Belli. I prelati. “L’affari de Stato”. 28 aprile 1846

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. I prelati della Roma ottocentesca. 2- “L’affari de Stato”

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali, più in alto ancora il papa, in un meccanismo di indifferente e distratta prevaricazione”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

                                              

 

“L’affari de Stato”                     28 aprile 1846

 

Che fa er Governatore? Arrota stilli

e li dispenza a sbirri e bberzajjeri.

E er Vicario? Arimùscina misteri

per inventà ppeccati e ppoi punilli.                                                  4

 

E er Tesoriere? Studia er gran bussilli

de straformà er bilancio in tanti zzeri.

E er Zegritar de Stato? Sta in guai seri

pe ttrovà modo d’affogà li strilli.                                                     8

 

Tratanto er Papa cosa fa? Ssi’ acciso!,

guarda er zu’ orlòggio d’Isacchesorette (*)

e aspetta l’ora che sia cotto er riso.                                                 11

·        L’orologio era opera dell’orologiaio ebreo Isaac Soret.

 

Si ppoi pe ggionta sce volete mette

quer che ffa er Padr’Eterno in paradiso,

sta a la finestra a bbuttà ggiù ccroscette.                                     14

 

Cosa fa monsignor Governatore di Roma, capo della polizia di Stato? Affila pugnali e li fornisce agli sbirri e ai bersaglieri (corpo di polizia formato a quei tempi dalla feccia della società). E cosa fa il cardinale Vicario (che aveva il compito di vigilare sulla pubblica moralità)! Rimugina misteri per inventare peccati e poi punirli. E il Tesoriere? Studia il gran problema, di difficile soluzione, di trasformare il bilancio in tanti zeri. E il cardinale Segretario di Stato (sarebbe il primo ministro)? E’ in guai seri perché deve trovare i modi per soffocare le proteste e nascondere gli scandali. E nel frattempo il Papa cosa fa? Possa essere ucciso (è un’interiezione tipica del dialetto napoletano)! Guarda il suo meraviglioso orologio (opera del famoso orologiaio ebreo Isaac Soret) e aspetta l’ora che sia cotto il suo riso. Se poi per giunta ci volete mettere (volete sapere) quello che fa il Padreterno Dio in paradiso, sta alla finestra a buttare giù sulla terra digiuni, catastrofi, disgrazie.

 

Sonetto: (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

Le quartine. Le due strofe sono un miracolo di simmetria. Due versi per ogni figura amministrativa e di governo: il percorso va dai pugnali ai digiuni, dai misteri della finanza imbrogliona ai patimenti della vita. E’ un destino di arcana, eterna dannazione, l’unica giustizia possibile nell’inferno di Roma. Tutte le autorità sono impegnate nella ricerca di sempre nuove condanne per la povera umanità. Le rime, con la loro forte carica semantica, sono illuminanti: quella in A (stilli, punilli, bussilli, strilli) s’incarica di denunciare il metodo di governo, i misteri, gli imbrogli, le armi della repressione, il silenzio che cala sulle proteste ammutolite. Anche la struttura dei distici è chiarissima: si apre con la domanda e, con quattro ripetuti enjambement, si dà una incisiva staffilata risposta. Persino le allitterazioni sono importanti: nei primi tre versi c’è uno scoperto e insistente uso delle “r” (Governatore, arrota, sbirri, bberzajjeri, Vicario, arimùscina, misteri), il suono aspro della repressione, per poi approdare, nel quarto verso, all’invasione della “p” (per, ppeccati, ppoi, punilli), un’eco di pesantezza oppressiva.

La plebe romana è vista dal poeta come un popolo ai margini della storia, anzi murato nella non-storia, privo di prospettive, “abbandonato senza miglioramento”. Esso sente la propria condizione di oppressione come qualcosa di naturale ed inevitabile, giacché Dio stesso, nell’atto della creazione, ha definito le gerarchie sociali. Nessuno è escluso. Il Governatore, capo della Polizia di Stato, è responsabile della repressione fisica; il Vicario, che ha il compito di vigilare sulla moralità, inventa peccati per poi punirli facendosi responsabile della repressione morale; nel frattempo il Tesoriere studia nuove tasse da imporre e il Segretario di Stato soffoca scandali e proteste.

Le terzine. Per non parlare del Papa, solo preoccupato del proprio bene, attento al pranzo, innamorato del suo meraviglioso orologio, egoista al punto tale da sentirsi il Dio in terra e da desiderare, come l’Onnipotente, di essere solo (Iddio, prima di creare natura angeli e uomini, era solo). Anche Dio sta alla finestra e butta giù catastrofi, disgrazie. I potenti, il papa, la storia, la natura. Tutto, fino a Dio, è oramai insanabilmente corroso. E’ ribadita la continuità amministrativa: dal governo di Roma al governo del cosmo. La Provvidenza divina esiste e purtroppo si occupa degli uomini, rendendo loro la vita più difficile con un distratto ma costante intervento nei loro affari. Il Padreterno che sta alla finestra con l’atteggiamento e lo stato d’animo ozioso di chi dal decimo piano fa cadere oggetti sulla testa dei passanti, tanto per fare qualcosa, è una caricatura ma non una boutade: è la sintesi comica di una situazione universale dolorosissima nella quale l’uomo è senza alcuna protezione, schiacciato da molti poteri, solidali fra loro. Ed è solo. Ma anche Dio è solo e non è felice.

Scrive Vigolo: “L’ultima terzina, con quell’immagine della solitudine egoistica non solo d’un Papa Re, ma d’un Papa Dio prima della creazione degli angeli e dell’uomo, e perciò del Proprietario assoluto e celibe, senza figli, senza possibili partecipi, esprime l’antitesi più radicale alla “charitas” del Cristianesimo, imposta dalla predicazione e dall’esempio di Gesù”. A contrasto Samonà sottolinea: “Non è leggendo la Bibbia o altri testi che Belli ha conosciuto la violenza teocratica ma immergendosi nella vita della sua città; e riflettendo –oltre che ridendo e piangendo- su quella soffocante quotidianità, risale alla fonte dei mali, gradino per gradino, sino a Dio”.

Era già chiaro fin d’allora che se il papa aveva le chiavi di Pietro, e poteva serrare o disserrare le porte del Cielo, le chiavi del regno terreno erano saldamente in mano ai Segretari di Stato e ai loro collaboratori che potevano chiudere o aprire carriere e percorsi di porporati, monsignori e laici. Il giorno dopo la creazione di questo sonetto, il 29 aprile 1846, il nostro poeta scriverà –con senso di sgomento- “La morte co la coda” (vedi la mia interpretazione postata nel Sito nel dicembre 2012, Portale “Letture testuali e con-testuali”).

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello