Belli. Il Papa. “L’elezzione nova”, 18 dicembre 1834

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Immagine e ruolo del Papa. 2- “L’elezzione nova”, 18 dicembre 1834

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche.

Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

L’elezzione nova                                   18 dicembre 1834

 

Dice che un anno o dua prima der Monno

morze ne la città de Trappolaja

pe un ciamorro pijato a una battaja

er Re de sorci Rosichèo Siconno.                                           4

 

Seppellito che ffu da la sorcaja

sott’a un zasso de cacio tonno tonno,

settanta sorche vecchie se serronno

pe fanne un antro in un casson de paja.                                 8

 

Tre mesi ereno già da tutto questo,

e li sorcetti attorno a quer cassone

s’affollaveno a dì: “Famo un po’ ppresto”.                                  11

 

Quant’ecchete da un bucio esce un zorcone

che strilla: “Abbemus Divorìno Sesto”.

E li sorci de giù: “Viva er padrone”!                                           14

 

Si narra che all’inizio dei tempi morì nella città di Trappolaja, per un cimurro preso in battaglia, il re dei topi Rosicheo Secondo. Dopo che il re fu sepolto da tutta la topaglia sotto un sasso di cacio tondissimo, settanta vecchi topi (si allude al Collegio cardinalizio riunito nel conclave da cui fu eletto papa Gregorio XVI) si chiusero in un cassone di paglia per sceglierne un altro. Passarono tre mesi e intorno a quel cassone i sorcetti si affollavano per gridare: “Facciamo presto”. Quando, eccoti che da un buco, esce un topone che strilla: “Habemus Divorìno Sesto”. E la folla dei topi a sgolarsi: “Viva il padrone”!

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD.

 

Le quartine. Ancora una volta l’inizio è favolistico. “Dice”: apre la porta a una voce narrante che sembra essere l’eco d’un racconto popolare che va di strada in strada, di piazza in piazza, di porta in porta e si accumula, quasi vivisezionando il presente. Proprio nello stesso periodo in cui a Napoli Leopardi sta scrivendo i “Paralipomeni della Batracomiomachia”, le “Aggiunte della Battaglia dei topi e delle rane” (in cui i topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici e i granchi gli austriaci), anche il Belli costruisce una storia che ha precisi riferimenti animaleschi. E questa coincidenza è davvero commovente e intrigante per le analogie che suggerisce tra i due solitari e grandissimi sudditi dell’arretratissimo Stato Pontificio che riflettono congiuntamente sul tema del potere e del ruolo che gli esseri umani possono ricoprire nel grande e tragico gioco della vita. Ma le prospettive divergono nettamente. Nel testo belliano c’è solo un popolo-plebe, sudditi senza coscienza, immersi in un’ignoranza superstiziosa, una società chiusa e bloccata, un viaggio tormentoso e fosco nella non-storia, con un senso cupo di destino immodificabile. Leopardi invece, in una strofa bellissima della “Ginestra” (1836) annoterà: “Nobil natura è quella /  che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua,/ nulla al ver detraendo,/ confessa il mal che ci fu dato in sorte…” (vv. 111-116); e poi esorterà: “…ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali /  madre è di parto e di voler matrigna./ Costei chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando,/ siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia,/ tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune.” (vv. 123-135). Questa di Leopardi è “la grande alleanza degli esseri intelligenti contro la natura”, come Giacomo aveva già scritto in una nota dello “Zibaldone” del 13 aprile 1827 (42, 80).

Nel nostro sonetto tutta la prima strofa è giocata su un incalzante enjambement che di verso in verso sembra precipitarsi sul preteso re morto, Rosicheo siconno, sovrano di una città di nome Trappolaja (si avverta l’arrotarsi stridulo delle “r”). La seconda strofa, divisa esattamente a metà in due distici, è dominata dall’insistenza sibilante delle “s”, che trionfa nel verso 7: settanta sorche vecchie se serronno. E’ una straordinaria vivacità inventiva, che alterna la favola alla digressione riflessiva, l’ironia e lo scherzo al grottesco. L’intreccio tra i due livelli –favolistico e reale, straordinario e ordinario, prodigioso e quotidiano- imprime alla narrazione la sua fascinosa peculiarità: alterazione delle traiettorie, pungente irrequietezza, coincidenze che stridono. E’ una volontà di fuga oltre le cose, verso il mistero nascosto al di là del sipario?

Le terzine. Entra prepotente in scena la storia. Il conclave dal quale era uscito eletto papa Gregorio XVI era durato quasi due mesi. L’estro divertito e pungente del nostro poeta, la sua vena polemica descrivono meravigliosamente gli sviluppi della cronaca: l’esasperazione anche giustificata del popolo romano, l’evocazione figurativa del balcone solenne della basilica di San Pietro (da un bucio, v. 12) –coerente sviluppo della metafora del casson de paja (v. 8) nel quale si sono rinchiusi i cardinali (settanta sorche vecchie) in conclave-, lo strillo del cardinale camerlengo che annuncia l’Habemus papam. E il Divorino sesto, il nome esplicativo del nuovo pontefice, è del tutto coerente con la riverente sottomissione della plebaglia, Viva er padrone (v. 14). E’ grande la capacità del nostro poeta di aderire in ogni piega a una realtà che dimostra di ben conoscere, anche nei più minuti dettagli, frutto di una lunga frequentazione di trame, complotti, passioni, intrighi, misfatti. Mi viene alla mente un’interessante nota del cardinale Mazzarino: “Spalancate le porte dell’animo, tosto sbucano le fiere da’ covili del cuore”.

 

Qualche giorno dopo, il 24 dicembre 1834, la vigilia di Natale, Belli scrive un sonetto che continua ad insistere su metafore animalistiche.

 

                                   Er gatto girandolone                          24 dicembre 1834

 

Nina, che vorà dì che stamattina

è or de pranzo e nun ze vede er gatto?

E io minchiona j’ho ammannito un piatto

pien de sgarze e de schiuma de gallina!                             4

 

Ce saria caso che sse fussi fatto

serrà in zuffitta? Vòi provacce, Nina?

Già, la porta ce sta ttanta vicina!

Se sentiria strillà: mica è ppoi matto.                                 8

 

‘Gni vorta che sta bestia nun ze trova

me riviè a mente povero Ghitano

c’aveva sempre quarche bòtta nova.                                              11

 

Un giorno Roscio nun tornava; e lui

sai cosa disse? “Starà ar Vaticano

a conzurtà co li compaggni sui”.                                         14

 

                                               Il gatto vagabondo

 

Nina, che vorrà dire che stamattina è già ora di pranzo e il gatto non si vede? E io stupida gli ho preparato un piatto pieno di lische di pesce e di schiumatura del brodo! Forse potrebbe essersi fatto chiudere in soffitta? Nina, vuoi provare a vedere? Ma no, la porta è tanto vicina. Sentiremmo i miagolii: mica è fesso. Ogni volta che questa bestia non si trova mi riviene a mente il povero Gaetano: aveva sempre pronto qualche motto satirico piacevole. Un giorno Roscio, un gatto di pelo rosso, non tornava; e sai lui come se ne uscì? “Starà in Vaticano a consultarsi con gli altri rossi, i cardinali (evidentemente tutti felini).

 

Mi sembra chiaro che lo scopo principale dell’opera del Belli è raggiungere un realismo integrale e totale, romantico ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi. Semmai obbediente a “La Verità è com’è la cacarella, / Che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / Hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / E stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / La Santa Verità sbrodolarella / T’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

 

                                                                                  Gennaro  Cucciniello