“L’arrivo all’abbazia”. Sequenza del film “Il nome della rosa” di J. J. Annaud, 1986

“L’arrivo all’abbazia”. Sequenza tratta dal film, “Il nome della rosa”, di Jean Jacques Annaud, 1986.

 

Il testo è stato estrapolato da un fascicolo di 112 pagine, scritto dagli studenti di due classi terze del Liceo Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, pubblicato in forma di quaderno nel giugno 1996 e custodito nella biblioteca dell’istituto. Vi si dimostrano, accanto alle inevitabili incertezze del primo approccio di lettura di un testo visivo, originalità e lucidità di analisi, acutezza e sistematicità nell’organizzazione dei dati, una pazienza ammirevole nel ripetere più volte al video-registratore l’indagine sui più diversi aspetti della sequenza e nel fissarne sulla carta le coordinate più significative (associando le abilità legate alla cultura del libro a quelle derivate dalla cultura dello schermo).

Il cinema è l’arte che consente di integrare al meglio l’indagine bibliografica, iconica, musicale, tecnica. Le descrizioni d’ambiente, i paesaggi, i costumi, lo scavo psicologico dei personaggi e delle folle, i movimenti di massa, la stessa tecnica del montaggio offrono ai giovani studenti stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella dimensione quotidiana (fantastica e insieme materialmente elementare) di un fatto e di un’epoca. Questa esperienza di lettura, smontaggio e interpretazione di un testo audiovisivo ha fatto parte di un progetto più ampio di “Letture testuali e con-testuali” (poesia, novella, romanzo, cinema, saggistica, giornalismo, politica, pubblicità, canzoni), attuato in un arco di cinque anni, dal 1993 al 1998, che ha puntato semplicemente ad avvicinare gli studenti ad un uso più attento e critico anche della civiltà delle immagini. Li si è voluti  stimolare ad arricchire il loro lessico, con una quotidiana e paziente pratica di lettura, di ascolto, di visione, per contrastare un’espressività orale e scritta sempre più povera e banalizzata. Si è voluto suggerire un metodo di analisi, di concentrazione, di interrogazione di se stessi, di discussione e confidenza con gli altri (che dura da secoli e che oggi, forse, si sta perdendo). Di più, coltivando la fatica dell’interpretazione, lentamente costruiranno la pratica di un continuo approssimarsi alla verità, di una sua messa in discussione, di una necessaria dimensione sociale del pensiero, di una coltivazione di sé (già Leopardi e Gramsci dicevano che lo studio “è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”).

prof. Gennaro Cucciniello

 

L’arrivo all’abbazia

“Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327. Che Dio mi conceda di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto allora avvenne, in un luogo remoto a nord della penisola italiana, di cui è pietoso e saggio tacere il nome”. Queste sono le parole di Adso che, ormai vecchio, richiama alla memoria e cerca di rivivere quei brutti e insieme piacevoli ricordi incancellabili: le parole si sovrappongono a una colonna sonora che preannuncia le terribili vicende dell’abbazia. Iniziano le immagini: colline erbose che man mano vengono inquadrate con un campo lunghissimo (la macchina da presa infatti indietreggia). Si vedono così due pali eretti e bruciati, ancora fumanti, spaventoso presagio di morte. Un po’ più lontano si intravedono due persone su due asini, l’inquadratura diventa campo medio e prima dal davanti e poi da dietro sono inquadrati Adso e Guglielmo. I due poi si fermano, c’è un rincorrersi di primi piani, l’espressione del più giovane è stupita. In sottofondo si sente un suono di campane, si scorge in lontananza un’abbazia. Cambia la scena, i due hanno raggiunto un boschetto di conifere e si trovano ad una curva. Il paesaggio è imbiancato dalla neve, il sentiero su cui procedono è in salita, si sente lo scroscio dell’acqua di un torrente. La macchina da presa si alza e comincia a delinearsi l’abbazia. Del fumo la copre leggermente, si sente un canto gregoriano e ad esso si aggiungono poi delle voci: sono quelle dei poveri che vivono ai piedi del monastero. Essi parlano del freddo e della difficoltà di trovare della legna asciutta dopo l’abbondante nevicata.

Cambia l’inquadratura: un portone scuro si apre (se ne sente il cigolio), man mano che la porta si spalanca c’è un contrasto con la luce che arriva dal cortile interno: si vede la grata, che blocca l’uscita, alzata. Nel cortile diversi uomini camminano affaccendati. Guglielmo ed Adso entrano, sono ricevuti da alcuni monaci che danno loro il benvenuto: non hanno facce molto rassicuranti. Si sentono le parole di Adso: “Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a rivivere quegli eventi e a ricordare l’inquietudine sottile che opprimeva l’animo mio, mentre mi appressavo a quelle mura, perché oggi so che stavo lentamente interpretando indubitabili presagi scritti in quella pietra”. Il novizio è attonito per lo spettacolo della grandezza dell’abbazia e si guarda intorno; il portone viene chiuso, i due sono definitivamente entrati in questo “luogo abbandonato da Dio”. Anche Guglielmo si guarda attorno; si vede un monaco chinato che guarda gli ospiti, accompagnati da Remigio, il cellario; in sottofondo si sente sempre il canto gregoriano, si sentono e si vedono i fabbri che lavorano. Si ascoltano anche il vento e altri rumori, un altro monaco pulisce dei gradini coperti da foglie. La ripresa adesso è effettuata dall’alto: i tre che camminano sono infatti osservati dai piani superiori. L’abate Abbone li sta guardando da una finestra posta molto in alto ed è in compagnia di Malachia, il bibliotecario. Nella stessa stanza c’è Jorge, seduto; l’espressione di Abbone è preoccupata ed è accentuata dallo scuro cappuccio che gli copre la testa. C’è uno scambio di battute: l’abate chiede a Malachia se ne devono parlare con Guglielmo ma il bibliotecario risponde di no, poiché potrebbe guardare nei posti sbagliati. Abbone continua, dice che il francescano potrebbe scoprirlo da solo ma Malachia questa volta ribatte che sopravvaluta “i talenti” dell’uomo. Qui ci si riferisce alla strana morte di un monaco molto giovane, avvenuta qualche giorno prima, ma –visto che non la si riesce a spiegare- si pensa a un intervento diabolico. Tutta l’abbazia è inquieta e per questo si temono scoperte preoccupanti. Malachia accenna nella sua risposta a “posti sbagliati” con riferimento alla preziosa biblioteca, posto segreto e nascondiglio di verità, a volte pericolose; secondo lui solamente la Santa Inquisizione può indagare su quei fatti. Abbone fa una smorfia e con una mano tocca il prezioso crocifisso che porta al collo, sopra il saio. La macchina da presa sposta l’obiettivo e si vede Jorge; viene chiesta la sua opinione e il vecchio cieco risponde che preferisce “lasciare tali cose mondane a uomini più vigorosi di lui”. Per tutta la conversazione non c’è stata colonna sonora ma ogni tanto si sentivano degli scricchiolii del pavimento di legno.

Cambia lo spazio, adesso ci si trova nella cella assegnata a Guglielmo e Adso, si vede e si sente l’acqua che è versata in una ciotola, è poi inquadrato Adso. Il povero novizio ha qualche difficoltà nel trattenere i suoi bisogni corporali. Si sentono delle cornacchie gracchiare; Guglielmo si sta rinfrescando e, imperturbabile, dice ad Adso che “per dominare la natura prima bisogna imparare ad obbedirle”; ha capito l’urgente bisogno del ragazzo. Il frate poi, disturbato o forse insospettito dai versi degli animali, guarda dalla piccola finestra, dà poi le indicazioni per trovare il cesso. Adso si precipita verso la porta ma, dopo averla aperta, si ferma sorpreso: non capisce come il suo maestro possa sapere, visto che si trova qui per la prima volta, e chiede chiarimenti. Il francescano spiega che, arrivando, aveva visto un monaco recarsi in quella direzione molto velocemente e poi uscirne più calmo e più lentamente, da questo aveva dedotto le sue conclusioni. Guglielmo si rigira verso la finestra, si sentono di nuovo i versi dei corvi; quando Adso chiude la porta, cambia l’immagine. Quello che si vede è ciò che sta osservando Guglielmo dalla sua finestrella: un cimitero. C’è un particolare: mentre la neve copre tutti i cumuli di terra, uno solo è scoperto, è una tomba molto recente. Sopra la tomba c’è un corvo, è inquadrato il volto di Guglielmo, poi nuovamente il sepolcro, l’uomo chiude la finestra e comincia a disfare i propri bagagli; dalla sacca tira fuori un oggetto, un astrolabio, che tratta con cura e che appoggia sul letto; si sentono dei passi e arriva Abbone che si affaccia ad un’apertura della porta, ma prima Guglielmo ha coperto l’astrolabio con un panno. Abbone entra, Guglielmo congiunge le mani, l’abate gli dà il benvenuto e si scambiano un bacio. Tra i due c’è un piccolo dialogo, freddo e molto formale, con delle informazioni sull’arrivo dei delegati papali. D’improvviso il francescano si dice addolorato per la recente morte di un monaco; un primo piano evidenzia l’espressione sconvolta dell’abate, si sente uno scricchiolio. Abbone conferma e dice che il defunto era Adelmo da Otranto, Guglielmo resta colpito, conoscendo per fama il miniatore. Nuovamente si sentono i corvi: il frate chiede se sia stato un incidente e l’abate, con un po’ di esitazione, conferma ma non riesce a nascondere l’inquietante verità, chiude la porta e racconta l’accaduto, ansioso di farlo. L’uomo confessa a Guglielmo che il suo arrivo è anche l’esaudimento di una sua preghiera: aveva infatti chiesto l’arrivo di qualcuno che fosse a conoscenza sia dello spirito umano sia dell’astuzia del Maligno. A questa affermazione il volto di Guglielmo si fa più scuro. Abbone dice che questa morte ha portato inquietudine nell’abbazia. Si apre la porta e rientra Adso, che è presentato e saluta l’abate baciandogli l’anello. Nel frattempo il discorso continua e si racconta che dopo un violento uragano si è ritrovato il corpo orrendamente mutilato giù dalla rupe, sotto la finestra chiusa di un torrione: com’è accaduto il fatto? La finestra era chiusa dall’interno, e il vetro non era rotto, e non si può accedere al piano superiore: è opera di Satana. Abbone confida molto in Guglielmo, gli dice infatti che aveva proprio bisogno di una persona che fosse abile sia nello scoprire e poi eventualmente nel ricoprire, prima dell’arrivo dei delegati papali. Guglielmo ribatte che non si occupa più di questo; sottilmente però l’altro lo obbliga ad investigare; dice infatti che sarà costretto, per calmare la paura dei monaci, a chiamare l’Inquisizione. Ora Guglielmo è turbato: in passato era stato Inquisitore anche se poi aveva preferito lasciare l’incarico. Penso anche che sia importante la differenza tra Malachia e l’abate nel definire l’Inquisizione: per il bibliotecario è la Santa Inquisizione (dice “Santa” perché crede che possa scoprire la verità o perché sa che può nasconderla?) mentre per Abbone è semplicemente l’Inquisizione, parola che obbliga Guglielmo ad indagare.

Ritorna più volte (per i colori chiari e quelli scuri) il contrasto cromatico tra la candida neve e la terra scura, sia nel boschetto prima dell’arrivo all’abbazia, sia nell’osservazione del piccolo cimitero. Anche i sai dei monaci contrastano tra loro. Altro gioco semiotico è quello di luce-buio e anche questo ritorna più volte. La prima parte della sequenza si svolge fuori, alla luce, mentre la seconda all’interno, dove la luce è filtrata e limitata dalle finestre. L’abbazia è presentata in tutta la sua imponenza, scenario di innumerevoli misteri inquietanti.

                                                                       Francesca  F.