho goduto.                             3

 

Non è affatto esaltazione erotica.

Solo da poco sono entrato nel caffè:

non ho avuto il tempo di bere molto.

Lo stesso corpo io l’ho goduto.                                                      7

 

E se non ricordo dove –la mia amnesia che significa?                  8

 

Ah, ora, ecco, che si è seduto al tavolo accanto

riconosco ogni mossa che fa –e sotto i vestiti

lo rivedo nudo, quel corpo amato.                                              11

(Componimento 84 dell’edizione critica. 1918)

 

La cosa più importante in questa poesia è quello che non c’è. Non ci sono riflessioni generali sul desiderio, né recriminazioni sul Tempo che passando distrugge la bellezza, né osservazioni compassionevoli o ciniche sulla differenza di classe dei due amanti. Soprattutto non c’è nessun senso di colpa per il carattere minoritario del desiderio stesso, nessuna vergogna a manifestarlo. Anzi, la nota emotiva dominante è l’orgoglio: il corpo di questo ragazzo, così bello e giovane, io l’ho goduto. E’ un proclama indirizzato ai lettori direttamente dal caffè dove è entrato –quasi invitandoli ad assistere, a guardare anche loro quel corpo: “E io l’ho visto nudo”. “L’ho visto una ventina d’anni fa anche se adesso ne ha ventidue; non sono ubriaco o maniaco, ve lo garantisco oltre ogni logica, ne sono sicuro  e ve lo ripeto: i ragazzi sono eterni, si reincarnano in corpi diversi ma sono sempre gli stessi”. In chi lo afferma c’è una superiorità esibita, così trionfante che può permettersi l’ironia –se mi chiedete i dettagli li ho dimenticati, in quale città in quale camera in quale letto, ma siete voi sciocchi borghesi pignoli che avete bisogno di questi puntelli per la vostra felicità: io desidero un corpo assoluto, che travalica spazio e tempo senza smettere di essere materiale. E’ l’intensità stessa del mio desiderio che lo attira a me, me lo fa sedere al tavolo accanto in modo che io possa osservare ogni suo movimento e ogni piega dei vestiti, perché è sotto quei particolari che l’eros infinito si rivela.

Un miracolo, un sogno, un’utopia; come un fiore di cui non si scorga né lo stelo né la radice. La forza dei testi erotici di Kavafis sta proprio nella limpidezza e nella semplicità che sembra non richiedere spiegazioni: senza rime e senza metrica regolare, un momento di realtà che diventa ideale grazie alla sua purezza. Nessun contesto: intorno non c’è Alessandria d’Egitto nell’immediato dopoguerra –la Corniche del lungomare, coi localetti malfamati dove si giocava e si beveva (la parola greca è “kazìno”, qualcosa più di un bar e meno di un casinò), possiamo solo immaginarla; il ragazzo non sappiamo com’è fatto né come si chiama. Non si descrive nessun approccio, perché l’approccio è stato consumato vent’anni prima, dunque non c’è più rischio di fallimento. La gioia imperiosa dell’attimo è il brillio superficiale di una gigantesca formazione difensiva. In molte poesie Kavafis ci tiene a precisare l’età dei suoi partenr, che è sempre giovanissima; l’esibizionismo cela una competizione non risolta, come se si dovesse “dimostrare” il successo. Kavafis non ha mai pubblicato in volume le sue poesie, le stampava quasi di nascosto e le diffondeva tra amici: la società gli premeva addosso e lo costringeva a una lotta tanto più strenua quanto più umbratile e silenziosa. Viveva da modesto impiegato al ministero Lavori pubblici del Protettorato inglese, ma uscito di lì aveva una seconda vita, sfacciata e disinvolta, fatta di occhiate corrisposte, di commessi adolescenti che “ci stanno”, di baci in carrozza coperta. Di dolori anche, di addii: ma mai per colpevolizzazione reciproca, sempre e solo per i casi della vita. Kavafis non si è mai piegato a mettere in dubbio il proprio diritto al desiderio, ma l’ha pagato con un esilio semi-volontario dalla contemporaneità.

Avendo trascorso l’infanzia in Inghilterra aveva diritto a mantenere la cittadinanza inglese; ma ci rinunciò, anche rimettendoci qualcosa in termini di carriera. Al fratello rimasto a Londra continuò a scrivere in inglese, in inglese spesso prendeva appunti ma per la poesia volle essere interamente greco. Per lui, greco marginale, la grecità significava il mondo classico, Omero e Plutarco, ma anche gli epigrammi dell’Antologia Palatina e tutta la gloria insanguinata di Bisanzio. Ai primi del ‘900 coesistevano in greco due sistemi linguistici di diverso prestigio (i linguisti la chiamano “diglossia”): c’era la “lingua pura”, usata per i documenti ufficiali, e c’era la lingua del popolo. Molte poesie di Kavafis sono dedicate alla storia antica: è il suo altrove, un universo immaginario e incorruttibile. Le grandi regine bizantine sono repliche dell’amatissima madre. Ma soprattutto, nelle poesie erotiche, mescolare i due sistemi linguistici gli serve per oscillare attraverso il tempo: i ragazzi non si capisce se siano efebi del quarto secolo o concreti operai del 1910, lui stesso si considera “alessandrino” in senso ellenistico. Questo è lo schermo dietro cui Kavafis difende la propria immediatezza ( e a questo si aggrappano i critici quando vogliono felpare di cultura l’omosessualità).

Ma lo schermo vero, quello intimo per lui, rimane il ricordo: l’80% delle sue poesie sono state composte dopo i quarant’anni, quando ha scritto questa ne aveva cinquantacinque. Come il suo quasi coetaneo Proust ha ricostruito mondanità e desideri a posteriori, rintracciandone le leggi barricato in una stanza, così Kavafis ricostruisce a posteriori la propria esperienza sessuale –senza volerne sapere le leggi ma ringraziando la vita per ciò che gli ha concesso di godere; isolando con eroica civetteria un gesto, un corpo, e con questo solo tesoro sfidando il mondo.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 2 marzo 2014, p. 56