La notte del Getsemani. La prima preghiera di Gesù.

La notte del Getsemani

La prima preghiera di Gesù e il silenzio di Dio

 

Prostrato e afflitto, perso nell’angoscia, Gesù si rivolge al proprio padre –“Abbà! Padre”, secondo Marco (Mc, 14, 36)- nella preghiera. Per Matteo egli prega prostrato “con la faccia a terra” (Mt, 26, 39). In questo modo radicale si svela l’essenza della parola. La radice ultima della parola è, infatti, la preghiera perché non c’è parola –come mostra l’atto stesso della preghiera- che non sia un’invocazione rivolta all’Altro. La parola, nel suo fondamento ultimo, non è forse sempre un’invocazione, non è sempre rivolta all’Altro? In questo senso, nel silenzio a cui essa è traumaticamente ridotta nel Getsemani, la parola può rivelare la sua struttura più profonda, che è quella di essere un’apertura sul mistero dell’Altro, di essere sacramento dell’Altro, la Legge più propria dell’Altro.

E’ dalla strettoia difficile del silenzio che la parola di Gesù deve passare; attraversare il silenzio inumano di Dio. Egli vive la radice ultima della parola trovandosi nella posizione di chi invoca l’Altro. Ma Dio –suo Padre- non risponde. Come è possibile? E’ lo scandalo del cristianesimo: Dio non può rispondere a Dio? E che Dio sarebbe un Dio che supplica Dio? Un Dio può pregare? Gli dèi non pregano, solo gli uomini pregano. Non è allora una figura paradossale, inconcepibile, assurda, quella del Dio che prega? Lo ricorda Chesterton quando racconta che in una sua visita a Gerusalemme un ragazzino accompagnandolo al Getsemani gli disse: “Questo è il luogo dove Dio aveva detto le sue preghiere?”.

Gesù prega non come un Dio, ma come un uomo che si rivolge a Dio vissuto come Padre. La cosa più sconcertante nel Getsemani è il silenzio di Dio di fronte a questa invocazione. E’ il silenzio del Padre di fronte alla parola invocante del figlio. Doppio silenzio, dunque: i discepoli persi nel loro sonno stordito –simile a quello in cui sprofonda il profeta Giona- e il Padre latitante che non ascolta il lamento del figlio. Un silenzio tremendo si scava tra il Maestro e i suoi allievi come tra il figlio e il Padre.

Quando la preghiera non trova alcuna risposta assume la forma del grido. Nell’ultimo film di Martin Scorsese intitolato, non a caso, “Silence” (2016), Dio coincide, almeno sino a un certo punto della narrazione, con il silenzio più assoluto e ostinato di fronte al grido-appello dei suoi fedeli-martiri che invocano il suo intervento e la loro salvezza. Dio non risponde se non con il silenzio. E’ lo stesso silenzio assordante che incontriamo nella notte del Getsemani. Il silenzio di Dio, assordante come può esserlo stato di fronte all’atrocità della Shoah o come è davanti alla morte di bambini innocenti stroncati da malattie incurabili. Sempre, in questi casi e in tutte le volte dove la vita è sottoposta al dolore privo di senso, il silenzio di Dio appare come insopportabile e inumano.

La preghiera disperata del Getsemani ritorna anche nel tempo più cruento della passione del Cristo crocifisso. In quel momento l’invocazione di Dio riprende quella dei Salmi (22, 2): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46; Mc 15, 34). Ma il silenzio di Dio appare nella sua natura più scandalosa proprio nella notte del Getsemani perché è in quell’occasione che Gesù fa, per la prima volta nel corso della sua vita, esperienza del silenzio del Padre. Sino ad allora infatti il Padre gli era sempre stato vicino, lo aveva sempre sostenuto, aveva sempre risposto ai suoi appelli. Questo silenzio radica ancora di più Gesù all’uomo, lo rivela, anzi, come radicalmente umano, dunque esposto, come lo sono tutti gli uomini, al silenzio di Dio.

Gesù prega il Padre chiedendogli di interrompere la Legge, di fare posto a un’eccezione, di considerarlo davvero come figlio unico. Ancora di più: gli chiede di contraddire il suo destino, di modificare la storia già scritta, di salvare la sua vita singolare dalla morte. Il Dio biblico è infatti il Dio che può sospendere la Legge, come accade –per esempio- nella scena del sacrificio di Isacco: è un Dio che parla e, soprattutto, è un Dio che risponde. Il Dio biblico non assomiglia affatto agli dèi o agli oracoli del mondo greco che leggono il carattere immutabile del destino, ma è un Dio disposto a correggere se stesso, a piegare la durezza della Legge alla Legge dell’amore.

Gesù prega affinché gli sia permesso di essere lui stesso un’eccezione a ciò che già è stato scritto, un’eccezione alla Legge. Sta forse con questa preghiera tradendo il suo desiderio? Sta venendo meno alla sua vocazione? Gesù che chiede la sospensione della Legge (della morte) nel nome di un’altra Legge (della vita) è un Gesù radicalmente uomo che rifiuta l’inumanità della Legge stessa. Non dovrebbe questo Dio che è suo padre dare prova di rinunciare alla sua decisione –offrire in sacrificio il proprio unico figlio per redimere l’umanità dal peccato-, non dovrebbe forse sospendere, come già fece con Abramo, l’applicazione inumana della Legge? Quello che Gesù chiede con la sua prima preghiera al Padre è di cambiare il proprio piano. Questa sua supplica resta del tutto coerente con la sua predicazione: la Legge del Padre non è forse tale perché sa cogliere l’eccezione, sa fare posto al perdono, alla grazia, sa –insomma- interrompere la Legge? Non è quello che accade innumerevoli volte nei vangeli, per esempio con la vicenda dell’adultera raccontata da Giovanni (Gv, 8, 1-11), o con la figura del figliol prodigo della parabola di Luca (Lc, 15, 11-32)? E non è questo il compito stesso che Gesù si pone nella sua stessa predicazione: portare a compimento la Legge (Mt, 5, 17-20)? Sottrarre la Legge allo spirito di vendetta, emancipare la Legge dall’incubo del sacrificio e della pena nel nome dell’amore?

 

Massimo Recalcati

 

Il testo è tratto dal saggio, “La notte del Getsemani”, Einaudi, pp. 65-68