Tre poeti italiani del ‘900 per teatralizzare Dante

Tre poeti per teatralizzare Dante

Sanguineti, Luzi, Giudici: il ponte tra il Medioevo e oggi.

Nel “Corriere della Sera” del 13 marzo 2022, alle pp. 40-41, è pubblicato un articolo di Federico Tiezzi che spiega il suo tentativo, cominciato alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, di portare in teatro la “Divina Commedia” di Dante.

Tempus fugit. Tra 1989 e 1991, nel lasso di tempo compreso tra la caduta del muro di Berlino e la morte di Freddy Mercury, mi accorgevo che il tempo della scrittura, della lettura, dell’ascolto rischiavano di venire negati a profitto d’una specie di percezione totale, ubiquitaria, panottica, onnivora, che escludeva il silenzio necessario alla comunicazione. Era arrivato il momento dei sogni assoluti. Fu così che decisi di portare in scena la Commedia dantesca che fin dal titolo, si potrebbe dire, ha un richiamo al teatro. Nella Commedia ci sono, oltre al miracolo di poesia che conosciamo, personaggi, ambienti, fenomeni atmosferici e luminosi, situazioni leggibili anche come indicazioni di scenografie, di azioni, di suoni, persino di recitazione. Ci sono notazioni psicologiche e storiche. C’è, insomma, una potenzialità drammatica che aspettava solo di venire affrontata da un regista e da attori.

Detto fatto: costituii un triumvirato di poeti che fungessero da ponte tra il Medioevo e la nostra epoca, e li scelsi in base alle rispettive affinità con il mondo dantesco: Edoardo Sanguineti per l’Inferno, Mario Luzi per il Purgatorio, Giovanni Giudici per il Paradiso.

La Commedia è una totalità capace di fondare una visione del mondo unitaria, mentre il poeta del ‘900 non ha quella suprema certezza: è un soggetto frammentato, ermetico, balbo, che chiede aiuto, per ricostruire la propria identità, alla psicoanalisi, alla sociologia, alla linguistica. Pensai a quell’impresa come a una nostalgia del tutto, vissuta dall’interno del frammento. E i tre poeti mi fornirono tre diverse frammentarietà.

Sanguineti eliminò quasi completamente Dante e Virgilio e la cantica divenne un seguito d’imponenti monologhi nei quali la terza persona diventava prima, portando in soggettiva luoghi, similitudini, considerazioni psicologiche, filosofiche o morali. Al plurilinguismo dantesco Sanguineti intrecciava, in un seguito d’idiomi dissonanti, il latino di Andrea Cappellano, il provenzale, il francese antico, l’inglese dei Cantos sull’usura di Pound. Ne nacque un seguito di arie, duetti, terzetti, sullo sfondo di una babele sonora che veniva incontro al mio desiderio di inoltrarmi in una esperienza della voce e del suono, sull’onda dell’Inferno musicale, uno dei dipinti più atroci di Hieronymus Bosch.

Sanguineti individuò il suo principale spazio di manovra non sull’immagine –anche se fornì il testo di visionarie didascalie- ma nell’intervento diretto sull’endecasillabo: “Dobbiamo eliminare il ron-ron della terzina incatenata –diceva- dobbiamo risvegliare l’attenzione dello spettatore”. Proponeva di togliere membri ritmici o di significato da versi intoccabili e che lo spettatore conosce a memoria: come la parola “tutto” nel verso di Francesca da Rimini: “La bocca mi baciò tutto tremante”. Sembrerà una dimenticanza dell’attore, dicevo, oppure che Dante sia stato ubriaco. E non lo facemmo. Ma rimasero alcuni versi ricostruiti a rima baciata, “come nel Corrierino dei Piccoli”, diceva.

In abiti da clown, Dante e Virgilio, dopo avere introdotto in latino e in volgare i temi della Commedia, sparivano, lasciando spazio a un seguito di lazzaretti, prigioni, ospedali, ribollenti sabbioni di fuoco, precipizi di pece, sterco, sangue. Questi luoghi scenici li sintetizzai in una struttura di ferro di 25 metri, in forma di corpo umano disteso. Il ventre di questo corpo era una vasca di fango in cui gli attori perdevano la fisionomia umana per ridursi a voce, urlo, pianto, rantolo, e arrendersi all’orrore e alla pietà di quella discesa nell’abisso.

