L’arte al femminile è un atto di Fede Galizia, pittoressa

L’arte al femminile è un atto di Fede Galizia, pittoressa

Single, abile imprenditrice, straordinaria pittrice del ‘600. La traiettoria di una donna che nel clima severo della Controriforma gareggiò con i più grandi.

 

Ne “Il Venerdì di Repubblica” del 23 luglio 2021, alle pp. 106-107, è pubblicato questo interessante articolo di Chiara Gatti.

 

Bella, brava, imprenditrice e signorina. O meglio, single per scelta e per amore di carriera. Fede Galizia è il prototipo della donna moderna. Sullo sfondo di un’Europa scossa dalla severa propaganda controriformista, la sua figura volitiva si mosse fra le più importanti corti internazionali, da quella di Rodolfo II d’Asburgo, collezionista e mecenate, ai salotti culturali della dinastia sabauda.

Stimata, riverita, ingaggiata, pagata (anche bene), fu figlia d’arte e capitana di un’industria familiare che, al fianco del padre Nunzio, la vide incassare commissioni blasonate indifferenti al suo essere donna in un mondo di maschi dotti e sedotti dal suo talento sorgivo e dalla qualità eccelsa. Un vero modello di gender equality, lontanissima dalle future reticenze del ‘900 che relegarono l’arte delle donne nelle retrovie della storia. Peccato che la critica si sia dimenticata di lei. Rare mostre, laconici cenni sui manuali di liceo. Sfuggenti come la sua vita, di cui non si conoscono date. Né di nascita, né di morte. Forse fu stroncata dalla peste manzoniana del 1630. O forse dopo. O chissà.

Un piglio energico.

A mettere qualche punto fisso nella sua biografia ci pensa oggi la mostra “Fede Galizia. Mirabile pittoressa”, allestita al Castello del Buonconsiglio di Trento (fino al 24 ottobre) con un’ottantina di pezzi fra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi che la collocano in un panorama di altre ragazze emancipate, dall’estrazione sociale diversa ma che, potendo studiare –chi in convento, chi nelle botteghe più attive- allenarono mano e vocazione. Come Sofonisba Anguissola, chiamata alla corte di Filippo II a Madrid, apprezzata da Van Dyck e persino da Michelangelo che la sfidava a colpi di disegni. Oppure Lavinia Fontana, che scorrazzò al seguito del papà libraio da Genova a Firenze fino a Fontainebleau. O, ancora, Artemisia Gentileschi, arcinota alle cronache per il fatto atroce dello stupro ma amazzone di una pittura teatrale fatta di palpito e dramma.

In questa compagine di regine, Fede scontò forse la tranquillità di un’esistenza senza traumi, punteggiata di fiducia e consensi, che non fecero di lei un caso o un personaggio da romanzo, anche se il piglio energico dei suoi ritratti, alternato alla metafisica delle nature morte inventate prima di Caravaggio, la consegnò all’empireo dei maestri del Seicento. I prestiti alla mostra sono arrivati dalla Pinacoteca di Brera, dagli Uffizi di Firenze, dalla Carrara di Bergamo, dalla Fondazione Cini di Venezia, dalla Galleria Borghese di Roma, oltre che dai musei stranieri di Varsavia, Sarasota e dal Palacio Real de la Granja de San Ildefonso, la piccola Versailles di Castiglia e Leòn.

Nella vecchia Factory. Partendo dalla scena madre del Concilio di Trento in seduta plenaria immortalata da Fede con l’animo del cronista, il percorso semina tracce dei suoi spostamenti e della sua crescita professionale, dalle relazioni con la dinastia dei Madruzzo, reggenti del principato vescovile di Trento, alla decisione di partire per Milano dove, col padre, fondò una vera factory specializzata in produzioni d’alta moda, ventagli eseguiti con ricette segrete (di cui depositarono un copyright inviolabile) oltre a paste muschiate, ovvero profumi per tessuti da cerimonia richiesti dalle dame dell’alta società.

Ma la fiera delle vanità non era esattamente in cima ai pensieri di Fede. Più severa ed interessata ad affermare la sua indipendenza rispetto alle luci della ribalta, scantonò dalle commissioni di bottega e dal backstage dei teatri dove si inscenavano La caduta di Fetonte o La pellegrina con i costumi di Buontalenti, preferendo concentrarsi su pale sacre suntuosissime, da imballare e spedire in mezza Italia. Come il “San Carlo davanti al Sacro Chiodo” nella chiesa di San Carlo delle Mortelle a Napoli, che firmò “figlia di Nunzio Galizia, trentino” attaccatissima alle sue origini, oppure l’ammirato “Noli me tangere”, che stava nel soppresso monastero della Maddalena di Milano (oggi è a Brera), capolavoro di sentimenti umani e grazia divina in tandem.

Lo sponsor Arcimboldo.

Incoraggiata dal grande Arcimboldo, che sponsorizzò il suo nome in varie corti illuminate, Fede riuscì a mettere in posa anche prelati e potenti, come Ludovico Settala, il medico della peste ricordato da Manzoni, o il gesuato Paolo Morigia (1592-95), esposto in Duomo per essere lodato da tutti e distinto da un paio di occhiali riflettenti di precisione fiamminga. Scavando in una cronologia a singhiozzo, che la vede affiorare e riemergere in punti diversi di una geografia frenetica, resta la curiosità sui lineamenti del suo volto che, a differenza delle colleghe più disinvolte, non immortalò mai. O quasi.

Nella sequenza delle celebri Giuditte dipinte a inizio carriera e replicate come un core business amato dai collezionisti, Fede Galizia nascose probabilmente le sue fattezze nel viso dell’eroina biblica che servì agli assiri la testa di Oloferne su un piatto d’argento. Nell’esemplare strepitoso arrivato da Sarasota (1596) colpisce la candida freddezza della fanciulla avvolta in abiti preziosi che distolgono dal delitto. Non casuale è la firma sulla spada lucente: affermazione risoluta di un’identità femminile libera e fiera. Un angelo armato, avatar di Fede che, già nel nome, custodiva il suo destino.

 

                                                                  Chiara Gatti