G. G. Belli, “La morte de Tuta”. Figure di donne romane,

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Figure di donne.  “La morte di Tuta”. 28 gennaio 1835

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette.

Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordarmi di un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

            “La morte de Tuta”                                          28 gennaio 1835

 

Povera fija mia! Una regazza

che venneva salute! Una colonna!

Viè una frebbe, arincarza la siconna,

aripète la terza, e me l’ammazza.                                        4

 

Io l’avevo invotita a la Madonna.

Ma inutile, lei puro me strapazza.

Ah che ppiaga, commare! che gran razza

de spasimi! Io pe me nun zò ppiù donna.                            8

 

Scordammene?! Eh ssorella, tu me tocchi

troppo sur farzo. Io so c’a me me pare

de vedemmela sempre avanti all’occhi.                              11

 

Fija mia bona bona! angelo mio!

Tuta mia bella! Viscere mie care,

che tt’ho avuto da dà l’urtimo addio!                                             14

 

                                   “La morte di Gertrude”

Povera figlia mia! Una ragazza che vendeva salute! Una colonna! Arriva una febbre, rincalza la seconda, si ripete una terza e me l’ammazza. Io l’avevo votata alla Madonna (a Roma questo invotire consisteva nel fare assumere alle persone guarite una veste di baracane lucido nero o violaceo, con attaccati ai fianchi due nastri pendenti con i colori di quella Madonna da cui si voleva la grazia). Ma è stato tutto inutile, persino lei, la Madonna, mi strapazza. Ah che ferita, comare! Che dolori! Io, per me, non sono più donna. Scordarmene?! Eh sorella, no, non mi convinci. Io so che mi sembra di vedermela sempre davanti agli occhi. Figlia mia buona buona! Angelo mio! Gertrude mia bella! Viscere mie care, ho dovuto io darti l’ultimo addio.

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

Le quartine. Lo stile patetico assume qui i tratti di un vero e proprio lamento funebre per caratterizzare il dolore disperato di questa madre: la donna piange e quasi rimprovera la Madonna perché, persa perfino la sua identità –Io pe me nun zò ppiù donna-, sa di non avere più nessuna speranza neanche nel tempo. All’inizio la mamma disperata rievoca l’immagine salutista della figlia, e le rime in A e B sottolineano con drammatico contrasto l’incalzarsi caotico dei fatti (una regazza, la frebbe me l’ammazza, puro la Madonna me strapazza / la fija mia… una colonna, arincarza la frebbe siconna, io pe me nun zò ppiù donna). E’ un’urgenza di sentimenti, sensazioni, paure, silenzi, rivelazioni: di questa madre sono le compagne dalla bocca stretta e dalla voce storta. Il dialetto è colorito, ruvido, icastico e terragno. Nessuno in verità può spiegarci nulla: ma la scrittura poetica può abbracciare tutto, salvare ogni stagione e ogni sgomento della vita. Non c’è semplificazione possibile in una morte che precede con ferocia assurda il corso degli anni.

Le terzine. Tutto il sonetto è percorso dall’intreccio tra i lamenti della madre e il dialogo con la vicina, prima chiamata commare (v. 7) e poi ssorella (v. 9), alla quale confidare il suo dolore. E il poeta vuole avvicinarsi, con le sue scelte formali, al pianto di questa madre: così prima ripete all’inizio della prima quartina e dell’ultima terzina la stessa invocazione (povera fija mia, fija mia bona bona), non trascurando di sottolineare con il chiasmo e la ripetizione il crescendo emotivo, e poi, negli ultimi versi, costruisce un miracolo: il mesto lamento dei versi precedenti si trasforma in un vero e proprio disperato singhiozzare (angelo mio, v. 12, l’urtimo addio, v. 14). Ancora una volta il nostro poeta dimostra di saper usare una lente privilegiata per guardare dentro le relazioni umane, in quel vivissimo e umanissimo territorio dove si consumano amori, menzogne, amicizie, solitudini, sotterfugi, credenze, bisogni. E’ capace di raccontare –in stringati ritratti poetici- l’esistenza –fiera e dolorosa- di queste donne, una vita in cui ricorrono povertà e miseria ma nella quale esse ci fanno scoprire il valore vitale della fragilità e della solidarietà. Si racconta l’esperienza della perdita spesso riducendo al minimo l’impalcatura della finzione a vantaggio di una cronaca minuta della scena.

Mi sembra interessante riportare qui alcuni versi di Eduardo De Filippo, scritti dal grande autore napoletano nel 1964 in occasione della sua trascrizione teatrale della novella “I pensionati della memoria” di L. Pirandello: “A vita è n’illusione, è ‘na facciata,/ ‘na mano ‘e stucco stesa nfacc’ ’o muro…/ ‘A morte chesto fa: leva ‘a pittura / ma… sulo p’ ‘o muorto, ‘a morte fa accussì./ Pe chi rummane ‘a morte fa paura,/ passa ‘a siconda mano e fa suffrì”.

Il giorno dopo, il 29 gennaio 1835, Belli compose un sonetto che insisteva sul tema della donna maltrattata, questa volta non dal destino ma dal marito. E’ il rovesciamento del quadro, doloroso e angosciato, che Belli aveva annotato –con patetica tenerezza- ne “La famijia poverella” del 26 settembre 1835.

                                               La moje der giucatore

 

Sei buffa! Come va? Va che Cammillo

pe giucà all’otto manna casa a ffiamme.

Va, Chiara mia, che dio ne guardi io strillo

me dà carci da roppeme le gamme.                                                 4

 

Va c’oramai, pe méttete er ziggillo,

io nun ciò ppiù camicia da mutamme.

Va c’oggi sto, nun me vergoggno a dillo,

che ancora poterìa cummunicamme.                                              8

 

Pe me ppacenza, so li mi’ peccati.

Poco male pe me. La mi’ gran pena

sò sti poveri fiji disgraziati.                                                                11

 

Ma ssenti questa, e nun lo dì a gnisuno.

Sabbito vinze un ambo. Ebbè? Annò a cena

co li compaggni e ce lassò a diggiuno.                                            14  

 

                                  

La moglie del giocatore

Sei buffa! Come va? Va che Camillo per giocare al lotto manda la casa in fiamme. Va che, Chiara mia, che se io mi metto a strillare –dio mi guardi- mi dà tanti calci da rompermi le gambe. Va che ormai, per concludere la serie delle mie disgrazie, io non ho più una camicia da cambiarmi. Va che oggi sto, non mi vergogno a dirlo, ancora in stato di poter prendere la comunione (cioè sono ancora a digiuno). Per me, pazienza, sconto i miei peccati. Poco male per me. La mia gran pena sono questi poveri figli miei disgraziati. Ma, senti questa e non lo dire a nessuno. Sabato vinse un ambo. Embè? Andò a cena in osteria coi compagni suoi e noi ci lasciò a digiuno.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello