La volontà di riformare la Costituzione

La volontà di riformare la Costituzione

 

Pubblico questo articolo di Massimo L. Salvadori, apparso nella “Repubblica” di venerdì 25 novembre 2016, a pag. 43. E’ un tentativo di storicizzare il dibattito sulla genesi della nostra Carta Costituzionale e sui diversi, a volte antitetici, orientamenti esistenti nei grandi partiti politici tra il 1946 e il 1947. E’ l’auspicio che si possa superare una prassi inconcludente e caotica, un intreccio di veti continui e costanti. Da varie parti si sostiene che questa riforma costituzionale ha lacerato il Paese ma le riforme vere spaccano i Paesi, una riforma autentica divide. Da una parte i conservatori, dall’altra gli innovatori; da una parte i gattopardi, dall’altra i modernizzatori. Se non vuoi dividere devi assumerti la responsabilità di dire che le riforme non le vuoi fare per niente. E infatti per settanta anni hanno fatto solo finta di farle. Voglio far notare che il paese è diviso e confuso; il ceto politico è totalmente dilaniato, alla faccia di chi (D’Alema e Quagliariello) diceva che una nuova e buona riforma la si sarebbe fatta in soli sei mesi. Buona lettura.

                                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

E’ un Leitmotiv dei sostenitori del No al referendum del 4 dicembre l’argomento secondo cui è una mera forzatura propagandistica che vi sia un nesso tra la crisi della governabilità in Italia e la Costituzione entrata in vigore nel 1948. Su questa tesi hanno insistito e insistono in particolare gli ex presidenti della Corte Costituzionale Zagrebelski e Onida e il magistrato Armando Spataro. Cercherò di contraddire quanto da essi sostenuto in base a ciò che dice a chiare lettere la storia politica e costituzionale d’Italia a partire dalla elaborazione e firma della Costituzione oggi in vigore.

Tre sono i punti che intendo sottolineare (non sono certo il primo a farlo).

Primo. Il testo costituzionale espresse un accordo raggiunto solo dopo accesi contrasti tra i maggiori partiti emersi sulla scena dopo il 1945 –DC, PCI, PSI- e fu il frutto del comune interesse a trovare –in un sistema a basso tasso di governabilità del Paese- una reciproca assicurazione, dato il vivo timore che i campi opposti nutrivano l’uno nei confronti dell’altro.

Secondo. Il bicameralismo perfetto, inizialmente respinto sia da PCI e PSI, decisi sostenitori del monocameralismo (e anche contrari alla Corte Costituzionale!), e respinto anche dalla DC, favorevole a un Senato che rappresentasse le professioni e gli enti regionali, fu infine individuato come strumento di quella reciproca assicurazione e architrave per rallentare il processo legislativo mediante il ping-pong tra le due Camere.

Terzo. E’ contraria ad ogni evidenza storica la presa di posizione a difesa di una architettura costituzionale che il Parlamento –di fronte a carenze sempre più marcate- ha ripetutamente cercato di modificare senza concludere nulla: ad opera delle Commissioni bicamerali presiedute dal liberale Bozzi (1983-85), dal democristiano De Mita e dalla comunista Iotti (1992-94), dal pidiessino D’Alema (1997-98) col sostegno iniziale di Berlusconi (il quale poi ha tentato a sua volta invano nel 2005-2006 di varare la propria riforma).

Dunque: è dal seno del Parlamento che da quasi quarant’anni è sorta la volontà di riformare la Costituzione. Ma ora –di fronte al dato che a farsi interprete di tale volontà è l’attuale governo- i fautori del No presentano questa riforma come animata da un progetto eversivo, sostenendo che la responsabilità di quanto non funziona è da ricondurre non ai limiti della Costituzione fondata sul bicameralismo perfetto, ma ai partiti. Non si domandano, questi fautori del No, quale sponda questa Costituzione abbia offerto e offra all’agire dei partiti che essi deplorano?

Credo siano istruttive le riflessioni che –provenienti dalle parti opposte, si possono leggere nel saggio di Guido Crainz nel volumetto edito da Donzelli “Aggiornare la Costituzione”– sugli “intralci” inseriti nella Costituzione per frenare e ostacolare l’efficienza del processo legislativo.

Affermava Togliatti in sintonia con Nenni, entrambi piegatisi alla rinuncia al monocameralismo: “Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica e sociale del Paese (…) di qui la pesantezza e la lentezza nella elaborazione legislativa (…) e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale, di qui tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc.”. Questo il parere di Togliatti e questa l’ammissione del leader della sinistra DC Dossetti, il quale parlò di “una voluta intenzionalità nel delineare certe strutture non perché funzionassero ma perché fossero deboli (…): il governo anzitutto (…), quindi la doppia Camera, con pari autorità ed efficacia, quindi un congegno legislativo che (…) non poteva esprimere un’efficienza qualsiasi”. De Gasperi, così come PCI e PSI temevano la DC, paventava “l’accesso al potere di un partito che aveva intenzioni totalitarie e dittatoriali”. Passarono gli anni e nel 1973, sulla base di una deludente esperienza più che ventennale, l’eminente giurista democristiano Mortati definì il Senato “un inutile doppione”; Terracini nel 1978 concluse che “per rendere più rapido e snello il lavoro del Parlamento” occorreva abolire il Senato; e seguirono Iotti, Berlinguer e Ingrao. Dalla diffusa consapevolezza della necessità di riforma della Costituzione nacquero le citate Commissioni bicamerali e anche il progetto di “Grande riforma” di Craxi, rimasto allo stadio di retorica politica: espressioni ad un tempo di propositi di innovazione e di miserandi fallimenti.

Facciano gli illustri costituzionalisti e magistrati citati (Zagrebelski, Onida, Spataro) la loro battaglia, ma non mettano in un cassetto la storia che sta dietro al progetto governativo di riforma, come se non fosse esistita e di pregnante significato. Dimenticavo che D’Alema, Berlusconi, Brunetta, Salvini, Grillo, Meloni, Gasparri promettono che, caduto col No il governo dell’eversore Renzi, provvederanno essi a varare, in tempi brevi e in concordia (D’Alema dice in sei mesi), le necessarie e buone riforme istituzionali. A loro l’Italia, se gli italiani vorranno.

 

                                                           Massimo L. Salvadori