La donna-scienziata che educò Voltaire

La donna che educò Voltaire

Al filosofo e amante Madame Du Chatelet insegnò i principi della scienza moderna. Oggi riscopriamo le sue opere, a partire da una celebre favola da lei rivisitata.

Per quanto celebre, Madame du Chatelet non si direbbe soddisfatta se non venisse celebrata, e ha ottenuto anche questo diventando l’amica ufficiale di Voltaire. E’ lui a dare lustro alla sua vita, ed è a lui che dovrà l’immortalità”. Così scriveva, intorno al 1745, Madame du Deffand in un perfido ritratto. Obnubilata dall’antipatia, gelosa dei successi che la ambiziosa marchesa andava raccogliendo nella comunità scientifica, la grande epistolografa sbagliava pronostico. In effetti, a prima vista, la passione per la scienza di cui Madame du Chatelet faceva mostra non aveva niente di eccezionale. Non era certo la sola dama del bel mondo parigino a essere in rapporto con fisici e matematici illustri e ad avere a casa propria un gabinetto scientifico.

Tenuta a battesimo da Fontenelle, che aveva dedicato a una bella marchesa le sue “Conversazioni sulla pluralità dei mondi” (1698), l’infatuazione per le scienze era da molto tempo un fenomeno alla moda. Il nostro Algarotti non otteneva forse, con il suo “Newtonianesimo per le dame” (1737), un successo su scala europea? A essere eccezionale in Madame du Chatelet era la sua preparazione scientifica e la sua superiore intelligenza che ne dovevano fare, a tutti gli effetti, la prima femme de sciences –vale a dire la prima scienziata francese. Ma poiché i suoi studi riguardavano un campo per specialisti, sarebbe stato il suo legame con Voltaire a essere ricordato fin quando la storiografia femminista –a cominciare dal fortunato saggio di Elisabeth Badinter, “Emilie, Emilie. L’ambition féminine au XVIIIe siècle” (1983)- ne veniva a rivendicare il contributo di primo piano al progresso scientifico dei Lumi. Certo è che nessuno meglio di Madame du Chatelet illustra le luci e le ombre della condizione femminile nella civiltà aristocratica francese d’Antico Regime.

Appassionata. Nata nel 1706 in una famiglia d’antica nobiltà, Gabrielle Emilie LeTonnellier de Breteuil aveva avuto in sorte dei genitori affettuosi e liberali che, venendo incontro ai suoi desideri, le avevano concesso –fatto del tutto inconsueto per una ragazza- di ricevere la stessa educazione dei fratelli e di imparare il latino, la filosofia, le scienze esatte. La seconda fortuna era stata che il marchese Florent Claude du Chatelet, il marito scelto per lei, avrebbe dimostrato di avere “il cuore e l’intelligenza necessari nella parte difficile di marito di una donna d’eccezione che si abbandonava agli eccessi a tutte le passioni, intellettuali e carnali che fossero”. Dal canto suo Emilie avrebbe ottemperato ai doveri che la morale nobiliare richiedeva alle mogli in cambio della libertà sentimentale. Garantiva infatti la discendenza del casato mettendo al mondo due figli maschi, si batteva per il prestigio sociale ed economico della famiglia e intratteneva con il marito un’amicizia a tutta prova.

In compenso, appassionata e sensuale, collezionava gli amanti, passando dai gran signori libertini come il conte di Guébriant –per il cui abbandono inscenava un drammatico tentativo di suicidio- e il duca di Richelieu, agli scienziati di vaglia come il poeta e astronomo Maupertuis. L’incontro con Voltaire, nel 1733, veniva però ad appagare per un memorabile decennio tanto le esigenze dell’intelligenza che quelle del cuore. Installati a Cirey, il castello dei du Chatelet ai confini con la Lorena, rimesso a nuovo da Voltaire, e dotato di un teatro, gabinetto scientifico e biblioteca, i due amanti inauguravano, in una osmosi intellettuale esaltante, il modello archetipico della coppia intellettuale moderna. Voltaire infondeva a colei che ribattezzava la Divine Emilie, la sua guida, il suo oracolo, la certezza del proprio talento, riconoscendole un’anima filosofica e mostrando indulgenza per le sue debolezze femminili –i suoi pompons.

Dal canto suo, lei lo iniziava allo studio delle scienze, dandogli le spiegazioni di fisica necessarie alla stesura degli “Elementi della filosofia di Newton” (1738). Era per Madame du Chatelet l’inizio di un’autentica metamorfosi di cui la traduzione della “Favola delle api” di Bernard de Mandeville, intrapresa nel 1735, costituiva la presa di coscienza.

Vizi privati, pubbliche virtù. Destinata a una grande fortuna, la Favola del filosofo olandese, naturalizzato in Inghilterra e morto nel 1733, paragonava la società umana ad un alveare dove tutte le api concorrono al bene comune tanto con le loro virtù che con i loro vizi. Mai data alle stampe e riaffiorata solo nel 1947 tra i libri e i manoscritti di Voltaire acquistati, alla morte del filosofo, da Caterina di Russia e conservati a San Pietroburgo, la versione di Emilie vede ora la luce in una accurata edizione critica (Marietti) con traduzione italiana a fronte, a cura di Elena Muceni.

Si tratta di un libero adattamento del testo di Mandeville, con numerosi tagli e interpolazioni, il cui principale interesse è costituito dalla prefazione di Madame du Chatelet. Alle soglie dei trent’anni, nel mezzo della sua corsa, la marchesa vi annunciava la sua rinuncia “alle frivolezze che assorbono la maggior parte delle donne per tutta la vita”, incominciava “a vivere con se stessa e a coltivare la sua anima”. La sua scelta andava, tuttavia, di pari passo con la consapevolezza dei propri limiti: “Sentendo che la natura mi aveva rifiutato il genio creatore che permette di scoprire nuove verità, ho reso giustizia a me stessa limitandomi a trasporre con chiarezza quelle scoperte da altri, di cui, a causa della diversità delle lingue, la maggior parte dei lettori non può usufruire”. In realtà, favorendo la circolazione delle idee, la traduzione costituiva per la marchesa un contributo essenziale alla diffusione dei Lumi e le consentiva di esporre le proprie convinzioni. Mentre Voltaire, in “Le Mondain” (1736), si ispirava alla Favola delle api per celebrare in versi la funzione civilizzatrice del lusso, Emilie prendeva spunto dal femminismo di Mandeville –che a sua volta faceva riferimento alla “Galleria delle donne forti” del gesuita francese Pierre Le Moyne- per denunziare l’ignoranza culturale in cui erano tenute le donne. Sarebbe ritornata, una decina d’anni dopo, nel suo “Discorso sulla felicità”, sulla funzione consolatoria della riflessione e dello studio per un sesso tagliato fuori dalla vita pubblica.

A quarant’anni –età fatale per una donna- Madame du Chatelet era tuttavia costretta a constatare che la sua relazione con Voltaire era entrata in crisi. Se la loro complicità intellettuale restava inalterata, quella amorosa era finita e il filosofo aveva disertato il suo letto per quello della nipote, Madame Denis. La delusione era grande ma Emilie non intendeva rinunciare alla pienezza della vita e perdeva la testa per il marchese di Saint-Lambert, un ambizioso poeta lorenese di dieci anni più giovane. Questo non le impediva però di intraprendere l’opus magnum della sua vita, la traduzione e il commento degli impervi “Principia mathematica” di Newton.

Vi stava portando gli ultimi ritocchi quando, incinta di Saint-Lambert, veniva colta dalle doglie e dava alla luce una bambina non desiderata, per morire due settimane dopo, stroncata da un embolo. Aveva solo quarantatré anni ma possedeva ormai tutte le carte in regola per assicurarsi l’immortalità a nome proprio.

Benedetta Craveri

Questo articolo di Benedetta Craveri è stato pubblicato ne “Il Venerdì di Repubblica” del 2 ottobre 2020, alle pp. 116-119