Per il Paradiso –“Perché mi vinse il lume d’esta stella”, questo il sottotitolo- chiesi a Giudici di accentuare rispetto alla monologicità infernale, la coralità di quei fiati luminosi che sono le anime beate. Andavo a trovarlo a Bocca di Magra, dove passava le vacanze. Al contrario degli altri due poeti, Giudici non aveva esperienza di teatro, e il problema era come adattare la parola veggente, epifanica della terza cantica alla misurata concretezza del palcoscenico. Dovevamo incarnare una materia linguistica accecante e incandescente su quelle quattro assi calpestate all’infinito. La condizione dei dannati è in qualche modo rappresentabile, molto più arduo raccontare la beatitudine. Proposi a Giudici di proiettare l’icona di Dante in cammino verso il linguaggio su quella di Marcel Proust in cammino verso la memoria. Giudici comprese e giocò la sua drammaturgia sul piano della letteratura. E fece apparire, in versi o come personaggi, Eliot e Kafka, Noventa e Tiresia, Pound e Sereni, l’impiegato che rientra a casa la sera, un Chierico capriccioso che discute di critica letteraria con un petulante Letterato Moderno, trasformando il Paradiso in una discussione quasi brechtiana su come si traduce un’esperienza mistica in scrittura, su come sia possibile farne una vita in versi. Gli proposi d’immaginare che le anime scendessero dall’Empireo nello studiolo di un Dante esperto di topografia tolemaica, che su un suo lettuccio trascrive le impressioni soggettive che quegli incontri hanno lasciato in lui. Ogni anima come un’epifania di memoria involontaria: un frammento di tempo ritrovato. Era così possibile dare vita a una rappresentazione teatrale mentale, virtuale si direbbe oggi. E quella parola, che secondo Contini è la più sperimentale della Commedia, come poteva incarnarsi nel corpo vivo degli attori? Giudici riportò il viaggio nei termini di un’avventura della mente, di un viaggio nella memoria: che era anche viaggio di Giudici stesso nei suoi ricordi e amori letterari. Quanto a me, mi spingevo a proiettare il Paradiso su Proust, come avevo associato il Purgatorio alla Montagna magica di Thomas Mann. E l’Inferno, vedevo retrospettivamente, si era proiettato sui bisogni del tormento dei personaggi di Samuel Beckett.

Ho lasciato infine il Purgatorio, che Mario Luzi siglò con un suo verso bellissimo: “La notte lava la mente”. Luzi è il poeta al quale sono stato più vicino. Oltre all’ammirazione per il modellatore estremo e pensieroso dell’italiano in magnifici endecasillabi, del costruttore di testi dalla serrata drammaturgia, c’era una ragione pratica di vicinanza. Per mesi, ho salito le scale della sua casa di Bellariva, a Firenze. Il primo appunto che presi diceva: frequenza delle domande nel Purgatorio, dove è tutto un informarsi delle anime con Dante (salvo poi liquidarlo impazienti) e di dante e Virgilio con le anime, in amichevole dolcezza. Discutevamo dei nuclei tematici della cantica: il primo è l’esistenza del tempo. Contrariamente a Inferno e Paradiso, eterni e immutabili, il Purgatorio è destinato a scomparire. In questa direzione è la cantica più umana: ci sono i giorni e le notti, il sole e la luna sorgono e tramontano, si dorme e si sogna. E tre sogni scandiscono la cantica, suggerendo la possibilità di lasciarsi andare a suggestioni freudiane. Un secondo nucleo è costituito dalla salita: il sottotitolo che Luzi mi dettò fu Drammaturgia di un’ascensione. Si sale verso il mondo acqueo del Paradiso terrestre, luogo del mistero femminile, luogo di Beatrice, di Matelda, luogo d’acqe amniotiche e rigeneranti che hanno a che fare con l’oblio e la memoria: nel mondo maschile della Commedia il Paradiso terrestre ci ricorda che la salvezza di Dante è dovuta a un complotto di donne, con ai due capi opposti Beatrice e la Madonna. E poi, terzo nucleo, l’arte e gli artisti amici. Infine il corpo: che è il soggetto dei primi nove canti. Corpo umano, reale, che ricorda le canzoni della giovinezza; corpo le cui ossa possono essere sprezzantemente traslate al buio sul greto d’un fiume (Manfredi); corpo che si è visto morire e se ne riporta l’esperienza in diretta (Jacopo del Cassero); corpo insanguinato, forato nella gola, violentato dall’Arno (Buonconte da Montefeltro) o da un marito crudele (Pia de’ Tolomei). E c’è il rimpianto di Virgilio per il proprio corpo sepolto a Napoli.

Se il mio Inferno era stato il luogo del monologo e il Paradiso quello della coralità, qui il principio comunicativo fu il dialogo. Luzi propose un taglio da colloquio tra artisti. La cantica mediana, del resto, è un seguito d’incontri con musicisti, pittori e soprattutto poeti, antichi e moderni: quanto simile, ho sempre pensato, a quel gruppo che si riuniva da Paszkowski e alle Giubbe Rosse a Firenze, con Gadda, Sereni, Parronchi, Montale, Bilenchi, Traverso, e Luzi stesso!

L’Antipurgatorio, scrive Luzi, si svolge “in una base oceanica, fantascientifica, forse una base artica, nella distesa bianca del polo”. Le anime arrivano come se uscissero da un chiarore. Somo nigranti che arrivano per nave, dalla foce del Tevere, guidati da un angelo abbagliante, diceva. Le balze scoscese della Montagna, invece, per Luzi erano un luogo attivo, un’arnia insonne, dove i penitenti distillano un miele amaro, un dolce assenzio. Il Paradiso terrestre, infine, ha questa didascalia: “Estasi (vista interna)”. Anime dinamiche, diceva, queste purgatori ali, sostanziate di desiderio. Sospese in quel punto che guarda insieme al passato (la vita trascorsa) e al futuro (il cielo della beatitudine).

Questo viaggio, iniziato nel 1989 e tuttora in corso, è per me un cammino verso il luogo segreto e sperimentale, dinamico e cruciale, in cui la lingua italiana si fa teatro del mondo.

Federico Tiezzi