I sonetti del Belli. Gli intellettuali. “Li dottori”, 6 ottobre 1831

La “Commedia umana” di Giuseppe Gioacchino Belli. Gli intellettuali. “Li dottori”, 6 ottobre 1831

 

La Commedia romana di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Li dottori”                                6 ottobre 1831

 

Sta somaraja che ssa scrive e legge,

sti teòlichi e st’antre gente dotte,

saria mejo s’annassino a ffà fotte

co li su’ libbri a ssòno de scorregge.                                                       4

 

Oh vedi, cristo, sì che bella legge!

Dà le corne a li spigoli la notte:

sudà l’istate come pperacotte:

e l’inverno p’er freddo nun arregge!                                                      8

 

Er vento butta giù, l’acqua t’abbaggna,

te coce er zole; e, pe deppiù malanno,

senza er prìffete un cazzo che sse maggna!                                        11

 

E co ttutti li studi che sse sanno,

a sta poca fregnaccia de magagna

nun ciànno mai da rimedià nun ciànno!

 

Questa somaraglia che sa scrivere e leggere, questi teologhi e tutte queste altre persone dotte, sarebbe meglio che andassero a farsi fottere con tutti i loro libri, accompagnati dal suono delle scoregge. Oh vedi, Cristo, quanto è bella la legge che regola la vita degli uomini! Battere la testa ai cantoni a causa del buio: sudare d’estate come pere cotte: e d’inverno non riuscire a reggersi a causa del freddo! Il vento ti butta giù, l’acqua ti bagna, il sole ti cuoce; e, per maggior male, senza il denaro un cazzo che si mangia! E con tutti gli studi che si sono fatti, a questo po’ po’ di male non sanno mai rimediare, non sanno.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

La struttura del testo è a chiasmo: la prima quartina si completa con l’ultima terzina, le due strofe centrali si integrano. Già le rime iniziali sono significative: “legge” si lega a “scorregge”, “dotte” rima con “fotte”  (la polemica del poeta con sapienti e teologhi, sempre entusiasti di quella che ritengono la felice condizione umana, ma in realtà incapaci di porre rimedio alla triste situazione alla quale ogni uomo è condannato dalla nascita, è esplicita e durissima, “co ttutti li studi che sse sanno / nun ciànno mai da rimedià nun ciànno, sta somaraja che ssa scrive e legge, vv. 12, 14, 1).

La legge che regola la vita umana è spiegata ed esemplificata nella seconda quartina e nella prima terzina: gli eventi atmosferici, dono della natura, si intrecciano con le magagne della pubblica amministrazione e dell’ingiustizia economica e sociale. Si batte la testa agli angoli delle strade, a causa del buio, perché il governo pontificio che amministra la città eterna non illumina con lampade a petrolio le strade; non c’è lavoro e la fame dilaga nei ceti poveri. Le stagioni sono inclementi col caldo eccessivo e il freddo rigido e poi, guarda un po’, er vento butta giù, l’acqua t’abbaggna, te coce er zole, vv. 9-10.

Si sente in questi versi un’antica rabbiosa desolazione che si mescola (come spesso avviene nelle poesie belliane) con un sempiterno sghignazzo, gli viene da esplorare i bordi dell’arroganza e della grullaggine umana.

Ancora una volta la riflessione belliana si accompagna alla dura polemica di Leopardi contro gli assertori delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità (quasi negli stessi anni elaborata a Napoli, v. “La ginestra”).

 

Non ci si dimentichi che in questo stesso giorno, 6 ottobre 1831, Belli aveva scritto il sonetto memorabile dedicato a Caino (cfr. la mia analisi nella sezione “La Bibbia”).

Il giorno prima, il 5 ottobre, aveva composto “Roma capomunni” (caput mundi).

Nun fuss’antro pe ttante antichità

bisognerebbe nasce tutti qui,

perché a la robba che ciavemo qua

c’è, sor friccica mio, poco da dì.                                                    4

 

Te giri, e vedi buggere de lì:

te svorti, e vedi buggere de là:

e ar vive l’anni che campò un zocchì (un non so chi)

nun ze n’arriva a vede la mità.                                                                 8

 

Sto paese, da sì che sse creò,

poteva fa cor monno a ttu pper tu,

sin che nun venne er general Cacò (Principio della Repubblica Franco-romana).

 

Ecchevel’ er motivo, sor Monzù,

che Roma ha perzo l’erre, e che pperò

de st’anticaje nun ne po’ ffà ppiù.                                                14

Le antichità romane, medievali e barocche della città si rivelano solo una buggera, cose meravigliose ma anche strane e incomprensibili per il popolano. Al nostro poeta Roma si presenta, così, lontana e distante, da indagare e conoscere con i nuovi strumenti del dialetto e di un realismo assoluto.

Gennaro  Cucciniello